Cerca il tuo libro Star Wars a Lucca Comics & Games (per strada o in un bar!)

Non potevamo far passare inosservate le celebrazioni per lo STAR WARS READS in Italia, poiché negli ultimi 6 anni abbiamo sempre onorato le date ufficiali del mondo di Star Wars.

NON SOTTOVALUTATE IL POTERE DELA LETTURA!

#ioleggostarwars

Per gli amanti della letteratura che arriva da una Galassia Lontana Lontana, ci sarà una piacevole sorpresa legata alle celebrazioni italiane dello Star Wars Reads, che quest’anno include tutto il mese di ottobre proprio a Lucca Comics & Games. 

In tutta la città, tra sabato 29 e domenica 30 ottobre verranno abbandonate più di 200 copie dei libri della saga. Chi verrà a trovarci nell’area dedicata potrà con il libro trovato e la cartolina che abbiamo nascosto al suo interno, ritirare un poster in edizione limitata dedicato proprio all’evento 2016! 

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Come tutti gli anni, anche in Piazza San Giusto, all'interno del NetAddiction Dome, ci sarà un angolo tutto dedicato alla nostra COLLANA STAR WARS. 

Tra i titoli da non perdere sicuramente Star Wars Battlefront  – Compagnia Twilight, Star Wars Una Nuova Alba di J. Miller e in anteprima nazionale il romanzo L’erede Dei Jedi di KEVIN HEARNE.

Per chi è rimasto indietro di qualche pubblicazione, nessun problema: vi aspetteremo in stand con la promozione 3x2, che vi garantirà il miglior prezzo sull'acquisto di 3 volumi Multiplayer Edizioni.

Non ci resta che augurarvi di trovare un libro Star Wars quest'anno a Lucca e aspettarvi per il ritiro della litografia in edizione limitata.

Che la Forza sia Con Voi!


Ringo Chiamata Alle Armi a Lucca Comics & Games 2016 - Anteprima

VENNE ALLA SPIAGGIA UN PISTOLERO ... 

La fine del mondo non era poi stata questa gran cosa.
Un sole si era acceso e due miliardi di vite si erano spente. Tutto qui. La Svizzera era stata l’epicentro di una palla di fuoco che si era velocemente allargata, divorando tutto quello che si trovava sul proprio cammino: la Spagna, il Portogallo, la Francia, la Germania, il Belgio, i Paesi Bassi, l’Austria, tutte quella nazioni del centro e dell’est di cui nessuno si ricordava mai il nome, una bella fetta della Russia e due terzi abbondanti dell’Italia, se n’erano andati in pochi minuti facendosi prima fiamma e poi cenere.

Così inizia la storia di Roberto Recchioni, illustrata da Emiliano Mammucari, che vi farà entrare nel mondo del primo romanzo spin off della celebre serie a colori Bonelli, Ringo: Chiamata alle armi. 

Il volumetto che Multiplayer Edizioni ha stampato in più di 10 mila copie, sarà disponibile a Lucca Comics & Games, presso il Netaddiction Dome, in Piazza San Giusto (Area Multiplayer Edizioni) ed è un primo racconto (con due illustrazioni inedite)  ispirato a quello che sarà poi il plot del romanzo.

Tutti coloro che lo richiederanno potranno averlo in omaggio come  pure sarà gratis per tutti coloro che compreranno un volume della collana MULTIPOP. 

Non è tutto.

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Durante i giorni di fiera sarà possibile pre-ordinare il ROMANZO (che uscirà il 13 aprile 2017) assicurandosi non solo uno sconto sulla Limited Edition, ma ricevendo anche in omaggio la BANDANA DI RINGO autografata da Roberto Recchioni. 

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Curiosi di vedere qualcosa in più sull'edizione da collezione?

Il libro sarà cartonato con rilegature di pregio ed interni a colori e inserito in un astuccio con la bandana di Ringo, il protagonista.

Il prezzo? 25 Euro.

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I due autori saranno a vostra disposizione presso il Padiglione Netaddiction Dome, in Piazza San Giusto secondo questo calendario:

  • Roberto Recchioni:

lunedì 31 ottobre dalle 18.00 alle 19.00

martedì 1° novembre dalle 16.00 alle 17.00

  • Emiliano Mammucari

Domenica 30 ottobre dalle 10 alle 11.30

Vi aspettiamo!

 

 


Lucca Comics & Games: dove siamo e cosa facciamo

Stesso posto, stesso mare ... O quasi.

Multiplayer Edizioni vi aspetta come tutti gli anni a Lucca Comics & Games, sempre nel padiglione di famiglia, il Netaddiction Dome insieme a tutti i suoi coinquilini, dal 28 ottobre al 1° novembre in PIAZZA SAN GIUSTO

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In attesa dell’uscita del romanzo che la casa editrice pubblicherà la prossima primavera, i visitatori verranno omaggiati di una storia inedita di Ringo Chiamata alle Armi scritta da Roberto Recchioni con due illustrazioni di Emiliano Mammucari e potranno effettuare il pre ordine del libro ricevendo in omaggio la bandana di “Ringo” autografata da Roberto Recchioni.

 I lettori di tutte le Galassie lontane invece troveranno il consueto spazio dedicato alle letteratura di Star Wars e un poster in edizione limitata per celebrare lo Star Wars Reads Day 2016

È la Lucca dei grandi ritorni grazie all’attesissimo “Inferno Eterno” di J.L. Bourne, conclusione della saga “Diario di Un Sopravvissuto agli Zombie” e di Metro 2035 e Futu.re ultime novità di Dmitry Glukhovsky.

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In 200 metri quadrati di esposizione, Netaddiction Dome offrirà un’esperienza di intrattenimento a 360°. Un grande store, il più grande mai realizzato a Lucca da Multiplayer.com, ospiterà il meglio della gadgettistica geek da collezione e non, con uno spazio importante dedicato a toys esclusivi come la pasta intelligente e l’attesa sabbia intelligente, una moderna sabbia cinetica e un giocattolo idoneo a intrattiene grandi e piccoli e alcune anteprime della nuova linea di giocattoli da collezione, Multiplayer Things.

Di questo spazio una grande area sarà dedicata al mondo dell’editoria cartacea di Multiplayer Edizioni e alle novità editoriali sempre attese dai lettori a Lucca.

 Le anteprime

Tra tutte, la più attesa sarà sicuramente l’anteprima omaggio del prequel del primo romanzo ispirato a Orfani, “Ringo Chiamata Alle Armi” con due illustrazioni create ad hoc da Emiliano Mammucari.

Il volumetto sarà regalato a tutti coloro che lo richiederanno e che effettueranno un acquisto della collana Mulipop di Multiplayer Edizioni.

Inoltre, coloro che effettueranno il pre-ordine del libro in fiera riceveranno in omaggio subito la bandana di Ringo, autografata da Roberto Recchioni.

In agenda: le sessioni di firme con gli autori italiani presenti a Lucca - Roberto Recchioni, Emiliano Mammucari e Matteo Strukul

Gli autori saranno presenti al Padiglione Netaddiction Dome nei seguenti giorni:

  • Roberto Recchioni:

lunedì 31 ottobre dalle 18.00 alle 19.00

martedì 1° novembre dalle 16.00 alle 17.00

  • Emiliano Mammucari

Domenica 30 ottobre dalle 10 alle 11.30

A completare l’offerta di Multipop, non mancherà Matteo Strukul l’autore dell’amato I Cavalieri del Nord.

I Cavalieri Del Nord

Lo scrittore sarà presente per incontrare i lettori domenica 30 e lunedì 31 ottobre dalle 12.00

APOCALITTICI: Inferno Eterno – Diario Di Un Sopravvissuto agli Zombie di J.L. Bourne e Grey Fox

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Il tempo è un'entità straordinariamente fluida. Nessuno riesce a comprenderne la natura, se non nei termini in cui viene misurata. Tuttavia, in qualità di artefice e orchestratore dell'universo di Diario di un sopravvissuto agli zombie, io posso assaporare la libertà di controllare il tempo. E ho la facoltà di orientare i riflettori della trama in qualsiasi direzione, esplorando a mio piacimento la linea cronologica del continuum narrativo. È uno dei benefici legati al processo creativo, uno dei vantaggi di plasmare qualcosa (per quanto piccolo) dal nulla. Ma ora vi starete chiedendo cos'abbia in mente il suddetto orchestratore, non è così? Ebbene, vi siete imbattuti in un biglietto di prima classe per un nuovo e desolante viaggio tra le lande dell'apocalisse, anche se questa volta il treno è più vecchio, più logoro e forse persino più saggio.

Ricordate di chiudere i portelli dei vagoni.

A distanza di alcuni anni e dal lancio proprio a Lucca Comcis & Games della saga zombie che ha appassionato migliaia di lettori in Italia, torna il quarto capitolo della serie survival – horror Diario Di Un Sopravvissuto Agli Zombie, di J.L. Bourne.

Il volume, in anteprima nazionale, conterrà uno spin off del pubblicata in USA solo in formato Kindle, dal titolo “Grey Fox”, una storia liberamente ispirata e ambientata nell’universo di Diario di Un Sopravvissuto agli Zombie.

 

 

Il ritorno di Dmitry Glukhovsky: Futu.re e Metro 2035

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È disponibile da pocchissimi giorni in tutte le librerie e segna il ritorno di un autore molto amato in Italia dagli amanti della fantascienza post apocalittica: Dmitry Glukhovsky firma un romanzo straordinario, Futu.re che vi porterà in una dimensione della fantascienza. Eternamente giovani? Ma a quale prezzo.

Con Metro 2035 si chiude la rassegna dedicata all’universo che ha ispirato videogiochi, artisti e scrittori.

A Lucca sarà possibile acquistare la trilogia completa, usufruendo delle particolari scontistiche che si applicano in fiera.

Nel cuore di Lucca, batte il cuore geek del Netaddiction Dome. Tutto quello che troverete.

Netaddiction Dome sarà un’isola geek nel cuore dell’evento: sarà disponibile per tutta la durata della fiera, l’accesso gratuito alla rete Wi-Fi, grazie alla tecnologia messa a disposizione dai router Netgear; per ricaricare le batterie dei cellulare e dispostivi mobili, saranno allestiti dei refresh point tecnologici per tutti i visitatori; all’interno dell’area saranno disponibili inoltre per tutti i lettori i redattori delle principali testate del gruppo tra cui Multiplayer.it, Leganerd.com, Movieplayer.it e HDBlog.it.

Non mancherà naturalmente l’intrattenimento videoludico nell’area dedicata a Multiplayer.it con una grande anteprima, Tekken7, giocabile su 4 postazioni di gioco fisse.

Lunedì 31 e martedì 1° novembre dalle 12.00 alle 18.00, grazie alla collaborazione di BANDAI NAMCO Entertainment e alla più grande community italiana esistente Tekken-Italia, verrà realizzato un torneo con i più grandi campioni del gioco, selezionati sul forum nelle prossime settimane. Saranno circa una quarantina a partecipare alla sfida che si terrà presso il padiglione Netaddiction Dome. Per loro Giacomo Bevilacqua ha creato un art a colori ispirato proprio a Tekken7, che riceveranno in regalo al termine delle sessioni di gioco.

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Il vincitore del PRIMO TORNEO DI TEKKEN 7 A LUCCA COMICS & GAMES si aggiudicherà invece un premio speciale personalizzato.

Inoltre Per coloro che vorranno prenotare il titolo che uscirà la prossima primavera sullo store online Multiplayer.com, sarà possibile effettuare il pre-ordine usufruendo di uno sconto di 5 Euro con in omaggio anche la litografia esclusiva di Giacomo “Keison” Bevilacqua, il papà di "A Panda Piace"

Multiplayer.com porta a Lucca il meglio della gadgettistica geek e sconti imperdibili sui più importanti titoli videoludici del momento. Atteso il lancio della nuova release di giocattoli targata Multiplayer Things

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Quasi 20 metri lineari di bancone ospiteranno l’area dedicata allo shopping online Multiplayer.com che ha in serbo un grande allestimento di prodotti plurimarca che soddisferanno le esigenze di tanti collezionisti e amanti della cultura nerd, che troveranno oggetti unici e scontistiche speciali sui titoli videoludici in uscita il prossimo inverno.

Dalle offerte sulle release gaming Ubisoft, come Watch Dogs 2 ai titoli Bandai Namco, come Tekken7 e Sword Art Online agli accessori per i gamer, come le cuffie Plantronics e tanti altri articoli.

Tra le novità presentate a Lucca, ci saranno inoltre gli attesissimi Robot della neo linea di giocattoli Multiplayer Things per la prima volta in vendita in Italia: Jeeg Robot D’Acciaio, Mazinga Z, Ufo Robot .

 

 


Anteprima - Star Wars Battlefront Compagnia Twilight

Molti di voi avranno assaporato l'odore della battaglia già con il videogioco uscito la scorsa primavera, ma per chi ama le avventure di Star Wars su carta, sicuramente freme per leggere questo nuovo romanzo della nostra collana.

COMPAGNIA TWILIGHT  è il romanzo parallelo ispirato al videogioco Star Wars™ Battlefront™, questa avventura piena d’azione narra le vicende di una squadra di soldati intrappolati nelle trincee della battaglia galattica finale tra bene e male.

L'autore sicuramente i più ferrati lo conosceranno: Alexander Freed  ha scritto i romanzi di Star Wars: The Old Republic intitolati Blood of the Empire e The Lost Suns. Ha anche scritto la trama della campagna dell’agente imperiale e il romanzo Star Wars: Purge – The Tyrant’s Fist, pubblicato il 23 agosto 2012 e annunciato alla Celebration VI. Freed ha partecipato ai vari Star Wars Reads. Ha lavorato per sei anni come sceneggiatore per conto di BioWare, prima di lasciare la compagnia, nell’ottobre del 2012, per proseguire la carriera di freelance.

Cosa vi aspetta...

I soldati più coraggiosi. I guerrieri più forti. Gli ultimi sopravvissuti.

La Guerra Civile Galattica infuria tra le stelle e nelle vaste distese dello spazio. Sui campi di battaglia dei pianeti dell’Orlo Intermedio, legioni di spietati assaltatori imperiali, decisi a schiacciare la resistenza ovunque si trovi, lottano brutalmente contro l’esercito dei combattenti per la libertà. Nelle strade e nei vicoli delle città in rovina, le forze dell’Alleanza Ribelle contrattaccano, spingendosi sempre più a fondo nel territorio dell’Impero e venendo a contatto con la cruda realtà della guerra.

A guidare la carica – di uomini e donne, umani e non umani – c’è la sessantunesima fanteria mobile, meglio conosciuta come Compagnia Twilight. Duri e fortemente leali gli uni agli altri, i membri di questa squadra riescono sempre ad avere la meglio dove gli altri falliscono, e il coraggio è l’arma più potente ogni volta che la fortuna volge loro le spalle. Nonostante ciò, la Twilight è costretta a obbedire all’ordine dei Ribelli di ripiegare di fronte alla schiacciante superiorità numerica del nemico… finché un imprevedibile alleato non giunge a ribaltare la situazione, concedendo ai più temerari combattenti dell’Alleanza un’occasione cruciale per trasformare la ritirata in vittoria.

Ordini o no, da soli e in svantaggio ma più tenaci che mai, i soldati della Compagnia Twilight si preparano a compiere la loro impresa più audace, passando dalle grezze trincee a un attacco decisivo contro il più improbabile dei bersagli: il cuore pulsante della macchina militare imperiale!

 

L’Impero Galattico è sopravvissuto. Nonostante l’Alleanza Ribelle sia riuscita a distruggere la terri cante Morte Nera, l’Impero continua a opprimere innumerevoli pianeti.

Guidato dall’Imperatore e da Darth Vader, un esercito di assaltatori esperti e determinati schiaccia i dissidenti e distrugge tutti coloro che osano ribellarsi.

Su pianeti come Sullust, Coyerti, Haidoral Prime e molti altri, però, le forze ribelli continuano a lottare nelle trincee, più decise che mai a scon ggere la spietata macchina bellica imperiale...

Qui è possibile scaricare un'anteprima corposa del romanzo che troverete la prossima settimana a MILAN GAMES WEEK nel nostro bellissimo STAND 

Per comprare il libro subito subito, potete visitare il nostro store online : Multiplayer.com come sempre i nostri libri sono tutti scontati del 15%  e con spedizioni gratuite! 

NON CI RESTA CHE DIRVI ...Che la Forza sia con voi ...e anche un po' con NOI! :D 


Metro 2035: Artyom torna in superficie...

Tutti voi sapete che Metro 2033 ha creato un universo. Non sappiamo se tutti sapete che i libri 2033, 2034 sono pubblicati anche online, sul sito italiano METRO2033UNIVERSE.IT  

Per non perdere il filo, per capire cosa c'è stato prima, per introdurvi al mondo di Glukhovsky, vi consigliamo vivamente di "frequentare" quelle pagine, non ve ve pentirete.

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Se vi siete persi le news precedenti, forse vi siete dimenticati che siamo al terzo estratto del libro.

Questa è la prima anteprima :

METRO 2035 O LA REALPOLITIKE DI DMITRY GLUKHOVSKY – ANTEPRIMA

Poi potrete proseguire fino al secondo capitolo compreso, a questo LINK 

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Ora potete procedere qui ...

Capitolo Due 

LA METROPOLITANA

“Ma tu almeno cerchi di ascoltarmi?”, chiese ad Anya.
Lei però non c’era già più nella tenda.
I suoi vestiti erano esattamente dove li aveva buttati:

nel passaggio. Anya non li aveva messi in ordine, non li aveva raccolti. Ci era passata sopra come se avesse paura di toccarli. Di contaminarsi. Forse ne aveva sul serio.

Probabilmente la coperta a lei serviva di più. Lui trovava sempre il modo di scaldarsi.

Meno male che se n’era andata. Grazie, Anya, di non aver parlato con me, di non avermi risposto.

“Grazie, cazzo!”, esclamò a voce alta.

“Permesso?”, disse qualcuno attraverso il telone, proprio sopra il suo orecchio. “Artyom, non dorme?”

Artyom si allungò per prendere i suoi pantaloni.

Là fuori, seduto su uno sgabello pieghevole da campo, lo aspettava un vecchio dal viso troppo dolce per la sua età. Se ne stava seduto bello comodo, in equilibro, ed era chiaro che si era sistemato lì da un po’ e non aveva alcuna intenzione di andarsene. Il vecchio era forestiero, non della loro stazione: faceva delle smorfie, aveva imprudentemente inspirato col naso. I forestieri si riconoscevano subito.

Con le mani Artyom si riparò dalla luce rossa che inondava la stazione VDNKh ed esaminò l’ospite.

“Che ti serve, vecchio?”
“Lei è Artyom?”
“Diciamo di sì”, Artyom inspirò l’aria col naso. “Dipende”. “Io sono Omero”, dichiarò il vecchio senza alzarsi.

“Mi chiamo così”.
“Davvero?”
“Io scrivo libri. Anzi, un libro”.
“Interessante”, rispose Artyom con una voce che esprimeva

l’esatto contrario.
“Un libro storico, diciamo così... ma che riguarda i nostri

giorni”.
“Storico”, ripeté Artyom con prudenza mentre si guardava

intorno. “A che scopo? Dicono che la storia non ci sia più! Finita!” “E noi? Qualcuno dovrà pur raccontare ai posteri tutto

quello che ci sta succedendo qui”.

Se non veniva da parte di Melnik, pensava Artyom, chi era? Da chi era mandato? A che scopo?

“Ai posteri. È una cosa sacra”.

“Da una parte bisogna raccontare quello che è più importante, cioè come viviamo qui. Bisogna raffigurare tutte le tappe, le peripezie, diciamo. D’altra parte, come si fa? Gli aridi fatti si dimenticano. Se si vuole che le persone si ricordino, serve una storia vera, un protagonista. Io ho cercato del materiale, ho provato di tutto. Credevo di averlo trovato. Ma quando mi ci sono messo... non ha funzionato. E poi ho sentito della VDNKh e...”

Si vedeva che il vecchio faceva fatica a spiegarsi, ma Artyom non aveva intenzione di aiutarlo. Non riusciva a capire cosa sarebbe successo. Dal vecchio non veniva energia negativa, si capiva solo che era fuori posto, eppure tra lui e Artyom si stava coagulando qualcosa nell’aria, si stava formando qualcosa pronto a esplodere, a bruciare e a spargere frantumi.

“Mi hanno raccontato della VDNKh... dei Tetri... e di lei. E ho capito che dovevo trovarla per...”

Artyom annuì: era finalmente arrivato al punto. “Un’ottima storia”.
E si allontanò senza salutarlo, con le mani perennemente

gelate infilate nelle tasche.
Il vecchietto rimase lì sul suo comodo sgabello, continuando

a spiegare qualcosa alla schiena di Artyom. Ma lui aveva deciso: era diventato sordo.

Sbatté le palpebre – gli occhi si erano ormai abituati, poteva non strizzarli più.

Avevano impiegato più tempo per familiarizzare col mondo in superficie. Un anno, se non di più! La maggioranza degli abitanti della metropolitana, se esposti alla luce del sole, seppur sfocata dalle nubi come quella odierna, sarebbe probabilmente diventata cieca per sempre. Dopo una vita al buio. Artyom invece si era forzato a guardare in superficie, a vedere il mondo nel quale era nato. Perché se non sopporti il sole, come potrai un giorno risalire?

Tutti quelli nati nella metropolitana erano cresciuti senza sole, come i funghi. Nessun problema: si era scoperto che agli uomini serviva la vitamina D, non il sole. Si poteva mangiare la luce solare sotto forma di compresse. Si poteva vivere anche a tastoni.

Nella metropolitana non c’era illuminazione né elettricità in comune. Non c’era niente in comune, in realtà: ognuno pensava per sé. In alcune stazioni si erano ingegnati a produrre abbastanza luce perché fosse quasi come prima. In altre, l’elettricità era sufficiente per una sola lampadina che ardeva in mezzo alla banchina. In altre stazioni ancora era buio come nelle gallerie. Se si andava lì con una torcia in tasca, si riusciva a guadagnare terreno sulle tenebre: il pavimento, il soffitto, una colonna di marmo. Alla luce della sua lanterna si affacciavano gli abitanti della stazione, desiderosi di vedere un po’. Ma avrebbero fatto meglio a non mostrarsi: si erano abituati perfettamente a vivere senza occhi, ma le loro bocche non si erano cicatrizzate.

Nella stazione VDNKh la vita era ben organizzata e la gente era viziata. Nelle tende di alcuni ardevano dei piccoli diodi portati giù dalla superficie e nelle zone comuni c’era la vecchia illuminazione, sopravvissuta ai guasti: delle lampade dentro paralumi rossi di vetro, una luce ideale per sviluppare le fotografie, per esempio. Anche l’anima di Artyom con questa luce si manifestava lentamente e si vedeva che era stata ripresa ancora lassù, in una chiara giornata di maggio. Mentre in un cupa giornata di ottobre era stata bruciata.

“Una storia meravigliosa, non è vero, Zhenya? Ricordi i Tetri?”, sussurrava Artyom, ma rispondevano sempre gli altri. Rispondevano sempre quelli sbagliati.

“Salve, Artyom!”
“Oh, Artyom!”
Tutti si salutavano. Qualcuno sorrideva, qualcun altro

aveva un’aria accigliata, ma si salutavano, tutti. Perché tutti si ricordavano dei Tetri, e non solo Zhenya e Artyom. Tutti ricordavano quella storia, anche se nessuno la conosceva.

Stazione della metropolitana VDNKh: ultima fermata. Casa sua. Lunga duecento metri e abitata da duecento persone. Lo spazio era quello giusto: di più non sarebbero riusciti a respirare, di meno non si sarebbero scaldati a vicenda.

La stazione era stata costruita cento anni prima, ai tempi del precedente Impero, coi tipici materiali di quel periodo: marmo e granito. Era stata concepita come un palazzo solenne, ma scavata sottoterra; il risultato era una via di mezzo tra un museo e un mausoleo. Lo spirito degli avi era lì, come del resto anche nelle altre stazioni, perfino in quelle più recenti, assolutamente incrollabile. Gli abitanti della metropolitana erano aumentati, eppure continuavano a stare seduti sulle ginocchia bronzee degli antichi vegliardi, e non c’era modo di scendere – non li mollavano. Sotto le arcate, fra solenni colonne annerite dal fumo, erano state sistemate vecchie e consunte tende militari: in ognuna viveva una famiglia, in alcune due. Mescolando a caso questi nuclei, nessuno avrebbe probabilmente notato la differenza: ciò accade quando si vive insieme da vent’anni nella stessa stazione, quando tra i tuoi segreti e quelli dei tuoi vicini, tra tutti i lamenti e le urla, c’è solo un pezzo di tela.

Da qualche altra parte le persone si sarebbero già mangiate a vicenda – per l’invidia, la rabbia verso Dio che ama di più i figli degli altri, per l’incapacità di condividere il proprio marito o la propria moglie; la sola superficie abitativa sarebbe stata ragione sufficiente per ammazzare, ma non lì, non alla VDNKh. Lì si era creata una grande famiglia.

Come in campagna o in una comune. Non c’erano bambini altrui: se ai vicini nasceva un bimbo sano tutti facevano festa, se te ne nasceva uno malato ti aiutavano ad andare avanti, ognuno come poteva. Non c’era lo spazio per spostarsi, anche gli altri si sarebbero mossi. Se litigavi con un amico la mancanza di spazio vi obbligava a far pace. Se tua moglie se ne andava, prima o poi la perdonavi. In realtà non era andata da nessuna parte, era rimasta lì, in quella sala di marmo sulla quale gravava un milione di tonnellate di terra, al massimo dormiva dietro un altro pezzo di tela. Vi incontrereste ogni giorno, e non una volta, ma cento. Vi toccherebbe trovare un accordo. Non riusciresti a pensare a come vivere senza di lei.

La cosa fondamentale era essere tutti vivi, per il resto... Come in una comune o in una grotta.

Da lì partiva il tunnel meridionale che portava alla stazione Alekseevskaya e oltre, verso la grande metropolitana, ma... Ma il punto era proprio che la stazione VDNKh era l’ultima. Viveva lì chi non voleva e non poteva più andare da nessun’altra parte, chi aveva bisogno di una casa.

Artyom si fermò vicino a una tenda, si bloccò. Rimase lì illuminando con la sua torcia l’interno del giaciglio attraverso la tela lisa, finché non uscì una donnetta col viso gonfio.

“Salve, Artyom”.
“Buongiorno, Katerina Sergeevna”.
“Zhenya non c’è, Artyom”.
Lui annuì. Gli venne voglia di accarezzarle i capelli,

di prenderla per mano, di dirle: “Sì, lo so. So tutto, Katerina Sergeevna. O lo racconta a se stessa?”

“Vai, Artyom, vai. Non stare qui in piedi. Vai là, beviti una tazza di tè”.

“Sì, sì”.

Il salone della stazione era tagliato all’altezza delle scale mobili da un’estremità all’altra – si erano murati dentro in modo che l’aria avvelenata non filtrasse dall’esterno... e per difendersi da ospiti indesiderati. Da una parte, dove c’era la nuova uscita, era murato completamente. Dall’altra, presso la vecchia, era stata lasciata un’apertura per salire in città.

Accanto al muro cieco si trovava la cucina. Ai fornelli le donne col grembiule erano tutte affaccendate a mettere insieme il pranzo per figli e mariti; l’acqua scorreva attraverso i filtri a carbone, gorgogliava fluendo nei serbatoi, quasi trasparente; ogni tanto il bollitore iniziava a fischiare – dalla fattoria avevano mandato uno a prendere l’acqua bollente, e costui si strofinava le mani contro i pantaloni, cercava tra le cuoche sua moglie per toccarle il sedere, ricordarle il suo amore e, già che c’era, scroccare qualcosa di quasi pronto da mangiare.

I fornelli, i bollitori, le stoviglie, le sedie e i tavoli – tutto apparteneva al kolkhoz, ma le persone trattavano le cose con cura, non le rovinavano.

Tutto, a parte il cibo, veniva portato dall’alto; nella metropolitana non si riusciva a fare nulla di decente. Per fortuna i morti, quando ancora pensavano di vivere, avevano messo da parte un sacco di cose utili: lampadine, generatori diesel, cavi, armi, pallottole, stoviglie, mobili; avevano cucito mucchi di vestiti. Adesso si potevano indossare, come si fa con le cose dei fratelli o delle sorelle maggiori. Sarebbero bastati per lungo tempo, in tutta la metropolitana c’erano circa quarantamila persone – a Mosca prima vivevano quindici milioni di abitanti, tutti avevano trecento parenti. Si radunavano senza fare rumore, allungavano in silenzio i loro vestiti smessi: prendili, prendili, sono quasi nuovi, a me stanno piccoli.

Bisognava solo controllare le cose col dosimetro, per essere sicuri che non fossero troppo contaminate, ringraziare e utilizzarle.

Artyom arrivò fino alla coda del tè e si mise in fila.

“Artyom, ma dove vai? Come se non fossi uno di noi... E si mette anche in fila! Siediti ai piedi della verità... Ti verso qualcosa di caldo?”

Lì comandava Dasha, detta anche Pelliccia, una donna sulla cinquantina che non voleva affatto pensare alla sua età. Era arrivata a Mosca da un qualche paesino sperduto nei pressi di Yaroslav tre giorni prima che tutto crollasse. Per comprarsi una pelliccia. E l’aveva acquistata. Da allora non se l’era più tolta, né di giorno né di notte, neanche per andare al gabinetto. Artyom non rideva mai di lei, magari fosse rimasto anche a lui un pezzo della sua vita precedente! Un pezzo di maggio o di gelato, l’ombra dei pioppi o il sorriso della mamma...

“Sì, grazie, zia Dasha”.

“Cosa continui a chiamarmi zia?”, disse con aria di rimprovero, ma anche con una certa civetteria. “Beh, cosa succede lassù? Com’è il tempo?”

“Pioviggina”.

“Non è che finiamo di nuovo allagati? Senti, Aygul? Dicono che piove”.

“È Allah che ci castiga per i nostri peccati. Guarda, ti si starà mica bruciando il maiale?”

“Tiri sempre in ballo il tuo Allah! Sempre Allah! Ma è vero, si sta bruciando... Come sta il tuo Mekhmet? È tornato dall’Hansa?”

“Sono tre giorni che non c’è! Tre!”
“Non essere così in pensiero...”
“Dasha, te lo giuro su ciò che mi è più caro, si è trovato

un’altra! Una delle vostre! Vive nel peccato...”
“Vostre, vostre... cosa dici? Qui siamo tutti uguali,

Aygulka... andiamo tutti d’accordo”.
“Si è trovato una che gliela dà, per Allah...”
“Anche tu avresti potuto dargliela più spesso... Gli uomini

sono come gattini, girano finché non trovano...”
“Ma cosa state dicendo? È in giro per affari!”, intervenne un ometto alto quanto un bambino, con un viso quasi infantile, ma molto più emaciato; per qualche motivo non

era cresciuto normalmente.
“Va bene, va bene. Tu, Kolya, non coprire i tuoi

amichetti! E tu, Artyom, non ascoltare noi donne. Forza, soffia, è bollente”.

“Grazie”.

Si avvicinò un uomo tutto coperto di vecchie cicatrici bianche e completamente calvo, che tuttavia non faceva paura grazie alle sopracciglia folte e al tono evasivo. “Saluto tutti i presenti, le signore a parte! Chi è in fila per il tè? Io allora sono dopo Kolya. Avete già sentito dell’Hansa?”

“Cos’è successo all’Hansa?”

“Il confine è chiuso. Come ha detto qualcuno, si è accesa la luce rossa, non si passa. Cinque dei nostri sono bloccati là”.

“Aygulka, mescola i tuoi funghi”.

“E il mio uomo è lì! E io...! Per Allah... come l’hanno chiuso, Konstantin?”

“L’hanno chiuso e basta. Non è affar nostro. Un ordine è un ordine”.

“Combatteranno di nuovo! Combatteranno di nuovo con la linea Rossa, eh? Magari fossero già crepati tutti! E chi lo sa, Konstantin? Da chi devo andare io? Il mio Mekhmet...”

“Lo fanno per profilassi. Io vengo da lì, è una quarantena per il commercio. Apriranno presto. Buongiorno”.

“Oh buongiorno, buonuomo. È venuto a trovarci? Da dove arriva?”

“Dalla stazione Sevastopolskaya. Mi posso sedere qui?”

Artyom smise di inspirare il vapore bollente e si staccò dalla tazza bianca col bordino dorato scheggiato. Il vecchio era arrivato arrancando fino a lì, lo aveva trovato e ora lo stava studiando di sottecchi, con la coda dell’occhio. Pazienza. Non poteva scappare.

“Ma tu, nonnino, come hai fatto ad arrivare se hanno chiuso tutto?”, Artyom costrinse il vecchio misterioso a guardalo negli occhi.

“Mi sono intrufolato per ultimo”, quello non batteva ciglio, non eludeva la domanda. “Subito dopo me, hanno chiuso”.

“Noi vivremmo anche senza di loro, senza l’Hansa! Ma che provino invece loro, quei parassiti, a vivere senza il nostro tè, senza i nostri funghi! Noi ce la caveremmo, con l’aiuto di Dio!”

“Apriranno... E se non lo facessero? Il mio Mekhmet?”

“Aygulka, vai da Sukhoi. Lui il tuo Mekhmet te lo trova in quattro e quattr’otto. Non ti abbandona. Vuoi un po’ di tè? Hai già provato il nostro?”

“Non lo rifiuto”, il sedicente Omero scosse la barba con dignità.

Sedeva di fronte ad Artyom, sorseggiava il loro decotto di funghi chiamato con orgoglio, ma in modo infondato, tè – quello vero era già stato bevuto tutto una decina di anni prima – e aspettava. Anche Artyom attendeva.

“Chi va a prendere l’acqua bollente?”

Artyom ebbe una fitta al cuore: si era avvicinata Anya. Gli dava le spalle e non lo aveva notato.

“Anyuta, oggi lavori?”, le si rivolse subito Pelliccia, strofinando le mani contro le tasche di pelo consunto. “Funghi?”

“Funghi”, rispose quella sempre di spalle per non voltarsi; aveva visto tutto.

“Ti faranno male le reni a furia di stare sempre chinata”. “Mi si spezzano, zia Dasha”.
“I funghi non sono mica come i porci!”, disse la strabica

e grossa Aygul con un verso di disapprovazione. “Chinata, lei... Prova un po’ a stare nella merda!”

“Stacci tu nella merda. Ognuno si sceglie il lavoro che gli piace”, ribatté fermamente Anya.

La sua replica fu calma, ma Artyom sapeva che proprio quando parlava con quel tono pacato era capace di colpire. Era pronta a tutto, era addestrata. Col padre che si ritrovava...

“Non litigate, ragazze”, borbottò Konstantin col viso a strisce. “Tutte le professioni sono necessarie, tutti i lavori sono importanti, come ha scritto qualcuno più saggio di noi. Senza funghi, come si potrebbe dar da mangiare ai maiali?”

I funghi champignon crescevano nel tunnel settentrionale crollato, uno dei due che prima conducevano alla stazione Orto botanico. Trecento metri di piantagioni di funghi e più in là l’allevamento di suini. I maiali li avevano piazzati più lontano perché ci fosse meno puzza. Come se bastassero trecento metri a salvare dal tanfo. La salvezza era un’altra: il funzionamento dei sensi umani.

I nuovi arrivati percepivano l’abominevole odore di maiale per un giorno o due. Poi si abituavano. Anya non si era abituata subito. Gli abitanti del posto da tempo non sentivano più nulla. Loro non avevano neanche un termine di confronto, mentre Artyom sì.

“È un bene quando i funghi piacciono”, disse scandendo le parole e fissando la nuca di Anya. “È più facile andare d’accordo coi funghi che con le persone”.

“È stupido che certi parlino dei funghi con tanto disprezzo”, replicò lei. “Ci sono persone che non è facile distinguere dai funghi, hanno persino le stesse malattie”. Anya finalmente si girò verso di lui. “Ecco, oggi per esempio su metà dei miei funghi c’è della muffa. È comparsa la muffa, capisci? Da dove è spuntata?”

“Che tipo di muffa?”, si preoccupò Aygul. “Ci manca solo la muffa. Che Allah ci salvi!”

“Chi vuole del tè?”, si intromise Pelliccia.

“Ho raccolto una cassetta di marciume”, disse Anya guardando Artyom negli occhi, “ma prima erano dei funghi normali, sani”.

“Questa è proprio una sventura!”, scosse la testa Artyom. “I funghi sono andati a male”.

“Che mangeremo allora?”, osservò Pelliccia ragionevolmente.

“E sarebbe questa una sventura?”, gli rispose Anya con voce bassa e metallica. “Una vera disgrazia è quando nessuno prende più sul serio il grande eroe e salvatore di tutta la metropolitana!”

“Andiamo, Aygul, prendiamo un po’ d’aria”, Pelliccia sollevò il sopracciglio disegnato. “Qui fa piuttosto caldo”.

“Ehmmm...”, Omero si alzò dietro agli altri.

“No”, lo fermò Artyom, “tu non volevi ascoltare la storia dell’eroe? Di Artyom che ha salvato tutta la metropolitana? Ecco, ascolta, ascolta tutta la verità. Pensi che alla gente importi?”

“Il fatto è che le persone hanno da fare. Devono lavorare, dare da mangiare alla famiglia, far crescere i figli. La vera disgrazia è quando qualcuno si tormenta perché non riesce a trovare un’occupazione e si inventa cazzate di tutti i tipi”, Anya si era schierata e sparava contro di lui raffiche di varia durata: breve, breve, lunga.

“No, la sciagura è quando un uomo non vuole vivere come un uomo, ma come un maiale e come un fungo”, rispose Artyom. “Quando lo preoccupa una sola cosa...”

“La sciagura è quando un fungo decide di essere un uomo”, ribatté Anya senza più celare l’odio, “e nessuno gli dice la verità per non rattristarlo”.

“È vero che sui funghi c’è della muffa?”, chiese Dasha, che stava quasi per andarsene.

“È vero”.
“Maledizione!”
“È Allah che ci castiga!”, esclamò Aygul con voce tonante

da un certa distanza. “Per i peccati! Per il fatto che mangiamo carne di maiale!”

“Vai... vai... i funghi ti chiamano...”, Artyom spinse Anya che si era bloccata. “Tossiscono, starnutiscono. Dicono dove sei, mamma?”

“Sei un bastardo. Un inutile bastardo”. “Vai”.
“Mi aspetto più dai funghi che da te”. “Su, vai!”

“Vai tu, piuttosto! Ritorna su! Sistema l’antenna della città!

Squarciati la gola coi tuoi piagnistei. Lì non c’è nessuno, hai capito? Nessuno. Sono tutti crepati. Radioamatore. Coglione”.

“Tu stessa poi...”
“Non ci sarà nessun poi, Artyom. Non ci sarà”.
I suoi occhi erano asciutti. Suo padre le aveva insegnato a

non piangere. Lei aveva un padre vero, non un patrigno.
Si girò e se ne andò.
Artyom rimase chinato sopra la tazza di decotto di funghi,

bianca col bordo dorato sbeccato. Omero sedeva a fianco, in prudente silenzio. In cucina incominciarono a ritornare le persone. Parlavano del fatto che una muffa bianca avesse colpito i funghi, sospiravano al pensiero di una nuova guerra, spettegolavano su quale marito avesse palpeggiato quale donna alla fattoria dei maiali. Passò di corsa un porcellino rosa strepitante seguito da una pallida bambina tisica, un gatto con la coda drittissima aggirò il tavolo, si strofinò contro il ginocchio di Artyom, lo fissò affamato. Il vapore sopra la tazza si raffreddò, il tè si coprì di schiuma. E dentro Artyom tutto iniziò a ricoprirsi di schiuma. Mollò la tazza, guardò in avanti. Lì c’era il vecchio.

“Ecco qual è la storia, nonnino”.
“Io... mi scusi”.
“Sei venuto inutilmente, eh? I posteri non saranno

contenti. Chi li avrà”.
“No, non inutilmente”.
Artyom lo zittì: che vecchio cocciuto!
Sollevò il suo sedere dalla panca, lo trascinò fuori dalla

cucina: la colazione era finita, ora bisognava espletare l’obbligo lavorativo. Omero gli si avvicinò da dietro.

“Mi perdoni... di cosa... di cosa parlava quella ragazza? Un’antenna... Radioamatore... Certo, non è affar mio, ma... Lei sale su? Ascolta la radio?”

“Salgo e ascolto”.
“Spera di trovare altri sopravvissuti?”
“Spero di trovare altri sopravvissuti”.
“E come procede?”
Nella sua voce Artyom non sentì alcuna presa in giro.

L’uomo era semplicemente curioso, come se Artyom si occupasse di una cosa assolutamente comune. Come se avesse portato all’Hansa dei prosciutti secchi.

“Non procede”.

Omero fece un cenno col capo, si rabbuiò. Stava per raccontargli qualcosa, ma poi cambiò idea. Voleva esprimergli il suo dispiacere oppure farlo ragionare? Si fingeva interessato? Ad Artyom non gliene fregava niente.

Arrivarono fino al recinto con le biciclette.

Artyom non amava i funghi perché li amava Anya, non gli piacevano i maiali per la puzza che lui era l’unico a sentire. E si era messo d’accordo: era stato esonerato da quel lavoro in quanto eroe, ma alla VDNKh non davano da mangiare ai parassiti. Se avevi finito il tuo turno al posto di blocco nel tunnel, lavoravi alla stazione. Artyom aveva scelto le biciclette.

Erano quattordici, allineate, col manubrio rivolto verso il muro, al quale erano appesi dei manifesti. Su uno c’erano il Cremlino e la Moscova, su un altro una bellezza appassita in costume rosa, sul terzo i grattacieli di New York, sul quarto un monastero innevato e le feste ortodosse su un calendario a caselle. Segui il tuo stato d’animo e gira i pedali. Le biciclette erano poste su alcune traverse, dalle ruote le cinghie andavano verso la dinamo. A ogni bicicletta era fissato un fanalino che illuminava debolmente il tuo manifesto da sogno. L’elettricità restante andava agli accumulatori per alimentare la stazione.

Le biciclette si trovavano nel tunnel meridionale crollato, i forestieri non vi avevano accesso: erano un obiettivo strategico. Il vecchio non era ancora passato da lì.

“È con me”, disse Artyom alla guardia senza un perché, e Omero fu ammesso.

Artyom salì in sella al telaio arrugginito, strinse il manubrio di gomma. Lì davanti si stagliava il poster di Berlino che si erano procurati grazie ai commercianti di libri dell’Hansa: la porta di Brandeburgo, la torre della televisione e la statua nera della donna con le mani sollevate. Artyom aveva capito che questa porta assomigliava molto all’ingresso della VDNKh, mentre la torre della televisione berlinese, anche se aveva nel mezzo una specie di escrescenza o di bolla sferica, ricordava la torre di Ostankino. E quella statua di donna, che non si capiva bene se urlasse o si stringesse le orecchie... Gli sembrava di non andare da nessuna parte.

“Non vuoi pedalare un po’, nonno?”, Artyom si rivolse a Omero. “Fa bene al cuore. Camperai più a lungo qui”.

Ma il vecchio non rispondeva, guardava con sguardo vitreo le ruote sgonfie che giravano e cercava di aggrapparsi all’aria. Il suo viso era storto come quello di un paralitico: una metà sorrideva, l’altra era atrofizzata.

“Stai bene, nonnino?”, chiese Artyom.

“Sì. Mi sono ricordato di qualcosa, di qualcuno”, Omero emise un suono roco, si schiarì la gola e si riprese.

“Già”.

Tutti avevano delle persone da ricordare. Trecento ombre a persona. Non aspettavano altro. Disponevano i loro calappi, sistemavano i tiranti, tendevano i boschetti, i fili della ragnatela – e aspettavano. A qualcuno la bicicletta senza ruote ricordava di aver insegnato ai figli a pedalare nel cortile, a qualcun altro il fischio del bollitore riportava alla memoria la cucina dei genitori, quando nei giorni di festa andava da loro per pranzare e confidarsi. Strizzavi gli occhi e in quello stesso istante tra un presente e l’altro gli occhi scorgevano improvvisamente il passato e i loro volti. Con gli anni, a dire il vero, vedevano sempre peggio. Pazienza.

“Come hai fatto a sapere di me?”
“La sua fama”, sorrise Omero. “Tutti la conoscono”. Artyom fece una smorfia. “La fama”, pronunciò quella

parola come se volesse sputarla.
“Lei ha salvato la metropolitana, le persone. Se non avesse

eliminato coi missili quelle carogne... A essere onesto, io non capisco. Perché non vuole raccontare questa storia?”

Lo aspettavano la torre della televisione, l’ingresso della VDNKh, la donna nera con le braccia sollevate. Bisognava montare su un’altra bicicletta, ma tutte le altre erano già occupate e ad Artyom era toccata proprio quella. Avrebbe voluto girare i pedali nella direzione opposta, indietro, lontano dalla torre, ma così l’elettricità non veniva prodotta.

“Ho sentito parlare di lei da Melnik”.

“Cosa?”

“Melnik. Lo conosce? Il comandante dell’Ordine. Lei ovviamente è informato sull’Ordine... Gli spartani... Anche lei, da quanto ho capito, ne faceva parte, prima...”

“È stato Melnik a mandarti da me?”

“No. Melnik mi ha semplicemente raccontato quello che lei ha riferito. Dei Tetri. Di come ha percorso tutta la metropolitana... E poi ho iniziato a ricercare da solo, per quanto potevo. Comunque ci sono molte cose non chiare. Ho capito che senza di lei non ne sarei mai venuto a capo e ho deciso...”

“Ha detto qualcos’altro?”
“Chi?”
“Melnik, ha detto qualcos’altro di me?”
“Sì”.
Artyom smise di girare i pedali. Scavalcò il telaio e balzò

sul pavimento. Incrociò le braccia sul petto. “Cosa?”

“Che si è sposato e ha iniziato a condurre una normale vita umana”.

“Ha detto così”.
“Proprio così”.
“Una normale vita umana”, Artyom sorrise.
“Se non mi confondo”.
“Non ha precisato che ho sposato sua figlia?”
Omero scosse la testa.
“È tutto?”
Il vecchio masticò. Sospirò. Confessò. “Ha detto che lei ha

avuto delle turbe mentali”.
“Certo, io ho avuto delle turbe mentali”.
“Io mi limito a riferire quello che ho sentito...” “Nient’altro?”
“Non mi sembra”.
“Per esempio, che mi vuole ammazzare? Per colpa della

figlia... oppure...”
“No, niente di simile!”
“Oppure che mi aspetta di ritorno... nella formazione?” “Non ricordo...”

Rimase in silenzio a digerire le informazioni. Si ricordò che Omero era ancora lì e lo stava studiando.

“Turbe mentali...”, Artyom sghignazzò come poteva.

“Io non lo penso”, lo avvertì Omero. “Qualunque cosa dicano, io sono assolutamente convinto del fatto che...”

“Come fai a saperlo? Come fai?”

“La considerano pazzo solo perché continua a cercare dei sopravvissuti? Solo perché non vuole arrendersi? Ascolti”, il vecchio guardava Artyom con aria seria. “Lei si sta rovinando per gli altri e io non capisco francamente perché loro si comportino così nei suoi confronti”.

“Ci vado ogni santo giorno”.
“Di sopra?”
“Ogni giorno salgo in superficie con la scala mobile. Poi vado

fino a quel grattacielo. Salgo a piedi per la scala fino al tetto. Con lo zaino”.

Quelli sulle bici vicine si misero ad ascoltarlo e rallentarono la loro pedalata.

“Ebbene sì! Non ho mai sentito una risposta! E allora? Cosa vuol dire?!”, Artyom non si rivolgeva più a Omero, ma a tutti quei maledetti ciclisti che correvano verso il muro, verso la Terra. “Questo non vuol dir niente! Come fate a non sentirlo? Devono esserci degli altri uomini! Devono esserci altre città! Non possiamo essere gli unici in questo buco, in queste grotte!”

“Sei furbo tu, Artyom! Ci hai rotto ormai!”, un ragazzo col naso lungo e gli occhietti piccoli non riuscì più a trattenersi. “Gli americani hanno bombardato tutti! Non c’è niente! Cosa continui a tormentarti?! Loro hanno ammazzato noi, noi loro, punto e basta!”

“E se non fossimo gli unici?”, domandò Omero quasi rivolto a se stesso. “Se vi dicessi che...”

“Sale lassù come se andasse a lavorare! Si becca le radiazioni e le passa agli altri! Un cadavere ambulante!”, il ragazzo non riusciva a fermarsi. “Adesso ci contaminerà tutti?!”

“Se vi dicessi che ci sono dei sopravvissuti? Se vi dicessi che ci sono stati segnali provenienti da altre città, e che sono stati intercettati?”

“Ripeti”.

“Ci sono stati segnali da altre città”, disse con fermezza Artyom. “Li hanno colti. Hanno parlato”.

“Balle”.
“Conosco la persona che ha avuto lo scambio via radio...” “Balle”.
“E se ora costui fosse davanti a voi? Cosa direste, allora?”,

Omero strizzò l’occhio ad Artyom. “Allora?”
“Che sei impazzito, nonno. O dici balle. Sono balle, vero? Eh?”

FINE DEL SECONDO CAPITOLO

 


Tomb Raider I Dieci Mila Immortali - Anteprima

Ci siamo quasi.

Dopo tanti problemi e ritardi, abbiamo finalmente una data di uscita definitiva: il libro di Dan Abnett e Nik Vincent arriverà in libreria a Febbraio 2017, e non dovrebbe più subire ritardi. 

Tomb Raider: I Diecimila Immortali espande l’universo del videogioco e con una nuova, emozionante avventura dell’affascinante Lara Croft!

Ecco la premessa che si legge nel libro:

PREMESSA (Estratto dal libro) 

Non è facile, scrivere un romanzo di Tomb Raider.

Doveva iniziare esattamente dove terminava il gioco, con una giovane Lara Croft appena sopravvissuta a una prima terribile avventura. Inoltre, il libro doveva concludersi dove cominciavano i fumetti. Da un punto di vista cronologico non poteva spingersi oltre, né fare qualcosa che avrebbe sconvolto gli eventi già trasposti nei fumetti.

Il romanzo avrebbe avuto anche il compito di piantare dei semi, senza portarli necessariamente tutti a maturazione. Gli eventi de I Diecimila Immortali sono parte del viaggio di Lara verso il videogame sequel Rise of the Tomb Raider. C’erano dunque elementi che potevano essere ben introdotti, e altri che potevano essere solo suggeriti.

In ne, il romanzo doveva soddisfare la comunità dei fan di Tomb Raider, uno splendido gruppo di appassionati di tutto il mondo. Persone che amano Lara Croft, e che sanno essere ferocemente protettive della sua storia, al punto da informarci rapidamente su ogni imprecisione o contraddizione.

Dal punto di vista dell’autore, è come porgerti un solo pastello, un solo foglio, e aspettarsi una copia della Monna Lisa.

Dan Abnett e Nik Vincent ce l’hanno comunque fatta. Ciò ha confermato il nostro appoggio alla decisione della BradyGames di chiedere loro di scrivere il romanzo. Conoscevamo bene il lavoro di Dan Abnett, e quanto bene sapesse scrivere storie per i videogame: per questa ragione, noi della Crystal Dynamics, abbiamo accettato di affidargli il nostro tesoro più prezioso.

La prima stesura del manoscritto è stata valutata attraverso una serie di criteri che andavano ben oltre la qualità della scrittura. Offriva una Lara accettabile da un punto di vista umano? Sì. Manteneva il nostro stile aggressivo? Sì. C’erano spolier del gioco in arrivo? No. Il romanzo conteneva qualcosa che contraddicesse aspetti nel lo originale della storia e degli eventi? Niente che fossimo riusciti a scovare, ma siamo certi che i fan ci faranno sapere se ci fosse sfuggito qualcosa...

Tutto questo signi ca che il manoscritto ha ben superato l’esame, sapevamo che la nostra ducia in Dan Abnett e Nik Vincent era ben risposta. Ovviamente abbiamo avuto dei confronti, ma anche quelli hanno contato più di mille discorsi, dato che Dan e Nik sono stati così aperti e disponibili da raccontare la storia come si deve. Una storia che ci aiuta a condurre Lara là dove in ne deve recarsi. I due autori sono chiaramente appassionati di Lara Croft, e sono riusciti a camminare sul lo e consegnarci una eccellente nuova avventura.

Il risultato è che quella che avete in mano è una nuova storia di Tomb Raider. Fa parte del canone. I suoi eventi appartengono alla storia di Lara e delle sue origini, che è quanto stiamo attualmente raccontando. Siamo davvero emozionati che la storia di Lara si sviluppi ancora, e incredibilmente grati a Dan e Nik per averlo reso possibile.

Godetevela.
Il team della Crystal Dynamics 4 Settembre, 2014

 

Che cosa accade nel libro:

Ancora scossa da ciò che è stata costretta a subire per sopravvivere sull’isola di Yamatai, Lara Croft è determinata a lasciarsi alle spalle il calvario vissuto. Il suo desiderio di tranquillità svanisce, però, quando la sua migliore amica Sam, avvelenata da una qualche sostanza tossica, ha bisogno del suo aiuto per salvarsi.

Lara si mette subito alla ricerca di qualcosa che sia in grado di aiutare Sam. Un filo di speranza nasce dal mito su un antico manufatto misterioso dalle capacità curative, capace forse di spiegare anche gli eventi soprannaturali avvenuti sull’isola Yamatai...

Ma Lara non è l’unica in cerca dell’artefatto: un magnate spietato, una società misteriosa e una serie infinita di tirapiedi non si fermeranno davanti a nulla pur di arrivare a sfruttare il suo potere per i loro subdoli fini. La ricerca spingerà Lara a viaggiare per tutto il globo, attraverso una fitta rete di cospirazioni, sospetti ed enigmi. Un percorso dove il confine tra vita e morte è davvero molto sottile...

tombraider-10000immortali-copertina

 

Per farci perdonare vi anticipiamo un estratto del romanzo e entriamo nel vivo del libro.

Potete scaricare qui i primi due capitoli! 

Fateci sapere cosa ne pensate.

Buona lettura


Metro 2035 - Seconda anteprima e Blogtour Ufficiale

Metro 2035 sta arrivando in libreria e per chi lo  ha prenotato sul nostro e-commerce lo riceverà proprio in queste ore.

Per la gioia di tantissimi lettori affezionati all'universo di Dmitry Glukhovsky, la conclusione della storia di Artyom nella Metro di Mosca si concluderà con questo romanzo.

Alcuni dei migliori booklover della rete italiana si sono organizzati per offrire approfondimenti e recensioni in anteprima del libro e prendere per mano  Per meglio spiegare il mondo articolato e complesso dell'universo di Metro 2033, che ha affascinato in questi ultimi 5 anni tanti lettori ma anche videogiocatori, diversi tra loro,  il tour si svilupperà in diversi momenti.

Ecco le tappe e i criteri per partecipare e vincere copie del libro e dell'intera trilogia. 

29/08 Presentazione BlogTour e Autore

            Il Colore dei Libri 

30/08 "Metro 2033" & "Metro 2034"

            Leggendo Romance 

31/08 Mondo Metro

            DevylishStilish

01/08 Metro 2035

           Lo Scaffale Delle Swappine 

02/09 Videogiochi

            Everpop 

03/09 Opinione Metro 2035

            Viaggiatrice Pigra 

LA LETTURA CONTINUA DAL I CAPITOLO ...

METRO 2035 - Capitolo 1

Qui Mosca

...Nell’angolo c’era anche uno zaino militare, e al muro era attaccata una cornetta blu come quelle delle cabine telefoniche.

Artyom si infilò la tuta. Gli stava larga, come se fosse di un’altra persona. Estrasse dalla borsa la maschera antigas. Tirò l’elastico, la indossò, strizzò gli occhi per abituarsi a guardare attraverso le rotonde finestrelle appannate. Tolse il tubo.

“Sono pronto”.

Uno scricchiolio straziante, e la parete di ferro – non proprio una parete, ma una chiusura stagna – si sollevò. Fuori c’era un’aria fredda e umida. Artyom rabbrividì. Si caricò sulle spalle lo zaino, era pesante quanto un uomo in carne ed ossa.

I gradini della interminabile scala mobile che portava verso l’alto erano consumati e scivolosi. La stazione della metropolitana VDNKh è sessanta metri sottoterra, proprio la profondità sufficiente a evitare le bombe aeree. Ovviamente, se una testata atomica avesse colpito Mosca si sarebbe creata una voragine piena di vetro. Ma tutte le testate atomiche erano state intercettate in alto sopra la città; a terra erano caduti solo frammenti incandescenti, ma che non potevano esplodere. Per questo Mosca era rimasta quasi integra, e persino molto simile a prima, come la mummia somiglia allo zar vivo. Le braccia a posto, le gambe anche, il sorriso...

Le altre città, però, non avevano una difesa antimissile.

Artyom grugnì sistemandosi lo zaino, poi si fece di nascosto il segno della croce, mise i pollici sotto le cinghie troppo lente per tirarle e iniziò la salita.

***

La pioggia batteva sul ferro dell’elmetto e sembrava rimbombare proprio sulla testa di Artyom. Gli stivali di gomma affondavano nel fango, la ruggine scorreva dall’alto verso il basso a rigagnoli, il cielo era ingombro di nubi − non si respirava − e intorno c’erano edifici vuoti, tutti consumati dal tempo. Non c’era un’anima. Non un’anima da più di vent’anni.

Attraverso il viale di umidi ceppi spogli si vedeva l’enorme arco d’ingresso della VDNKh. Un vero museo delle meraviglie: nei falsi templi antichi erano piantati i semi delle speranze in una grandezza futura. La grandezza sarebbe dovuta arrivare presto – domani. Solo che quel giorno non era mai arrivato.

La VDNKh – un posto funesto.

Sino a un paio di anni prima lì abitavano esseri schifosi di tutti i tipi, ma ora non c’erano più neanche quelli. Avevano promesso che il livello di radioattività si sarebbe abbassato e sarebbe stato possibile ritornare pian piano, in fondo là fuori brulicava di mutanti, ed erano anche loro bestioline, seppure un po’ storpie...

Invece niente: dalla Terra si era staccata la crosta di ghiaccio, il pianeta aveva iniziato a respirare e a trasudare, il livello di radioattività era andato alle stelle, e allora i mutanti si erano attaccati alla vita coi loro artigli, e chi c’era non era riuscito a scappare, era crepato, mentre l’uomo continuava a stare sottoterra, viveva nelle stazioni della metropolitana e non aveva nessuna intenzione di morire. All’uomo non serve poi molto, può avere la meglio su qualsiasi ratto.

Il contatore si mise a suonare, indicando ad Artyom l’aumento del livello di radioattività. Non lo prenderò più, pensò Artyom, mi fa solo venire i nervi. Che importa a che cifra arriva? Cosa cambia? Finché non ho fatto quello che devo fare, che vada pure in mille pezzi.

“Che parlino pure, Zhenya. Pensino pure che sono impazzito. Quella volta sulla torre loro non c’erano... Quelli non mettono il naso fuori dalla loro metropolitana. Cosa possono saperne? Io impazzito... che vadano tutti a quel paese... Mi spiego: nel preciso istante in cui Ulman ha installato l’antenna sulla torre... mentre la stava sintonizzando... c’era qualcosa. Sì, l’ho sentito! No, non è stata un’allucinazione, eppure non mi credono, merda!”

Lo snodo stradale si innalzava sopra la sua testa, i nastri di asfalto avevano ondeggiato e si erano rappresi scrollandosi di dosso le macchine; queste erano cadute a casaccio, una a quattro zampe, un’altra di schiena, rimanendo congelate in quelle posizioni.

Artyom si guardò velocemente intorno e imboccò la strada che portava sopra il cavalcavia, una strada che somigliava a una lingua ruvida, sfacciatamente esibita. Non c’era molto da camminare – un chilometro, forse uno chilometro e mezzo. Dietro alla strada seguente si ergevano le torri Tricolor, in passato dipinte trionfalmente di bianco, blu e rosso. Il tempo le aveva però trasformate alla sua maniera, rendendole tutte grigie.

“Ma perché non mi credono? Non mi credono e basta. Ma sì, nessuno ha sentito i segnali. Ma da dove avrebbero potuto sentirli, questi segnali? Da sotto la terra. Nessuno salirà mai solo per questo... Non è così? Pensaci un po’: è mai possibile che non sia sopravvissuto nessuno tranne noi? In tutto il mondo neanche una persona? Eh? È una cosa assurda, una follia!”

Non aveva voglia di guardare la torre di Ostankino, ma non si poteva neanche ignorarla: che ti girassi oppure no, spuntava sempre da un angolo, come un graffio sul vetro antigas. Nera, bagnata, mozzata all’altezza della terrazza panoramica, sembrava una mano col pugno chiuso sbucata da sottoterra, come se un essere enorme avesse voluto emergere in superficie dalle viscere della Terra, ma fosse rimasto invischiato nella rossa argilla moscovita: la terra bagnata e soda lo aveva inghiottito fino a farlo soffocare.

“Quando ero sulla torre...”, Artyom scosse la testa in quella direzione, “quando ascoltavano i suoni dello spazio e cercavano di captare i segnali di Melnik... là in mezzo a quel fruscio... sono pronto a giurare su quello che vuoi... c’era! Qualcosa c’era!”

Sopra il bosco nudo si stagliavano due colossi, l’Operaio e la Contadina, che stretti nella loro strana posa sembravano pattinare sul ghiaccio oppure ballare il tango, ma senza guardarsi, come esseri asessuati. Dove guardavano allora? Chissà se dalla loro altezza vedevano oltre l’orizzonte.

Sulla sinistra era rimasta la maledetta ruota della VDNKh, enorme come il perno di quel meccanismo che fa girare la Terra. Erano ormai passati vent’anni da quando la ruota si era fermata e ora arrugginiva in silenzio. Era finita la carica.

 

Sulla ruota c’era la scritta 850 – erano gli anni compiuti da Mosca quando la ruota era stata installata. Artyom pensò che non aveva senso correggere quella cifra: se non c’è nessuno in grado di calcolare il tempo, il tempo si ferma.

I grattacieli brutti e tristi che una volta erano rossi, blu e bianchi occupavano mezzo mondo: erano vicinissimi. Gli edifici più alti della zona, se non si considerava la torre rotta. La cosa da fare. Artyom rovesciò all’indietro la testa, spinse lo sguardo fino alla cima. Gli cedettero subito le gambe.

“E se provassi oggi...”, chiese Artyom senza punto interrogativo, anche se si ricordava che le orecchie del cielo erano chiuse da un tappo di nuvole.

Là ovviamente non lo avevano sentito.
Un ingresso.
Un ingresso come tanti. Il citofono era abbandonato, la porta metallica priva di corrente elettrica, nell’acquario del portiere c’era un cane morto, le cassette della posta cigolavano per gli spifferi con un rumore metallico, né lettere né pubblicità da buttare nell’immondizia. Da tempo tutto era stato preso e bruciato per riscaldarsi almeno le mani.

In basso c’erano tre luccicanti ascensori made in Germany, con le porte spalancate e gli splendidi interni inossidabili, quasi si potesse prenderne uno qualsiasi e salire fino all’ultimo piano del grattacielo. Artyom li odiava per questo. Sapeva cosa c’era dietro, di fianco alla porta della scala antincendio. Li aveva già contati: quarantasei piani da farsi a piedi. Sul Golgota si sale sempre a piedi.

“A piedi, sempre...”

Lo zaino adesso pesava una tonnellata, e questa tonnellata lo schiacciava sul cemento, gli impediva di camminare, lo faceva inciampare. Ciononostante Artyom avanzava come uno zombie, e come uno zombie parlava.

“Cosa vuol dire che non ci sono sistemi antimissile... Comunque... Devono esserci, devono essersi salvati altri uomini... da qualche parte... non è possibile che siano solo qui... a Mosca... solo nella metropolitana... La Terra è rimasta... non si è spaccata... il cielo... si sta schiarendo... non può essere... che tutto il Paese... e anche l’America,

 

la Francia... e la Cina... e la Thailandia... cos’hanno fatto di male i thailandesi? Sono così innocui...”

Nei suoi ventisei anni di vita Artyom non aveva ovviamente fatto in tempo ad andare né in Francia né in Thailandia. Il Vecchio Mondo non l’aveva quasi visto, era nato troppo tardi. La geografia del Nuovo Mondo era più limitata: stazione della metropolitana VDNKh, stazione della metropolitana Lubianka, stazione della metropolitana Arbatskaya, la linea dell’Anello. Ma guardando sui vecchi giornali le fotografie di Parigi e New York filtrate dalla muffa, Artyom sentiva che queste città da qualche parte esistevano ancora, non erano scomparse e, forse, aspettavano proprio lui.

“Perché... perché sarebbe dovuta rimanere solo Mosca? Non è logico, Zhenya! Mi capisci? E dunque... noi dobbiamo semplicemente cogliere... i loro segnali... non possiamo... Per il momento. Bisogna semplicemente continuare. Non si può mollare, non si può...”

Il grattacielo era vuoto, ciononostante produceva suoni, viveva: il vento soffiava attraverso i balconi, faceva sbattere le porte, fischiava nelle gabbie degli ascensori, frusciava nelle cucine e nelle camere da letto, faceva la parte dei padroni rincasati. Ma Artyom non gli credeva più, non si voltava neppure e non lo passava a trovare.

Sapeva bene cosa c’era là, dietro quelle porte che sbattevano freneticamente: appartamenti svaligiati. Erano rimaste solo fotografie sparse sul pavimento – prima di morire, degli sconosciuti si erano scattati delle foto ricordo che nessuno avrebbe più guardato – e mobili ingombranti impossibili da portare con sé nella metropolitana o nell’altro mondo. Nelle altre case le finestre erano volate via in seguito all’onda esplosiva, mentre lì i doppi vetri avevano retto. Ma dopo più di vent’anni erano tutti impolverati, offuscati come per una cataratta.

Prima si poteva ancora incontrare in qualche appartamento il vecchio proprietario: aveva infilato il tubo della maschera antigas in qualche giocattolo e ci piagnucolava attraverso senza accorgersi che c’era qualcuno dietro di lui. Ma ormai da molto tempo non si vedeva più nessuno. Qualcuno era rimasto sdraiato con un buco nella schiena accanto al suo stupido giocattolo, mentre gli altri lo avevano guardato e avevano capito: sopra non c’erano case, non c’era niente. Cemento, mattoni, fango, asfalto crepato, ossa gialle, macerie varie e radiazioni. A Mosca e in tutto il mondo. C’era vita solo nella metropolitana. Un dato di fatto. Noto a tutti. A tutti, tranne che ad Artyom.

E se ci fosse sulla sconfinata Terra un altro posto adatto all’uomo? Adatto ad Artyom, ad Anya e a tutti quelli della stazione? Un posto senza soffitto di ghisa sopra la testa e dove poter crescere fino al cielo. Un posto dove costruire una casa e una vita propria, e da dove poi ripartire per rendere gradualmente vivibile tutta la Terra bruciata.

“Farei tornare tutti... all’aria aperta... vivrebbero...” Quarantasei piani.
Avrebbe potuto fermarsi al quarantesimo o anche al trentesimo, nessuno aveva detto ad Artyom che doveva a tutti i costi salire fino all’ultimo. Ma lui chissà perché si era ficcato in testa che solo là, sul tetto, avrebbe potuto ottenere qualcosa.

“Certo... non è così in alto come allora sulla torre... ma...”

Le finestrelle della maschera antigas si erano appannate, il cuore sfondava la cassa toracica, ed era come se qualcuno lo stesse tastando con un ferro per capire come insinuarsi sotto la sua costola. Attraverso i filtri della maschera respirava male e a fatica, la vita sembrava venir meno, e quando arrivò al quarantacinquesimo piano Artyom, come quella volta sulla torre, non resistette e si strappò la stretta pelle di gomma. Inspirò l’aria dolce e amara. Un’aria completamente diversa da quella della metropolitana. Aria fresca.

“In alto... forse là... a trecento metri... in alto... forse per questo... sì, in alto... da quell’altezza si captano i segnali...”

Si sfilò lo zaino, era riuscito a portarlo fin lì. Con la schiena dura come la pietra forzò il portello del lucernario, lo spinse verso l’esterno e uscì sulla terrazza. E cadde. Disteso supino, guardava le nuvole a portata di mano, cercava di calmare il cuore e il respiro. Poi si alzò.

 

Da lì la vista era...

Immaginatevi di essere morti e di essere già in volo verso il Paradiso, quando all’improvviso finite su un soffitto di vetro e rimanete sospesi, senza poter muovervi né da una parte né dall’altra. È chiaro che è impossibile tornare giù da questa altezza. Quando hai visto che, dall’alto, tutto sulla Terra somiglia a un giocattolo rotto, come puoi prendere la vita sul serio?

Lì a fianco si ergevano altri due grattacieli simili, un tempo colorati, ora grigi. Ma Artyom saliva sempre su questo, era più comodo così.

Per un secondo tra le nubi si aprì una fessura, attraverso la quale il sole lanciò i suoi raggi. D’un tratto sembrò che dalla casa vicina venisse un riflesso, dal tetto o dalla finestra impolverata di uno degli appartamenti più in alto. Come se qualcuno con uno specchietto avesse colto il raggio di sole. Ma Artyom fece appena in tempo a guardarsi intorno che il sole si era già barricato di nuovo e il riflesso scomparso.

Gli occhi di Artyom continuavano a guardare, per quanto lui cercasse di distoglierli, in direzione del fitto bosco che era cresciuto al posto del Giardino Botanico. E della nuda radura nera situata proprio nel centro. Era un luogo talmente morto da far pensare che Dio vi avesse gettato dei resti di zolfo incandescente. E invece no, non era stato Dio.

Il Giardino Botanico Artyom se lo ricordava diverso, ed era il suo unico ricordo del mondo ormai scomparso, di prima della guerra.

Che strano: tutta la tua vita fatta di piastrelle, tubi, soffitti da cui viene giù l’acqua e rivoli che scorrono sul pavimento lungo i binari, di granito e di marmo, di afa e di luce elettrica.

Ma all’improvviso trapela un pezzetto minuscolo di un’altra età: una fresca mattina di maggio, i teneri germogli appena spuntati sugli alberi snelli, i viali del parco dipinti con gessetti colorati, l’estenuante coda per comprare un cono gelato che non definiresti dolce, ma divino. E poi la voce di tua madre, indebolita e deformata dal tempo come da un cavo telefonico di rame. E la sua mano calda, che tieni stretta stretta per timore di staccarti e di perderti. Ma è davvero possibile ricordare cose del genere? Probabilmente, no.

 

Tutto questo è talmente inopportuno e irreale da non capire più se l’hai vissuto o sognato. Ma come si fa a sognare cose mai viste e conosciute?

Artyom vedeva davanti a sé i disegni fatti sui viali coi gessetti, i raggi di sole che trafiggevano il fogliame rado, il gelato nella sua mano, quelle comiche anatre arancioni sullo specchio marrone dello stagno e i ponticelli vacillanti di questo laghetto autunnale. Che paura aveva di cadere nell’acqua, e ancor più di perdere il cono alla vaniglia!

Il volto di sua madre invece non riusciva a ricordarselo. Cercava di evocarlo, pregava di vederlo almeno di notte, anche a patto di dimenticarlo la mattina seguente, ma proprio non ci riusciva. Davvero non esisteva nella sua testa un minuscolo angolino dove sua madre potesse nascondersi e aspettare che passassero la morte e le tenebre? Evidentemente no. Ma come poteva una persona scomparire nel nulla?

E quel giorno, quel mondo, dov’erano andati a finire? Erano lì accanto, bastava chiudere gli occhi. Ovviamente, si poteva farvi ritorno. Dovevano per forza essersi salvati da qualche parte sulla Terra, bisognava chiamarli, tutti quelli che si erano smarriti: “Ehi, noi siamo qui, voi dove siete?”. Bisognava solo sentirli, essere capaci di ascoltarli.

Artyom strizzò gli occhi, poi se li stropicciò in modo che vedessero di nuovo il mondo presente e non quello di vent’anni prima. Si sedette e aprì lo zaino. Dentro c’erano una stazione radio militare, voluminosa, verde e tutta graffiata, e una cassetta di ferro col manico girevole: una dinamo artigianale. Sul fondo, quaranta metri di filo e l’antenna della stazione radio.

Artyom collegò tutti i cavi, mentre dipanava il filo fece un giro sul tetto, si asciugò il sudore dal viso e si rinfilò di controvoglia la maschera antigas. Si strinse le cuffie contro la testa, accarezzò i tasti con le dita. Girò la manovella della dinamo: il diodo sobbalzò, cominciò a ronzare, a vibrare nella sua mano, quasi fosse vivo.

Fece scattare il commutatore.

Chiuse gli occhi, temendo che gli impedissero di pescare in mezzo al rumore dell’apparecchio radio la bottiglia con la lettera proveniente da un lontano continente, dove qualcuno era ancora vivo. Iniziò a oscillare sulle onde. Girava la dinamo come se remasse con una sola mano a bordo di un gommone.

Le cuffie iniziarono a rumoreggiare, in mezzo al fruscio emisero un flebile gemito, poi strani colpi di tosse, il silenzio e infine, di nuovo, un brusio. Ad Artyom pareva di aggirarsi per un dispensario tubercolare in cerca di una persona con cui parlare, ma non un solo malato era cosciente; solo le infermiere mettevano il dito vicino alle labbra e con aria severa ingiungevano: “Ssst”. Nessuno voleva rispondere ad Artyom, nessuno intendeva vivere.

Nessun segnale da Pietroburgo. Nessuno da Ekaterinburg.

Taceva Londra. Taceva Parigi. Tacevano Bangkok e New York. Da tempo, ormai, non era più importante chi avesse iniziato quella guerra. Non era più decisivo cosa l’avesse provocata. A che scopo saperlo? Per la storia? La storia la scrivono i vincitori, e ora non c’era più nessuno che potesse farlo – e, a breve, neanche qualcuno che potesse leggerla.

Ssst...

Nell’etere c’era il vuoto, un vuoto infinito.
Un gemito...
In orbita ondeggiavano i maledetti satelliti per le comunicazioni: nessuno se ne serviva e loro impazzivano per la solitudine e si buttavano sulla Terra, preferendo bruciare nell’atmosfera piuttosto che rimanere così.

Neanche una parola da Pechino. Tokyo, poi, era una tomba.

Artyom continuava a girare lo stesso quella maledetta manovella – girava e remava, remava e girava.

Che silenzio! Un silenzio impossibile. Insopportabile.
“Qui Mosca! Qui Mosca! Rispondete!”
Era la sua voce, quella di Artyom. Come al solito non era riuscito ad aspettare, ad avere pazienza.
“Qui Mosca! Ricezione! Rispondete!”
Un sibilo.
Non bisognava fermarsi. Non bisognava arrendersi. “Pietroburgo! Rispondete! Vladivostok! Rispondete a

Mosca! Rostov! Rispondete!”
Cos’hai, Pietroburgo? Sei così fiacca, più fiacca di Mosca?

 

Cosa c’è adesso al tuo posto? Un lago di vetro? Oppure sei stata mangiata dalla muffa? Perché non rispondi? Eh?

Dove sei finita tu, Vladivostok, orgogliosa città all’altro capo del mondo? Tu eri così lontana da noi, come possono averti contaminato? Non hanno risparmiato neppure te?

Kch... kch...

“Rispondete, Vladivostok! Qui Mosca!”

Tutto il mondo era disteso con la faccia nel fango e non sentiva questa pioggia interminabile che cadeva a gocce sulla schiena e non capiva di avere sia la bocca che il naso pieni di acqua rugginosa.

Mosca invece... eccola. Dritta. Sulla sue gambe. Come se fosse ancora viva.

“Ma siete crepati tutti, là?”

Ssst...

Erano forse le loro anime, nascoste nell’etere, a rispondergli così? E se invece era la radioattività? Anche la morte deve avere una sua voce. Probabilmente una così, una specie di sussurro.

Ssst...

Sì, sì. Non far rumore. Calmati, Calmati.
“Qui Mosca! Rispondete!”
Forse ora avrebbero sentito.
Magari proprio adesso qualcuno avrebbe tossito nelle

cuffie, sovrastando tutto agitato il brusio di fondo e urlando da lontano: “Noi siamo qui! Mosca! Vi sento! Ricezione! Mosca! Non chiudete! Vi sento! Diamine! Mosca! Mosca si è messa in contatto con noi! In quanti siete sopravvissuti? Noi qui siamo una colonia di venticinquemila persone! La Terra è pulita! La radioattività è pari a zero! L’acqua è incontaminata! Se abbiamo cibo? Certo! Le medicine, sì le abbiamo! Vi mandiamo un gruppo di salvataggio! Voi tenete duro! Mi sentite, Mosca?! La cosa più importante: tenete duro!”

Un sibilo. Il vuoto.

Non era una comunicazione via radio, ma una seduta spiritica che Artyom non riusciva assolutamente a concludere. Gli spiriti evocati non volevano venire. Stavano bene anche in quell’altro mondo. Guardavano dall’alto, fra i rari squarci delle nuvole, la figura ingobbita di Artyom e si limitavano a ridacchiare: noi dovremmo venire là da voi? No no, un corno!

Kchhh.

Smise di girare la manovella e si strappò le cuffie. Si alzò, avvoltolò il cavo dell’antenna con precisione, lentamente, imponendosi questa attenzione; se fosse stato per lui, l’avrebbe fatto in pezzi e gettato giù dal quarantaseiesimo piano.

Ripose tutto nello zaino. Se lo sistemò sulle spalle, diavolo tentatore. Lo portò giù. Nella metropolitana. A domani.

***

“Hai fatto la decontaminazione?”, pronunciò con voce nasale il tubo blu.

“Sì, l’ho fatta”.
“Parla in maniera più chiara!”
“L’ho fatta!”
“L’ha fatta, dice...”, il tubo sibilò incredulo e Artyom lo scaraventò con odio contro il muro.
All’interno della porta la serratura iniziò a grattare, ritraendo i chiavistelli. Poi l’ingresso si aprì con un rumore lungo e cupo, e Artyom sentì subito il tanfo della metropolitana.

Sukhoi lo accolse sulla soglia. Forse aveva presentito il ritorno di Artyom, o magari non si era mai allontanato da lì. Più probabilmente, lo aveva sentito.

“Come stai?”, gli chiese con fare stanco, senza cattiveria.

Artyom si strinse nelle spalle. Sukhoi lo accarezzò con lo sguardo, dolcemente, come fa un pediatra.

“Ti cercava una persona venuta da un’altra stazione”.

Artyom si irrigidì. “Non era da parte di Melnik?”, la sua voce tintinnò, quasi avessero buttato per terra un bossolo. Speranza? Viltà? Cos’altro?

“No. Era un vecchio”.

“Che vecchio?”. Tutte le ultime forze che Artyom aveva raccolto, nell’eventualità che il patrigno rispondesse di sì, lo abbandonarono ed ebbe voglia solo di sdraiarsi.

“Omero. Si chiamava Omero. Lo conosci?” “No, Zio Sasha. Vado a dormire”.

***

Lei non si si mosse. Sta dormendo oppure no?, pensò Artyom. Lo pensò così, automaticamente, perché in realtà non gli importava più nulla se stesse dormendo o facesse solo finta. Ammucchiò i suoi vestiti vicino all’ingresso, si strofinò le spalle per il freddo, si distese accanto ad Anya come un orfanello e tirò verso di sé la coperta. Se avessero avuto una seconda trapunta, non le si sarebbe nemmeno avvicinato.

L’orologio della stazione indicava le sette di sera, forse. Ma Anya doveva alzarsi alle dieci per andare a raccogliere funghi. Artyom invece era stato esonerato dalla raccolta in quanto eroe. Oppure perché invalido? Faceva tutto come gli pareva. Si svegliava quando lei tornava dal turno e andava di sopra. Si estraniava quando lei faceva ancora finta di dormire. Vivevano così: a fasi opposte. Nello stesso letto, ma in dimensioni diverse.

Badando a non svegliarla, Artyom continuò a tirare verso di sé la trapunta rossa. Anya se ne accorse e senza dire una parola trascinò con forza la coperta dalla parta opposta. Dopo un minuto di questa stupida lotta, Artyom si arrese e rimase nudo sul bordo del letto.

“Fantastico”, disse.
Lei taceva.
Perché la lampadina prima arde e poi si fulmina?
Si distese col viso sul cuscino – per fortuna di cuscini ce n’erano due – lo riscaldò col suo respiro e si addormentò. In un sogno malefico vide Anya diversa – ridanciana, battagliera, che lo stuzzicava allegramente, giovanissima. Ma quanto tempo era passato? Due anni? Due giorni? Chi diavolo sa quando poteva essere stato? Allora gli sembrava di avere tutto il tempo del mondo a disposizione, a entrambi pareva così. Ma da quei giorni era trascorsa un’eternità.

Nel sogno era freddo, ma era Anya a farlo congelare, costringendolo a correre nudo per la stazione per una birichinata, non per odio. Quando Artyom si svegliò, ancora per un minuto intero continuò a credere, nell’inerzia del sonno, che l’eternità non fosse ancora finita, che lui e Anya si trovassero solo a metà. Voleva chiamarla, perdonarla, metterla sul ridere. Poi si ricordò.

Metro 2035 è già disponibile all'acquisto su Multiplayer.com: https://edizioni.multiplayer.it/libri/metro-2035  

A partire dal 1° settembre sarà in tutte le librerie e in ebook. 

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Metro 2035 o la realpolitike di Dmitry Glukhovsky - Anteprima

Dmitry Glukhovsky è tornato per concludere la sua prima saga iniziata con Metro 2033, pubblicata tutt'ora online e nata nel 2001 grazie ai contributi di tutti gli utenti del suo rudimentale blog. Glukhovsky ha il primato di essere stato il primo self publisher di successo, con all'attivo milioni di copie e di edizioni dei suoi libri in tutto il mondo.

Vi ricordate la prima edizione italiana? Era il lontano 2010 e pubblicammo il libro in Italia assieme all'uscita del primo videogioco della serie.

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Quest'anno siamo arrivati alla IV Edizione, a più di 40 mila copie vendute e ad un mucchio di soddisfazioni, tra cui una pagina bellissima sul Corriere - LA LETTURA o essere stati tra i primi 10 libri di fantascienza in classifica per parecchie settimane (il primo anno di uscita).

 

 

 Non solo fantascienza! Questo è un romanzo di formazione in cui il protagonista impara a confrontarsi con ideologie contrapposte di un mondo grottesco! - Vanity Fair

 

 

 

Poi un anno dopo, nel 2011, arriva Metro 2034. Molto più lento se volete, più introspettico. Meno azione e più riflessione.

A settembre (dal 3)  vi riporteremo nel 2035, due anni dopo la liberazione dai TETRI, gli ultimi superstiti all'olocausto nucleare rifugiatisi nella metropolitana di Mosca, sono minacciati dalle epidemie che mettono a rischio l'approvvigionamento di cibo e da conflitti ideologici sempre più gravi. Artyom, non è più un ragazzo e pare abbia perso quell'aurea di ingenua speranza che fino a quel momento lo aveva aiutato a liberarsi dei pericoli continui che la nuova società impone quotidianamente, tra conflitti ideologici sempre più gravi e scarsità di cibo. L'unica salvezza sembra risiedere in un ritorno in superficie, ma questo è ancora possibile?

Contro ogni logica, Artyom tenta un viaggio - apparentemente senza speranza - verso un mondo il cui misterioso silenzio nasconde un terribile segreto...

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Allora era finita. Una volta per sempre. Senza appello. Con le sue dita goffe, appiccicose per colpa dei funghi, aveva distrutto l’unica speranza – sua e di tutti. Lui, proprio lui, Artyom, aveva condannato le persone della stazione e di tutta la metropolitana, e la pena era terribile: l’ergastolo, il carcere a vita. Per loro, i figli e i figli dei loro figli...

Ma se ci fosse stato anche un solo luogo dove gli uomini erano sopravvissuti...

Uno solo...

Il nuovo romanzo avrà la copertina cartonata, come i primi due libri nella prima edizione.

E ora vi lasciamo un piccolo estratto del primo capitolo.

Buona lettura

 

 

 

 

CAPITOLO I - QUI MOSCA

“Non si può, Artyom”.
“Apri, ti ho detto di aprire”.
“Il capo della stazione ha detto di non far uscire nessuno”. “Ma mi prendi per scemo? Nessuno chi? Chi sarebbe questo nessuno?”
“Ho un ordine... Per proteggere la stazione... dalle radiazioni. L’ordine l’hanno dato a me. Lo capisci?”
“Te l’ha dato Sukhoi l’ordine? Il mio patrigno ti ha dato un ordine del genere? Su apri!”
“Ci andrò di mezzo io, Artyom...”
“Allora faccio da solo, se tu non puoi”.
“Pronto, Sanseich. Sì, sono di guardia... qui c’è Artyom...il suo Artyom. Cosa devo fare con lui? Sì, aspettiamo”.
“Hai fatto la spia, eh? Bravo, Nikita. Hai fatto la spia.

Levati di torno! Tanto apro lo stesso. Passo lo stesso!”
Ma dalla garitta saltarono fuori altri due che, stretti tra Artyom e la porta, lo spingevano piano, dispiaciuti. Artyom – già stanco, con gli occhi cerchiati, non ancora ripresosi dalla salita del giorno prima – non poteva avere la meglio sulle sentinelle, sebbene nessuno avesse intenzione di fare a botte con lui. Iniziarono lentamente a radunarsi i curiosi: dei ragazzetti sudici coi capelli trasparenti come il vetro, delle donne gonfie con le mani blu e rigide a furia di lavare i panni nell’acqua gelata, i contadini della galleria destra, stanchi e pronti a fissare qualsiasi cosa con lo sguardo perso. Sussurravano tra di loro. Non si capiva bene se guardassero

Artyom; sui loro visi c’era sa il diavolo cosa.
“Continua a salire, ma a che scopo?”
“Già. E ogni volta la porta rimane spalancata. Da lì sopra, in più, viene un’aria fredda... farabutto!”
“Ascolta, non si può... non si può parlare così di lui.

Dopotutto è stato lui a salvarci. Pensa ai tuoi figli”.
“Li ha salvati, dici. E adesso? Li ha salvati perché facessero questa fine? Si becca lui le radiazioni, e noi tutti qui...a fargli compagnia”.
“E poi che cavolo va a fare? Capirei se ci fosse un motivo!” Ecco d’un tratto tra tutte quelle facce ne comparve un’altra, quella del capo. I baffi malconci, i capelli, già radi e tutti bianchi, riportati per nascondere la calvizie, il viso solcato solo da linee diritte, senza neppure una curva. E tutto il resto era duro, come gomma impossibile da masticare, quasi lo avessero preso ed essiccato vivo. Pure la voce pareva secca.

“Sgombrate tutti, capito?”

“Ecco Sukhoi, è arrivato. Che si porti via suo figlio!”

“Zio Sasha...”
“Ancora tu, Artyom? Avevamo già parlato noi due...” “Apri, zio Sasha”.
“Sgombrate, non mi avete sentito? Qui non c’è niente da guardare! E tu vieni con me”.
Artyom si sedette invece sul pavimento, sul freddo granito lucido, e si appoggiò con la schiena al muro.
“Basta”, disse Sukhoi usando solo le labbra, “la gente mormora già abbastanza”.
“Devo farlo. Assolutamente”.
“Lassù non c’è niente! Niente! Non c’è niente da cercare!” “Ma te l’ho detto, zio Sasha”.
“Nikita! Sveglia! Su, accompagna i cittadini!”
“Agli ordini, Sanseich. Allora, chi vuole degli inviti personali? Muoversi, muoversi...”, ordinò Nikita con voce cadenzata, radunando la folla.

“Stai dicendo delle idiozie. Ascolta...”. Sukhoi emise un respiro profondo, si rilassò, corrugò la fronte e si lasciò cadere vicino ad Artyom. “Ti vuoi rovinare. Pensi che questa tuta ti salvi dalle radiazioni? Ma se è come un colino! È più utile un vestito di tela!”

“E allora?”

“Gli stalker non salgono così tanto come te... Hai calcolato la dose? Vuoi vivere o crepare?”

“Sono sicuro di averlo sentito”.

“E io invece sono sicuro che ti è solo sembrato. Non c’è nessuno in grado di mandare messaggi. Nessuno, Artyom! Quante volte te lo devo ripetere? Non è rimasto nessuno. Niente, a parte Mosca. E noi qua sotto”.

“Non ci credo”.

“Tu pensi che mi importi a cosa credi e a cosa no?! Ma se ti iniziano a cadere i capelli, allora sì che mi importa!

Se pisci sangue, sì che me ne frega! Vuoi che ti si secchi l’uccello?”

Artyom alzò le spalle e rimase in silenzio a riflettere. Sukhoi aspettava.

“Io l’ho sentito. Quella volta, sulla torre. Nel ricetrasmettitore di Ulman”.

“Nessuno ha sentito niente, a parte te. In tutto questo tempo che sono stati ad ascoltare. Neanche un suono. E quindi?”

“Io salgo lo stesso, punto e basta”.
Artyom si sollevò e raddrizzò la schiena.
“Io voglio dei nipoti”, gli disse Sukhoi.
“Perché vivano qui? Sottoterra?”
“Nella metropolitana”, lo corresse Sukhoi.
“Nella metropolitana”, convenne Artyom.
“Se la passeranno bene, qui. Basta che riescano a nascere, per il resto...”
“Digli di aprire, zio Sasha”.
Sukhoi guardava il pavimento, il granito nero luccicante.

Evidentemente lì c’era qualcosa. “Hai sentito cosa dice la gente? Che sei impazzito. Quella volta, sulla torre”.

Artyom abbozzò un sorriso. Inspirò profondamente. “Zio Sasha, sai cosa dovevi fare per avere dei nipoti? Fare dei figli tuoi. A loro avresti potuto dare tutti gli ordini che volevi, e i nipoti sarebbero assomigliati a te, non a chissà chi”.

Sukhoi chiuse gli occhi. Passò un secondo.
“Nikita, aprigli. Che vada. Che crepi. Me ne fotto”. Nikita obbedì in silenzio. Artyom annuì soddisfatto. “Tornerò presto”, disse a Sukhoi ormai dal cunicolo. Sukhoi si tirò su, voltò verso Artyom la schiena ingobbita e si allontanò trascinando i piedi, lucidando il granito.
La porta del cunicolo si chiuse di botto. Si accese la lampadina bianchissima attaccata al soffitto – venticinque anni di garanzia – e come un pallido sole invernale si riflesse sulle piastrelle sporche che ricoprivano l’intero cunicolo, tranne una parete di ferro. Una sedia di plastica rotta messa lì per riprendere fiato o per allacciarsi le scarpe, una tuta antiradiazioni tristemente appesa a un gancio, nel pavimento un tombino da cui spuntava un tubo di gomma per la decontaminazione.

 


Connessi o schiavi? Transumani o postumani?

Il successo dell'Intelligenza Artificiale potrebbe essere il più grande evento nella storia umana. Ma potrebbe anche essere l'ultimo, se non impariamo come evitare i rischi.

Stephen Hawking

Cyborg

In latino Nexus al maschile singolare significa "ipotecato"; come sostantivo significa "schiavo".

In inglese la traduzione più utilizzata è "nesso", "collegamento".

Non ci stiamo dilettando a diventare linguisti, ma è impossibile non cogliere alcuni "nessi!" interessanti: essere connesso a qualcuno o a qualcosa, può significare "appartenere" e essere parte di esso, con un'accezione anche negativa.

Ma andiamo con ordine.

Le nostre più potenti tecnologie del XXI secolo - scienze robotiche, ingegneria genetica e nanotecnologia - minacciano di far degli umani una specie a rischio. 

Bill Joy - Capo degli Scienziati di Sun Microsystem

Domotica, automazione, intelligenze artificiali, nano tecnologie,  sono l'ordinario glossario dei ricercatori di oggi, il miraggio, neppure troppo lontano, che appare nei laboratori di moltissime università e enti di ricerca scientifica sparsi per il mondo.

Non vi è mai successo di parlare con Siri o Cortana e domandarvi: " Qual è il futuro della tecnologia? Cosa potrò farci tra 10 anni?". 

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Tralasciando le risposte più scontate, quali erotismo a distanza o colmare vuoti esistenziali con amici virtuali o camminare per strada parlando con Pokemon ad altezza naturale che nel frattempo riusciranno ad interagire in qualche modo con te in pizzeria o in palestra,  è la fantascienza e la letteratura che come sempre vengono in aiuto per dare un'interpretazione delle cose, del mondo che arriverà e dell'evoluzione, o derive, del nostro progresso.

Il futurologo, tecnologo, "angel investor" egiziano Ramez Naam, che all'età di 3 anni è sbarcato in Usa, dopo avere lavorato 13 anni in Microsoft e aver contribuito allo sviluppo di Outlook, Internet Explorer e un altro paio di cosette che saranno ricordate per secoli, non è uno scrittore di fantascienza, almeno non scrive per vivere, ma ci ha regalato una perla che diventerà una piccola pietra miliare tra qualche anno in questo genere di letteratura "futurista" più che fantascientifica. Lui è uno degli addetti ai lavori della IV rivoluzione industriale, ma è anche uno che pare si stia ponendo una serie di problemi etici.

Alla base della trilogia che inizia con Nexus, un libro adrenalinico,  un thriller vivacissimo e un viaggio a tratto esotico (visto che passa per Shangai, Thailandia, Africa), c'è l'estrema esperienza dell'autore e una domanda filosofica e etica alla base: quali sono le conseguenze del progresso? Siamo pronti per il postumanesimo?

Tutto ciò che conta nel mondo attuale richiede gli sforzi di un vasto numero di individui. In verità, per superare i problemi più urgenti del nostro pianeta, ci viene richiesto di non pensare come individui, e neanche come nazioni, ma come una singola umanità”.

È come diceva Einstein, pensò Kade. I problemi che affrontiamo al giorno d’oggi non si possono risolvere al livello di pensiero che li ha generati.

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Stai parlando di cambiare tutto delle persone, il modo in cui siamo stati per centinaia di migliaia di anni, in un battito di ciglia. Non puoi conoscere le conseguenze, non puoi sapere in quale modo la gente ne abuserà, non puoi sapere se l’umanità riuscirà a sopravvivere a questo. Dobbiamo rallentare il ritmo al quale stiamo diventando qualcosa che non è umano.

- Nexus -

 

La nano droga sperimentale Nexus è in grado di connettere le menti delle persone, di elevarle, di migliorarle e di condurre un uomo normale nella dimensione transumana.

Un potere enorme nelle mani degli scienziati che presto si trovano coinvolti in intrighi internazionali complessi e ingestibili.

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E qui si torna all'inizio del nostro discorso: partendo dalla sua etimologia, Nexus, connessione, connettività, condivisione potrebbe essere sinonimo di ipoteca sul nostro futuro in futuro? 

Questo libro fa le domande giuste. A voi trovare le risposte.

Trovate PILLOLE DI NEXUS qui ; se volete leggere i commenti dei lettori sul libro ce ne sono veramente tanti su GOODREADS 


Cultura videoludica - Adesso leggo!

Pronti per recuperare qualche lettura che è rimasta sul comodino o sul ripiano della libreria a prendere polvere durante l'inverno?

Sapete che siamo un po' deviati sul mondo dei videogiochi(Sì NERD!) e allora non possiamo che fare un ripasso sui nostri titoli a sfondo videoludico che più ci hanno dato soddisfazioni nei mesi scorsi e suggerirli a voi per alimentare la vostra anima Geek!Leggere di più


L'Ammiraglio Thrawn è tornato!

La scorsa settimana a partire dalla Star Wars Celebration Europe 2016, si sono susseguite ottime e inaspettate novità sul ritorno di uno degli autori a cui Multiplayer Edizioni e i lettori italiani di Star Wars sono più affezionati: Thimoty Zahn (se vi va leggete anche: ENTER THRAWN: A Q&A WITH TIMOTHY ZAHN)

 

tumblr_inline_oaq1cuMEjZ1se4qt3_500Oltre ad una vagonata di nuovi titoli (che pubblicheremo tutti nel 2017, eccetto Catalyst, che probabilmente pubblicherà Giunti), ci ha scioccati l'annuncio del ritorno nell'Universo Espanso del grande Ammiraglio Thrawn.

Dovete sapere che abbiamo pubblicato l'Erede dell'Impero, per la prima volta, nel lontano giugno 2012 (guardate con che orgoglio annunciavamo l'uscita) . Sono passati 4 anni e diverse edizioni anche SPECIALE e questo romanzo continua a vendere inesorabile: ad ogni Lucca Comics & Games, ad ogni Salone del Libro di Torino, insomma tutti, vecchie e nuove generazioni di fan continuano a preferire Zahn a molti autori del mondo di Star Wars.

Erede

Abbiamo chiesto al nostro esperto lettore e consumatore seriale di libri e fumetti di Star Wars, Giorgio Bondì, cosa ci si deve aspettare da questo ritorno. Chi è Zahn e soprattutto il suo Ammiraglio Thrawn che ruolo giocherà nell'universo di Rebels e in quello della narrativa che ci appassiona tanto.

Giorgio, che cura un aggiornatissimo blog Star Wars Libri & Comics  e la relativa pagina Facebook (che dovreste seguire perchè ricchissima di aggiornamenti), ci ha scritto le sue impressioni, che vi riportiamo qui di seguito.

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To defeat an enemy you must know them. Not simply their battle tactics, but their history, philosophy, art.

Per sconfiggere un nemico lo devi conoscere. Non solo le loro tattiche di battaglia, ma la loro storia, filosofia, arte.

 Con queste parole il Grand’Ammiraglio Thrawn si è presentato al pubblico, in delirio, della Star Wars Celebration Europe durante il trailer della terza stagione di Star Wars Rebels, che inizierà in autunno negli USA.

Non tutti i fan della saga, però, potrebbero conoscere questo personaggio e in molti si staranno chiedendo il perché di questa grandissima eccitazione.

È il caso allora di fare un passo indietro per capire ciò che sta per succedere con Star Wars Rebels.

È il 1991 quando viene pubblicato L’erede dell’Impero, scritto da Timothy Zahn, il primo romanzo della Trilogia di Thrawn che dà il via alla più grande e celebre produzione di romanzi dell’Universo Espanso di Star Wars, entrando in una sua vera e propria età dell’oro.

Cinque anni dopo la distruzione della Morte Nera e la sconfitta di Darth Vader e dell’Imperatore, la galassia lotta per guarire dalle ferite della guerra. La Principessa Leia e Han Solo sono sposati e aspettano due gemelli, mentre Luke Skywalker è diventato il primo di una nuova discendenza di Cavalieri Jedi. A migliaia di anni luce di distanza, però, l’ultimo condottiero dell’Imperatore – il geniale e letale Grande Ammiraglio Thrawn – ha assunto il comando della flotta Imperiale distrutta, l’ha preparata alla guerra e l’ha puntata verso il fragile cuore della Nuova Repubblica, forte di armi e tecnologia nascoste dall’Imperatore e ritrovate dopo anni e dell’aiuto di un nuovo Jedi oscuro nato dalle ceneri di un passato misterioso.

L'unico dei dodici Grand'Ammiragli di Palpatine a non avere origini umane (è infatti appartenente alle specie Chiss, umanoidi dalla pelle blu, capelli scuri e occhi rossi), Mitth'raw'nuruodo, questo il suo nome completo, è un genio militare e uno stratega unico, in grado di prevedere con assoluta previsione i movimenti sul campo di battaglia di una specie solo studiandone le sue forme artistiche: dopo la morte degli altri dodici Grand’Ammiragli è lui a prendere le redini della flotta e del governo dal suo trono sullo Star Destroyer Chimaera.

Thrawn è diventato, fin dalla pubblicazione de L’erede dell’Impero, un personaggio iconico e famoso quasi quanto i protagonisti della saga cinematografica. Dotato di un design riconoscibilissimo (pelle blu, capelli scuri e occhi rossi ma soprattutto una candida uniforme decorata da spalline d’oro) Thrawn possiede un carisma unico che ha subito catturato i fan: in un Impero xenofobo e antropocentrico, è un non umano con un rango altissimo, ottenuto grazie al suo comportamento pragmatico ma non da maniaco omicida e alla sua mente fredda e calcolatrice, in grado di estrapolare le tattiche in battaglia di intere popolazioni solo grazie allo studio della loro arte attraverso degli ologrammi.

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Il suo inserimento in Star Wars Rebels era ormai dato per certo da moltissime fonti e questa decisione apre a prospettive interessanti. Già durante la produzione di Star Wars: The Clone Wars Dave Filoni, creatore delle due serie TV e grandissimo fan dell’Universo Espanso, era interessato ad introdurre questo personaggio che, però, è molto più adatto al periodo della serie attuale. L’inserimento è stato deciso in maniera molto ragionata, afferma Filoni, con un piano molto preciso in mente e, soprattutto, lavorando fianco a fianco dello stesso Timothy Zhan che ha già scritto una prima bozza del nuovo romanzo dedicato all’iconico Grand’Ammiraglio, intitolato semplicemente Thrawn, che uscirà negli Stati Uniti nell’aprile 2017 e si concentrerà, da quel che sappiamo, sull’ascesa al potere del chiss fino al periodo di Star Wars Rebels.

Trilogia

Quale sarebbe allora la posizione di Thrawn all’interno del canone di Star Wars? La questione è molto semplice: le vicende di Thrawn narrate ne L’erede dell’Impero¸ Sfida alla Nuova Repubblica e L’ultima missione sono da considerarsi ormai Legends mentre solo quello che vedremo in autunno con Star Wars Rebels, ad aprile con il nuovo romanzo Thrawn e in eventuali futuri prodotti saranno parte del Canone di Star Wars.

Questa situazione potrebbe, in futuro, ripetersi per altri personaggi del vecchio Universo Espanso e porterebbe sempre a questa situazione; in questa maniera le storie dell’Expanded Universe sarebbero delle vere e proprio leggende, che si raccontano nell’Universo di Star Wars e coinvolgono importanti “personalità” ma che non corrispondono a fatti realmente avvenuti: un modo estremamente furbo per ricollegarsi ad un’importante eredità del materiale passato ma con ovviamente uno sguardo verso il futuro.

Per prepararsi al ritorno in grande stile del più grande stratega dell’Impero la cosa migliore che posso consigliarvi è scoprirlo nella trilogia in cui è stato creato: i tratti distintivi del Grand’Ammiraglio, che hanno reso il personaggio il più iconico dell’Expanded Universe, saranno ripresi nella serie TV in CGI e siamo sicuri che darà tanto filo da torcere alla ciurma del Ghost. A proposito dei protagonisti di Star Wars Rebels, trovate in libreria il romanzo Una nuova alba con protagonisti

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Aspettiamo di conoscere anche la vostra opinione, fatecelo sapere!

Intanto buone letture e che la Forza sia con Voi! 


Star Wars: Una Nuova Alba. Attenti a Hera!

Hera non aveva intenzione di condurre la sua nave all’interno del complesso minerario di Cynda per un atterraggio non autorizzato. Unendosi al convoglio, comunque, si era avvicinata molto, e una volta uscita dalla visuale dello Star Destroyer, aveva parcheggiato in orbita. La piccola navetta da escursione della sua nave le aveva permesso di percorrere il tratto rimanente, portandola in una minuscola officina sulla superficie.
Aveva studiato abbastanza il settore minerario da sapere cosa fingere di essere: un tecnico della manutenzione per i droidi da carico pesante. Avrebbe pensato al resto al momento opportuno.
“È l’entrata sbagliata”, aveva detto il tizio all’interno della camera di equilibrio.
“Oh, accidenti, mi dispiace. È il mio primo giorno, e sono in ritardo!”
“E dov’è il tuo tesserino?”
“L’ho scordato. Riesci a crederci? Il mio primo giorno!”
L’uomo ci aveva creduto, lasciandola passare con un sorriso che diceva quanto sperasse che lei avrebbe continuato a sbagliare strada in futuro. Molte persone appartenenti a varie specie differenti trovavano Hera attraente, e lei era felice di servirsi di quel piccolo espediente per una buona causa.
Ma mentre camminava guardinga attraverso il complesso minerario, cominciò a rendersi conto di quanto quella causa fosse diventata difficile. Gorse e Cynda producevano una sostanza strategica per l’Impero, certo, ma erano ben distanti dal centro della galassia. Eppure Hera aveva individuato una telecamera di sorveglianza dopo l’altra, incluse alcune che gli operai non avrebbero senza dubbio dovuto vedere. Se anche i mondi dell’Orlo avessero raggiunto un livello di sicurezza pari a quello di Coruscant, qualsiasi azione contro l’Impero si sarebbe rivelata molto più difficoltosa.
Un’altra buona ragione per andare a fare visita al mio amico su Gorse, pensò, evitando abilmente il campo visivo di un’altra telecamera segreta. Incontrarsi con un informatore misterioso era pericoloso: l’aveva imparato piuttosto in fretta, durante la sua breve carriera da attivista Ma il suo contatto aveva dimostrato di conoscere le risorse di sorveglianza imperiali, e lei ne avrebbe avuto bisogno più avanti, per arrivare alle cose importanti.
Ma per scoprire di più in merito ai metodi del conte Vidian, avrebbe dovuto far ricorso agli ormai superati appostamenti.
In quel momento il conte era su Cynda, lo sapeva: l’aveva già visto una volta da lontano, mentre attraversava le grotte con un gruppo in visita. Era difficile avvicinarsi. Le colonne di cristallo trasparente erano belle da guardare ma offrivano un pessimo riparo.
Si lanciò attraverso un isolato passaggio laterale, pensando di aver trovato una scorciatoia che l’avrebbe portata a precederlo. Invece, trovò qualcos’altro.
“Ferma!”. Un assaltatore apparve alla fine del corridoio, con il blaster puntato.
Hera si bloccò. “Scusami”, disse, mettendosi una mano al petto ed emettendo un sospiro. “Mi hai spaventata!”
“Chi sei?”
“Lavoro qui”, spiegò, avvicinandosi come se non ci fosse niente di male. “Forse sono nel posto sbagliato. È il mio primo giorno”. Sorrise.
“Dov’è il tuo tesserino?”
“L’ho dimenticato”. Abbassò imbarazzata gli occhi scuri, poi li sollevò di nuovo.
“Riesci a crederci? Il mio primo giorno!”
L’assaltatore la fissò per un momento... poi vide il blaster che aveva addosso. Lei si mosse più velocemente di lui, tirandogli un calcio che fece cadere l’arma dalle mani del soldato preso alla sprovvista. Vedendo il blaster rotolare via, l’uomo in armatura si precipitò a raccoglierlo. Lei lo scansò con facilità, girò su se stessa e si lanciò contro la sua schiena. L’assaltatore, perdendo l’equilibrio sul suolo cristallino, inciampò, e il peso di Hera lo scaraventò di testa contro il muro laterale. L’elmo battè fragorosamente contro la superficie, e il soldato crollò a terra, immobile.
“Scusa”, sussurrò Hera da sopra la spalla dell’assaltatore caduto.

“Il mio fascino non ha effetto su tutti”.


Star Wars: Una Nuova Alba. Il Pilota dell'Expedient

“Fai attenzione, idiota!”
Vedendo l’enorme trasportatore di thorilide andargli addosso, Kanan Jarrus smise di parlare e inclinò bruscamente il suo mercantile. Non perse tempo a chiedersi se la nave più grande avrebbe virato nella stessa direzione: corse il rischio, finché poteva ancora scegliere. Fu ripagato con la sopravvivenza... e con una vista pericolosamente ravvicinata della nave in avvicinamento.
“Spiacente”, gracchiò una voce nel comunicatore.
“Vorrei vedere”, disse Kanan, l’espressione indignata negli occhi blu incorniciati da folte sopracciglia scure. Meglio che quel tizio stia in guardia, se dovessi incontrarlo stasera in un vicolo.
Era pura follia. L’orbita ellittica e allungata di Cynda faceva sì che la distanza fra la luna e Gorse cambiasse ogni giorno.
Le giornate da distanza ravvicinata come quel giorno facevano somigliare l’area fra i due mondi alla pista intasata di una gara allo sfascio. Ma l’arrivo dello Star Destroyer e la conseguente distruzione della nave da carico avevano causato un fuggifuggi nello spazio. Una corsa con due gruppi terrorizzati e lanciati in direzioni opposte, che sfrecciavano uno verso l’altro nelle stesse corsie di transito.
Normalmente, Kanan era l’unico a superare i limiti per arrivare dove era diretto. Era così che riusciva a fare un po’ di soldi extra, la ragione principale per cui aveva un lavoro. Ma si vantava anche di riuscire a mantenere il sangue freddo quando gli altri andavano in panico... il che era esattamente ciò che stava succedendo. Kanan aveva già visto uno Star Destroyer, ma era sicuro che nessun altro lì in giro potesse dire lo stesso.
Un altro mercantile gli arrivò di fianco. Non lo riconobbe.
Aveva la foggia di una gemma, con una cabina di pilotaggio a forma di cupola che sporgeva a prua e un’altra per un artigliere situata poco più sopra. Era una bella nave, se paragonata a quelle che erano in volo. Kanan accelerò, cercando di affiancare la nave per dare un’occhiata al pilota. Il mercantile rispose sfrecciando in avanti con sorprendente velocità, rivendicando il proprio vettore e costringendo Kanan a rallentare. Kanan rimase a guardarlo con espressione sbalordita, mentre l’altro pilota inseriva i postbruciatori e schizzava via.
Era la prima volta che toccava i freni da quando era partito, eppure fu notato all’istante. Il comunicatore emise uno stridio, seguito da una voce femminile, che non sembrava affatto felice.
«Ehi, voi! Qual è il vostro identificativo?”
“Chi lo vuole sapere?”
“Sono il capitano Sloane, dello Star Destroyer Ultimatum!”
“Sono impressionato”, rispose Kanan, lisciandosi la barba scura sul mento. “Che cosa indossa?”
“Prego?”
“Sto solo cercando di farmi un’idea. È difficile conoscere gente, qui fuori”.
“Ripeto, qual è il vostro...”
“Qui Expedient, decollato da Gorse City e in volo per la Moonglow Polychemical”. Raramente si prendeva il disturbo di attivare il trasponder, e comunque, nessuno dirigeva mai il traffico lì’.
“Sbrigatevi, o saranno guai!”
Kanan si rilassò sul sedile del pilota e roteò gli occhi.
“Potete spararmi se volete”, dichiarò con voce lenta e strascicata, “ma dovete sapere che trasporto un carico altamente esplosivo di bisolfato di baradio per le miniere di Cynda. È roba che prende fuoco facilmente. Be’, probabilmente voi sarete al riparo dai rottami a bordo di quella vostra grande nave, ma non direi lo stesso per il resto del convoglio. E alcuni di questi ragazzi stanno trasportando la stessa merce. Quindi non so quanto furba possa essere la mossa”. Ridacchiò fra sé.
“Potrebbe essere un bello spettacolo, però”.

Silenzio.
Poi, un momento dopo: “Circolare”.
“Siete sicuri? Cioè, potreste registrarlo e poi farlo...”
“Non tirare la corda, bifolco” arrivò la risposta glaciale.
“E cerca di muoverti”.
Tirò uno dei suoi guanti senza dita e sorrise. “Anche per me è stato un piacere parlare con voi”.
“Ultimatum, chiudo!”
Kanan spense il comunicatore. Sapeva che non c’era alcuna possibilità che lo colpissero, una volta che qualcuno dotato di cervello avesse capito cosa stava trasportando. Per proteggersi, i minatori usavano “Baby” – il nomignolo ironico che stava a indicare il bisolfato di baradio – giù nelle miniere di Cynda.
Gli Imperiali ci avrebbero pensato due volte prima di prendere di mira un “Trasporto Baby” che passava troppo vicino... e il capitano dello Star Destroyer in particolare sarebbe stato meno propenso a rivolgersi a lui dopo quella conversazione.
Anche quello stava andando secondo i piani. Avrebbe preferito evitare quell’incontro, non importava che aspetto avesse lei.
Scimmiottò Sloane, muovendo le labbra senza emettere suoni: “Cerca di muoverti!”. Stava già volando quasi al massimo della velocità. Quando era a pieno carico, l’Expedient non era in grado di fare di più. Il nome sarcastico era stato una sua idea. Il mercantile era della Moonglow, una delle dozzine di navi identiche che la società utilizzava. Le navi finivano male talmente spesso che la compagnia non si prendeva nemmeno il disturbo di dare loro un nome. Anche i “piloti suicidi” non restavano in gioco molto a lungo, ammesso che sopravvivessero, quindi Kanan non aveva idea di quante persone avessero pilotato la sua nave prima di lui. Dare un soprannome al trasporto era solo un tentativo di renderlo un po’ più simpatico.
Si ritrovò a pensare che sarebbe stato bello se, su uno dei pianeti che aveva visitato, avesse potuto pilotare qualcosa che aveva un po’ di classe, come la nave che gli era appena sfrecciata di fianco. Ma in quel caso, chiunque fosse il proprietario, non avrebbe lasciato che si prendesse le stesse libertà che si prendeva con l’Expedient. Come in quel momento: notando due trasportatori minerari diretti verso di lui, inclinò la nave e sfrecciò a spirale fra loro. Le due navi rallentarono: lui proseguì. Che siano loro a fare attenzione a me.
Il suo carico ben fissato non reagì al movimento improvviso, ma la manovra provocò un tonfo sordo in fondo alla stiva.
Voltò la testa, e la corta coda di capelli sfregò contro il poggiatesta. Di sbieco, Kanan vide un vecchio sul ponte, che praticamente nuotava sul pavimento nel tentativo di orientarsi.
“Buongiorno, Okadiah”.
L’uomo tossì. Come Kanan, Okadiah portava la barba senza i baffi, ma aveva i capelli completamente bianchi. Stava dormendo in fondo alla nave, con i fusti di bisolfato di baradio, sull’unico scaffale vuoto. Okadiah preferiva quello alla cuccetta antiaccelerazione nella cabina principale: era più tranquillo. Cercando di capire da che parte fosse la prua, il vecchio si mise a camminare carponi. Parlò all’aria, mentre raggiungeva il posto del secondo pilota. “Ho deciso che non ti pagherò il viaggio, e non avrai la mancia”.
“La miglior mancia che abbia mai avuto è stata cambiare lavoro”, rispose Kanan.
“Bah”.
In realtà, Okadiah Garson faceva molti lavori diversi, ognuno dei quali lo faceva sembrare l’amico perfetto agli occhi di Kanan. Okadiah era il capo di una delle squadre di minatori su Cynda, veterano da trent’anni, che sapeva bene come muoversi. E su Gorse, gestiva l’Asteroid Belt, la taverna preferita da molti dei suoi operai. Kanan aveva conosciuto Okadiah qualche mese prima, sedando una rissa nel suo locale. Era stato grazie a Okadiah che Kanan aveva ottenuto il lavoro di pilota di mercantile con la Moonglow. E inoltre, Kanan viveva nella pensione accanto alla taverna. Un padrone di casa con una scorta di liquori era un buon affare, in effetti.
Okadiah sosteneva che condivideva una bevuta solo quando qualcuno si faceva male nelle miniere. Era una convinzione piuttosto comoda, considerato che succedeva quasi ogni giorno. Il crollo del giorno prima era stato così brutto che i bagordi erano andati avanti per tutta la notte e, come conseguenza, Okadiah aveva perso la navetta degli operai del suo turno. I Trasporti Baby non portavano molti passeggeri che avevano altre alternative per arrivare al lavoro, e Kanan non dava passaggi. Ma per Okadiah aveva fatto un’eccezione.
“Ho sognato di sentire una voce femminile”, disse il vecchio, fregandosi gli occhi. “Severa, regale, imperiosa”.
“Il capitano dell’incrociatore”.
“Mi piace”, disse Okadiah. “Non va bene per te, naturalmente, ma io sono un uomo facoltoso. Quando posso incontrare questo angelo?” Kanan alzò il pollice, indicando fuori dall’oblò alla sua sinistra. Là, il vecchio vide l’Ultimatum che si profilava dietro il viavai del traffico spaziale. Gli occhi arrossati si spalancarono per poi stringersi in una fessura, mentre cercava di capire cosa stesse guardando.
“Uhm”, disse alla fine. “Ieri non c’era”.
“È uno Star Destroyer”.
“Oh, povero me. Ci distruggeranno?”
“Non gliel’ho chiesto”, rispose Kanan, sorridendo. Non aveva idea di come un vecchio minatore fosse riuscito a sviluppare un modo di parlare tanto garbato su un postaccio come Gorse, ma lo aveva sempre divertito. “Qualcuno l’ha fatta arrabbiare. Conosci qualcuno sul Cynda Dreaming?”
Okadiah si sfregò il mento. “Fa parte della squadra della Calladan. Un Testa a martello alto e magro. Ha accumulato un bel conto da pagare all’Asteroid Belt”.
“Be’, puoi scordarti di riscuoterlo”.
“Oh”, disse Okadiah, guardando di nuovo fuori dall’oblò.
C’era ancora in giro qualche resto dello sfortunato mercantile.
“Kanan, ragazzo, hai un modo molto efficace di far passare la sbornia alle persone”.
“Bene. Ci siamo quasi”.
L’Expedient rollò e virò verso la superficie bianca e l’atmosfera rarefatta di Cynda. Era stato scavato un cratere artificiale che fungeva da area di atterraggio: una mezza dozzina di attracchi illuminati di rosso erano stati ricavati nei lati, collegati alle aree minerarie sottostanti. Kanan portò l’Expedient sopra il cratere, poi puntò la nave verso l’entrata a lui designata.
Okadiah guardò verso prua e socchiuse gli occhi. “Ecco la mia navetta !”
“Te l’avevo detto che l’avremmo raggiunta”.
Sì, l’avevano raggiunta, ma non era stato solo grazie agli sforzi di Kanan. L’ordine assurdo dell’Impero aveva giocato un ruolo fondamentale. La navetta per gli operai su cui avrebbe dovuto trovarsi Okadiah aveva tentato di entrare nell’attracco troppo velocemente e aveva buttato giù un lato dell’ingresso.
Ora stava bloccando l’entrata, inerte e in parte sospesa oltre il bordo. Non era a rischio di caduta, ma lo scudo magnetico che avrebbe dovuto fungere da chiusura della caverna non poteva essere attivato. Gli operai in tuta spaziale erano fermi nell’attracco a fissare inermi il relitto.
“Spostatelo”, disse Kanan nel comunicatore.

“Resta immobile, Moonglow-Settantadue”, arrivò gracchiando la risposta dalla torre di controllo al centro del cratere. “Ti faremo entrare dopo che avremo fatto sbarcare e munito di tute gli operai”.
“Ho un orario da rispettare”, replicò Kanan, uscendo dalla modalità di volo stazionario e dirigendo l’Expedient verso l’entrata.
Una serie di vibranti proteste giunse dal comunicatore, attirando l’attenzione di Okadiah. L’uomo lanciò uno sguardo
a Kanan. “Lo sai che stiamo trasportando potenti esplosivi?”
“Non mi importa”, rispose Kanan. “E a te?”
“Per niente. Scusa il disturbo. Continua pure”.
E così fece Kanan, avvicinando con abilità il muso tozzo dell’Expedient alla parte esposta della navetta. Vide i minatori all’interno, che protestarono inutilmente contro di lui quando la sua nave entrò in contatto con l’altra con un rumore metallico.
Sforzando i motori, Kanan diede potenza all’Expedient e liberò la navetta dall’entrata. Lo stridore acuto riecheggiò fra le due navi, e Okadiah lanciò un’occhiata nervosa nella stiva.
Ma dopo pochi secondi, entrambe le navi erano all’interno dell’area di atterraggio. Lo scudo magnetico sigillò la zona d’attracco, e Kanan spense i motori.
Okadiah emise un fischio. Per un istante osservò Kanan con un certo stupore, poi posò le mani sui comandi davanti a lui. “Bene, è andata”. Fece una pausa, evidentemente confuso. “Facciamo una bevuta dopo il lavoro, giusto?”
“Come no”.
“Un ordine completamente sbagliato”, osservò il vecchio, barcollando leggermente mentre si alzava.
“Andiamo, allora”.


Star Wars: Una Nuova Alba. Il Conte Vidian

QUI È OBI-WAN KENOBI
LE FORZE DELLA REPUBBLICA
SI SONO RIVOLTATE CONTRO I JEDI
STATE LONTANI DA CORUSCANT,
NON FATEVI RICONOSCERE
SIATE FORTI
CHE LA FORZA SIA CON VOI

“L’Imperatore svela un progetto ambizioso
per l’espansione della flotta imperiale”.
“Il conte Vidian dà il via
al nuovo giro d’ispezione industriale”.
“Residuati bellici inesplosi dalle Guerre dei Cloni
continuano a preoccupare”.
- Titoli principali, Imperial HoloNews
(Edizione di Gorse)

“Allarme collisione!”
Solo un attimo prima lo Star Destroyer era emerso dall’iperspazio e, adesso, una nave da carico stava andando a sbattere contro la plancia. Prima che gli scudi dell’Ultimatum potessero essere alzati o che i cannoni potessero essere messi in azione, la nave in avvicinamento virò improvvisamente verso l’alto.
Rae Sloane osservò, incredula, l’imprevedibile mercantile sfrecciare sopra l’oblò della plancia e scomparire alla vista.
Tuttavia, era in grado di sentirlo: un lieve colpo sordo l’avvertì che aveva appena urtato la sommità dello scafo della gigantesca nave. Il nuovo capitano si voltò a guardare il suo primo ufficiale. “Danni?”
“Nessuno, capitano”.
Non mi sorprende, pensò. Di certo era andata peggio all’altro tizio. “Questi bifolchi si comportano come se non avessero mai visto uno Star Destroyer!”
“Di sicuro non l’hanno mai visto”, replicò il comandante Chamas.
“Sarà meglio che ci si abituino”. Sloane osservò il nugolo di trasporti davanti all’Ultimatum. La sua astronave di classe Imperial era uscita dall’iperspazio proprio ai margini della corsia stabilita per l’accesso più sicuro, avvicinandosi pericolosamente al più grosso ingorgo di traffico dell’Orlo Interno. Si rivolse alle decine di membri dell’equipaggio alle proprie postazioni. “State all’erta. L’Ultimatum è troppo nuovo per tornare coi graffi”. Ripensandoci, socchiuse gli occhi. «Inviate un messaggio sul canale della Gilda Mineraria. Il prossimo idiota che arriva a meno di un chilometro da noi si becca una bella pettinata coi turbolaser”.
“Sissignore, capitano”.
Ovviamente, nemmeno Sloane era mai stata in questo sistema, avendo ottenuto il grado di capitano giusto in tempo per il viaggio di collaudo dell’Ultimatum. Alta, muscolosa, con pelle e capelli scuri, Sloane aveva mostrato capacità eccezionali sin dall’inizio, scalando rapidamente i ranghi.
In verità, stava solo facendo una sostituzione sull’Ultimatum, dal momento che il capitano designato era stato assegnato al comitato di costruzione... ma quanti altri erano stati al comando di una nave da battaglia a trent’anni? Non lo sapeva: la Flotta Imperiale esisteva di nome da meno di un decennio, da quando il cancelliere Palpatine aveva annientato i traditori Jedi e trasformato la Repubblica nell’Impero Galattico. Sloane sapeva solo che ciò che sarebbe successo nei giorni a venire avrebbe stabilito se a lei fosse spettata una nave tutta sua.
Era stata informata che questo sistema ospitava qualcosa di raro: una combinazione astronomica assai strana. Gorse, incorniciato nell’oblò di prua, era all’altezza della sua reputazione, quella del pianeta forse più brutto della galassia.
In orbita sincrona attorno alla sua stella madre, la fumigante palla di fango aveva una faccia sempre esposta al calore. Solo la parte che rimaneva costantemente al buio era abitabile e accoglieva un’enorme città industriale, che sorgeva in mezzo a un paesaggio costellato di miniere a cielo aperto. Sloane non riusciva a immaginare come fosse possibile vivere su un mondo che non vedeva mai sorgere il sole... sempre che si potesse definire “vivere” il sudare in un’afosa e perenne notte d’estate.
Immobile sulla sinistra, la donna vide il vero gioiello: Cynda, l’unica luna di Gorse. Abbastanza grande da poter essere annoverata negli archivi imperiali come pianeta gemello di Gorse, Cynda possedeva una meravigliosa luminosità argentea, ed era tanto incantevole quanto il suo genitore era squallido.
Ma Sloane non era interessata al panorama, né ai travagli dei vari perdenti che vivevano su Gorse. Voltò le spalle all’oblò.
“Assicuratevi che i convogli stiano rispettando il nostro spazio libero. Poi informate il conte Vidian che abbiamo...”

“Dimentichi la vecchia procedura”, esordì una voce baritonale.
Il tono aspro delle parole fece sussultare chiunque fosse in plancia, perché tutti le avevano già sentite... ma quasi mai in quel modo. Era la frase tipica del loro famoso passeggero, citata in più di un programma commerciale all’epoca della Repubblica e ancora utilizzata per introdurre la sua fortunata serie di aiuti gestionali, ora che era al servizio del governo.
Ovunque, la vecchia procedura utilizzata dalla Repubblica stava per essere sostituita. “Dimenticate la vecchia procedura” era davvero lo slogan del momento.
Ma Sloane non sapeva perché la stesse ascoltando in quel momento, comunque. “Conte Vidian”, dichiarò, con lo sguardo che passava da una porta all’altra. “Stiamo solo stabilendo il nostro perimetro di sicurezza. È la procedura standard”.
Denetrius Vidian apparve sulla soglia più lontana da Sloane.
«E io le ho detto di dimenticare la vecchia procedura”, ripeté il conte, anche se non c’era alcun dubbio che tutti lo avessero udito già la prima volta. “L’ho sentita trasmettere al traffico minerario l’ordine di allontanarsi. Sarebbe stato più efficace se foste stati voi ad allontanarvi dalle loro corsie di transito”.
Sloane si irrigidì. «La Flotta Imperiale non si ritira dal traffico commerciale”.
Vidian batté il tacco di metallo sul ponte. “Mi risparmi il suo futile orgoglio! Se non fosse per la thorilide che questo sistema produce, lei sarebbe capitano di una navetta. State rallentando la produzione. La vecchia procedura è sbagliata!”
Sloane si accigliò, contrariata per essere stata zittita sul ponte di comando della sua nave. Era necessario far sembrare che fosse una sua decisione. «È la thorilide dell’Impero. Ci terremo a distanza. Chamas, arretri di un chilometro dalle corsie commerciali... e sorvegli tutto il traffico”.
“Sissignore, capitano”.
“Bene”, disse Vidian. Ogni sillaba veniva pronunciata in tono secco, modulata meccanicamente e amplificata, così che tutti potessero sentire. Ma Sloane non sarebbe mai riuscita ad accettare la parte più strana, che aveva notato quando il conte era salito a bordo: la bocca di quell’uomo non si muoveva mai. Le parole di Vidian arrivavano da una speciale protesi vocale, un computer attaccato a un altoparlante integrato in una placca d’argento che portava intorno al collo.
Sloane aveva sentito una volta la voce di Darth Vader, il principale emissario dell’Imperatore: benché elettronicamente amplificata, la voce ben più profonda del Signore Oscuro conservava ancora un’eco naturale di qualsiasi cosa ci fosse all’interno di quell’armatura nera. Per contro, si diceva che il conte Vidian avesse scelto la sua voce artificiale basandosi su un sondaggio, nel tentativo di ottenere la voce capace di motivare di più nel settore commerciale.
E dal momento in cui era salito a bordo della sua nave con i suoi aiutanti, una settimana prima, Vidian non si era fatto alcuno scrupolo di parlare con il tono di voce alto che riteneva necessario. In merito all’Ultimatum, al suo equipaggio... e a lei.
Vidian percorse a grandi passi meccanici il ponte di comando. Era l’unico modo per descriverlo. Era umano quanto lei, ma gran parte del suo corpo era stato sostituito.
Le braccia e le gambe erano corazzate, invece di essere rimpiazzate con protesi di pelle sintetica: lo sapevano tutti, perché lui non faceva alcuno sforzo per nasconderle. La regale tunica rosso scuro e il gonnellino nero lungo fino alle ginocchia rappresentavano le uniche concessioni al normale abbigliamento di un capitano d’industria sulla cinquantina.
Ma era il viso di Vidian ad attirare l’attenzione in modo imbarazzante. La sua pelle si era deteriorata a causa della stessa malattia che aveva logorato in passato gli arti e le corde vocali, e Vidian aveva celato i suoi lineamenti sotto uno strato di pelle sintetica. E poi c’erano gli occhi: impianti artificiali, costituiti da un’iride giallo acceso collocata in un mare di rosso. Gli occhi sembravano destinati ad altre specie non umane: Vidian li aveva scelti soltanto per ciò che potevano fare. A Sloane risultò chiaro proprio in quel momento, mentre il conte camminava guardando fuori dall’oblò, da convoglio a convoglio, da nave a nave, analizzando mentalmente il quadro generale.
“Abbiamo già incontrato alcuni locali”, disse il capitano.
“Probabilmente ha sentito anche lei il tonfo. La gente qui è...”
“Disorganizzata. Ecco perché sono qui”. Si voltò e si avviò lungo la fila di operatori dei terminali finché non raggiunse la postazione tattica che mostrava tutte le navi presenti in quell’area. Scostò Cauley, il giovane guardiamarina umano, e premette un tasto di comando. Poi indietreggiò dalla console e si bloccò, fissando in modo assente lo spazio.
“Signore?”, chiese Cauley, intimidito.
“Ho trasferito i dati dal suo schermo al mio impianto ottico”, spiegò Vidian. “Lei può tornare al suo lavoro mentre io li leggo”.


Star Wars: Una Nuova Alba. La Lezione di Obi Wan Kenobi

Sentite anche voi un fremito nella Forza? Dopo un assaggio del Lato Oscuro (in un certo senso...) con Tarkin di James Luceno è ora di tornare in compagnia di Jedi e spade laser con Una Nuova Alba, in uscita il 7 luglio! Ecco a voi il primo estratto di questo meraviglioso nuovo capitolo della saga di Star Wars!

“È ora che voi torniate a casa”, disse Obi-Wan Kenobi.
Il Maestro Jedi osservò le luci intermittenti sul pannello di controllo alla sua destra... e poi gli studenti che lo stavano guardando. Il corridoio che correva fra le torreggianti file di computer nella stazione di sicurezza centrale era stato concepito per i pochi Jedi che si occupavano della manutenzione, non per una massa di persone. Ma i piccoli ci stavano alla perfezione, timorosi di spintonarsi a vicenda alla presenza del loro insegnante del mattino.
“È questo il significato del radiofaro”, disse l’uomo barbuto, voltandosi di nuovo verso l’interfaccia. File di luci blu lampeggiavano in un mare di indicatori verdi. Fece scattare un interruttore. “Voi ora non potete sentire né vedere niente. Non qui nel Tempio dei Jedi. Ma lontano da Coruscant, sui pianeti disseminati nella galassia, coloro che appartengono al nostro Ordine riceveranno il messaggio: Tornate a casa”.
Seduto sul pavimento coi suoi compagni nella stazione di sicurezza centrale, il giovane Caleb Dume ascoltava... ma con poca attenzione. Vagava con la mente, come spesso succedeva quando provava a immaginare di essere fuori sul campo.
Era magro e nerboruto allora, con la pelle rubiconda e gli occhi azzurri sotto una zazzera di capelli neri. Era solo uno dei tanti, non era ancora l’apprendista di un mentore. Ma un giorno sarebbe stato là fuori, a viaggiare per mondi esotici insieme al suo Maestro.
Avrebbero portato pace e ordine ai cittadini della Repubblica Galattica, sconfiggendo il male ovunque lo avessero trovato.
Poi si vide più in là negli anni, come un Cavaliere Jedi che combatteva a fianco dei cloni della Repubblica contro i nemici separatisti. Certo, il cancelliere della Repubblica Palpatine aveva promesso di risolvere in fretta il conflitto, ma nessuno poteva essere tanto scortese da porre fine alla guerra prima che Caleb avesse la sua opportunità.
E poi, alla fine, si azzardò a sperare di diventare un Maestro Jedi come Obi-Wan, riconosciuto, benché così giovane, come uno dei saggi più avveduti dell’Ordine.
Allora sì che avrebbe compiuto davvero grandi prodezze.
Avrebbe condotto valorosamente la battaglia contro i Sith, la leggendaria controparte malvagia dei Jedi.
Naturalmente, i Sith non si vedevano da mille anni, e lui non aveva alcun sospetto riguardo al loro ritorno. Ma, in fatto di ambizioni, Caleb non era diverso dagli altri ragazzi intorno a lui, qualsiasi fosse il sesso o la specie. L’immaginazione degli adolescenti non conosceva confini.
Il Maestro Jedi dai capelli biondo-rossicci toccò di nuovo il pannello. “È in modalità di prova ora”, disse Obi-Wan.
“Nessuno risponderà. Ma se dovesse esserci una vera emergenza, i Jedi potrebbero ricevere il messaggio in diversi modi”. Abbassò lo sguardo sui suoi ascoltatori. “C’è il segnale base d’allarme. E poi ci sono altri elementi, in cui potreste trovare testi più dettagliati e messaggi olografici. Non importa il formato, lo scopo primario dovrebbe essere chiaro...”
“Tornate a casa!”, gridarono gli studenti riuniti.
Obi-Wan annuì. Poi notò una mano alzata. “Lo studente in fondo”, disse, cercando di richiamare alla mente il nome.
“Caleb Dume, giusto?”
“Sì, Maestro”.
Obi-Wan sorrise. “Anche io sto imparando”. Gli studenti ridacchiarono. “Hai una domanda, Caleb?”
“Sì”. Il ragazzo prese fiato. “Dove?”
“Dove cosa?”
Gli altri alunni risero di nuovo, un po’ più forte, questa volta.
“Dov’è casa? Dove andiamo?”
Obi-Wan sorrise. “A Coruscant, naturalmente. Qui, al Tempio dei Jedi. Il richiamo è esattamente ciò che sembra”.

L’insegnante fece l’atto di voltarsi di nuovo verso il segnalatore, quando vide con la coda dell’occhio Caleb che alzava ancora la mano. Il ragazzo non era il tipo da sedersi in prima fila a tutte le lezioni – nessuno rispettava il cocco dell’insegnante – ma la timidezza non era mai stata un problema per lui.
“Sì, Caleb?”
“Perché...”. La voce del ragazzo si incrinò, fra le risa soffocate dei suoi compagni. Lui guardò gli altri e ricominciò. “Perché tutti i Jedi dovrebbero venire qui nello stesso momento?”
“Ottima domanda. Osservando questo posto, si potrebbe pensare che ci siano tutti i Jedi di cui abbiamo bisogno!”. Obi-Wan sorrise ai Maestri degli studenti, tutti in piedi all’esterno, nella più spaziosa sala di controllo, a osservare. Con la coda dell’occhio, Caleb vide fra loro Depa Billaba. Pelle abbronzata e capelli scuri, la Jedi aveva manifestato un interesse nell’averlo come apprendista, e ora lo stava studiando da lontano col suo solito sguardo molto tollerante: E ora, cosa stai blaterando, Caleb?
Lo studente avrebbe voluto sprofondare nel pavimento... quando Obi-Wan si rivolse direttamente a lui.

“Perché non lo dici tu a me, Caleb: quale motivo ci indurrebbe, secondo te, a richiamare tutti i Jedi dell’Ordine?”
Il cuore di Caleb cominciò a battere più forte, quando si accorse che tutti lo stavano fissando. Nella quotidianità, il ragazzo non aveva mai temuto seccature per aver parlato troppo apertamente: i bambini coi quali si esercitava regolarmente sapevano che non si tirava mai indietro. Ma alla riunione c’erano studenti che non aveva mai visto, compresi quelli più grandi, per non parlare dei Maestri Jedi. E a Caleb si era appena presentata l’opportunità di farsi notare da un membro dell’Alto Consiglio davanti a tutti.
O forse l’occasione di rispondere in modo errato alla domanda, e prendersi i loro insulti. Le possibilità erano infinite...
Inclusa una domanda trabocchetto.
“So per quale motivo li richiamereste”, disse alla fine Caleb.
“Per ragioni inaspettate!”
Gli altri scoppiarono a ridere, facendo svanire ogni parvenza di ordine rispettoso alle parole di Caleb. Ma Obi- Wan alzò le mani. “Questa è la risposta migliore che abbia mai sentito”, affermò.
Il gruppo si zittì, e Obi-Wan continuò: “La verità, miei giovani amici, è che io non lo so. Potrei raccontarvi delle numerose volte in cui, nel corso della storia dell’Ordine, i Jedi sono stati richiamati a Coruscant per occuparsi di una minaccia o un’altra. Eventi infausti, che hanno portato a grandi gesta eroiche. Esistono verità ed esistono leggende permeate di verità, e ognuna di queste può insegnarvi qualcosa. Sono certo che Jocasta, la nostra bibliotecaria, può aiutarvi a fare maggiori ricerche”. Giunse le mani. “Ma non esiste un avvenimento che sia uguale a un altro... e quando il segnale verrà diffuso di nuovo, anche quell’evento sarà unico. Mi auguro che non sarà necessario, ma sapere della sua esistenza fa parte del vostro addestramento. Quindi la cosa importante è: quando ricevete il segnale...”
“... tornate a casa!”, conclusero i bambini, compreso Caleb.
“Molto bene”. Obi-Wan disattivò il segnale e attraversò la folla, diretto all’uscita. Gli studenti si alzarono e uscirono in fila, dirigendosi alla sala di controllo, felici di essere in uno spazio più ampio e chiacchierando del ritorno alle altre lezioni. La gita di istruzione in quel livello del Tempio dei Jedi era conclusa.
Anche Caleb si alzò, ma non si allontanò dal corridoio.
I Jedi insegnavano ai loro studenti a osservare le cose da ogni lato, e Caleb si ritrovò a pensare che forse c’era un altro modo di vedere la questione che era stata appena presentata loro.
Con le sopracciglia aggrottate, fece per alzare di nuovo la mano. Poi si accorse che era rimasto solo. Nessuno lo stava guardando o ascoltando.
A parte Obi-Wan, che era rimasto sulla soglia. “Cosa c’è?”, chiese a voce alta il Maestro per farsi sentire sopra il baccano. Alle sue spalle, gli altri si calmarono, bloccandosi.
“Cosa c’è, Caleb?”
Stupito di essere stato notato, Caleb deglutì. Vide la Maestra Billaba accigliarsi leggermente, mentre si chiedeva, senza dubbio, cosa aveva in mente questa volta la sua giovane e impulsiva promessa. Era una buona opportunità per stare zitto. Ma da solo, in piedi in mezzo al corridoio fra le file di luci, non aveva scelta. “Questo radiofaro. Può inviare qualsiasi messaggio, giusto?”
“Ah”, rispose Obi-Wan. “No, di solito non lo usiamo per le normali questioni amministrative. Come Cavalieri Jedi – cosa che spero un giorno diventerete tutti – riceverete questo genere di informazioni individualmente, con forme meno drammatiche di...”
“Potete far allontanare le persone?”
Il gruppo intero trasalì. Interrotto, ma non visibilmente irritato, Obi-Wan sgranò gli occhi.

“Come, prego?” “Potete far allontanare le persone?”, ripeté Caleb, indicando i comandi del radiofaro. “Può richiamare tutti i Jedi all’istante. Può avvertirli di tenersi lontani?”
Nella stanza alle spalle di Obi-Wan si levò un brusio di voci.
La Maestra Billaba entrò nella sala dei computer, cercando, evidentemente, di porre fine a un momento imbarazzante.
“Credo che basti, Caleb. Ci scusi, Maestro Kenobi. Non vogliamo farle perdere del tempo prezioso”.
Obi-Wan non la stava guardando. Anche lui stava fissando il radiofaro, con espressione pensierosa. “No, no”, disse infine, indicando la folla senza voltarsi. “Aspettate, per favore”. Si grattò la testa e si rivolse di nuovo alla gente riunita. “Sì”, disse, con calma. “Suppongo possa essere usato per avvertire i Jedi di tenersi lontani”.
Gli studenti reagirono con un boato di protesta.
Avvertire i Jedi di allontanarsi?
I Jedi non scappavano! I Jedi correvano incontro al pericolo!
I Jedi resistevano, i Jedi combattevano!
Gli altri Maestri intervennero, facendo un cenno a Obi-Wan.
“Studenti”, disse uno dei più anziani, “non c’è ragione di...”
“Nessuna ragione apparente”, si intromise Obi-Wan, puntando l’indice in aria. Cercò lo sguardo di Caleb. “Soltanto ciò che ha detto il nostro giovane amico: ragioni inaspettate”.
Il silenzio calò sul gruppo. Caleb, di nuovo restio a parlare, lasciò che fosse un altro studente a chiedere ciò che lui stava pensando. “Quindi cosa accadrebbe? Se ci mandaste via tutti, cosa accadrebbe?”
Obi-Wan ci pensò un istante, prima di voltarsi verso gli studenti mostrando loro un sorriso cordiale e rassicurante.
“Quello che succede tutte le volte. Voi eseguirete l’ordine... e resterete in attesa del successivo”. Sollevando le braccia, congedò l’assemblea. “Grazie per il vostro tempo”.
Gli studenti uscirono in fila e in fretta dalla sala di controllo, continuando a parlare. Caleb rimase, guardando Obi-Wan sparire dietro un’altra porta. I suoi occhi si posarono di nuovo sul radiofaro.
Sentiva che la Maestra Billaba lo stava osservando. Si voltò e la vide, sola, in attesa sulla soglia. L’espressione accigliata era scomparsa, e il suo sguardo era cordiale e premuroso. Gli fece cenno di seguirla. Lui la assecondò.
“Il mio giovane stratega continua a pensare”, disse mentre entravano nell’ascensore. “Hai altre domande?”
“Restate in attesa degli ordini”. Caleb aveva gli occhi fissi a terra, poi li sollevò su di lei. “E se gli ordini non dovessero mai arrivare? Non saprei cosa fare”.
“Forse lo saprai”.
“Forse no”.
Lei lo guardò, pensierosa. “Va bene, forse no. Ma tutto è possibile”, affermò, posando il braccio sulle sue spalle, mentre la porta si apriva. “Forse la risposta ti arriverà sotto un’altra forma”.
Caleb non sapeva cosa volesse dire. Ma era tipico della Maestra Billaba parlare per enigmi, e, come sempre, lui se ne dimenticò non appena uscì sul piano dove si esercitavano i giovani Jedi. Ogni giorno, le stanze del Tempio vedevano i più potenti guerrieri della galassia insegnare alle generazioni successive a combattere con le spade laser, fare acrobazie, lottare corpo a corpo, e perfino pilotare navi spaziali, usando dei simulatori. Ogni disciplina immaginabile che aveva una qualche affinità con la mistica Forza, il campo di energia da cui i Jedi traevano il loro potere, poteva rivelarsi utile.
E quelli che vedeva rappresentavano solo una piccola frazione dell’Ordine dei Jedi, che aveva avamposti e basi operative in tutta la galassia conosciuta. È vero, la Repubblica Galattica era al momento in guerra con i Separatisti, ma i Jedi avevano sventato pericoli per mille generazioni. Come era possibile che qualcuno o qualcosa potesse costituire una minaccia per loro?
Caleb entrò in una stanza dove i suoi compagni erano già al lavoro, esercitandosi con bastoni di legno. Uno dei suoi soliti avversari nel duello, un giovane umanoide dalla pelle rossa, gli andò incontro sulla porta, con l’arma di allenamento in mano.
Anche lui aveva partecipato alla conferenza. “Benvenuto, giovane Maestro Serious”, esordì, sorridendo. “Cos’era tutta quella storia con il Maestro Kenobi?”
“Non ci pensare”, rispose Caleb, spingendolo da parte per entrare nella stanza e andare a prendere la sua arma di allenamento. “Niente di che”.
“Ma aspetta!”. La mano libera dell’altro ragazzo scattò in aria, imitando Caleb quando voleva porre una domanda.
“Ooh! Ooh! Fate parlare me!”
“Certo, ti conviene concentrarti, amico, perché ho intenzione di suonartele”. Caleb sorrise e si mise al lavoro.


Tomorrow War: Dal Diario di Max, Parte 4

Siamo giunti alla vigilia dell'uscita di Tomorrow War (in tutte le librerie da domani, 23 giugno!) e vi proponiamo la quarta e ultima anteprima per questo nuovo capolavoro survival scritto da J.L.Bourne, il maestro del thriller post apocalittico! Facciamo un piccolo salto avanti nel tempo, e scopriamo qualche dettaglio in più sulla missione di Max: una missione che cambierà per sempre il mondo... con risultati apocalittici!

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Un Gulfstream non identificato mi stava aspettando sulla pista di Drake. Il volo è durato poco: tre ore dopo il decollo, ho raggiunto la mia destinazione in Nord Virginia. Non mi hanno portato a Langley, ma nella sede di una società di copertura ad Alexandria. L’edificio si erge in bella vista e salta agli occhi di chiunque percorra la Route 1. È sufficiente cercare un complesso con enormi antenne satellitari sul tetto e un giardino curato nei minimi dettagli. Nessun imprenditore spenderebbe tanti soldi per tagliare i prati ogni settimana e tenere le finestre lucide.
La struttura di facciata è un edificio di mattoni rossi che ospita una compagnia di telecomunicazioni e che è collegato alla vicina fabbrica di vetro. Non a caso, si trova poco distante dalla rampa che imbocca il Woodrow Wilson Bridge sul lato della tangenziale, ai confini con il Maryland. Garantisce un pratico accesso alla stazione di Huntington, alla base aeronautica di Andrews e alle sedici agenzie di intelligence.
Appena entrato nell’edificio, mi sono fatto strada verso il banco della reception, dietro cui sedeva una donna ben vestita e con i capelli legati in una crocchia. Non mi ha intimato di fermarmi, tantomeno ha reagito in alcun modo alla mia presenza. Senza neppure alzare lo sguardo, mi ha consegnato un tesserino con lo stesso logo della Delmay Glass che campeggiava sull’edificio e mi ha ordinato di salire in ascensore, quindi di premere il pulsante otto. Le ho chiesto come facesse a sapere chi fossi, ma lei ha tagliato corto.
“Riconoscimento facciale. Sei autorizzato a entrare. Ora sali in ascensore. Non è una buona idea restare alla reception per più di sessanta secondi”.
Ho avuto la netta impressione che quella donna non stesse scherzando. Mi sono diretto verso l’ascensore e ho guardato le porte a specchio chiudersi di fronte a me. Ho premuto otto ed è risuonata una voce meccanica: “Benvenuto alla Delmay Glass. Avvicini il tesserino alla spia luminosa, prego”. Il pulsante otto stava lampeggiando, quindi ho seguito le istruzioni alla lettera. “Grazie, le auguriamo una piacevole giornata”.
L’ascensore ha intrapreso la sua breve scalata fino all’ultimo piano. Quando le porte si sono aperte, ho notato un lungo tavolo circondato da persone in abiti d’affari. Sul ripiano c’erano delle ciambelle fritte, insieme a una caraffa in metallo probabilmente piena di caffè. Il mio abbigliamento mal s’adattava alle circostanze, perché indossavo un paio di pantaloni militari, scarpe di cuoio consumate dal tempo, una polo e un cappellino con la tesa. Da tempo avevo rinunciato alla rasatura mattutina e sfoggiavo una folta e rispettabilissima barba. Le persone intorno al tavolo mi erano del tutto sconosciute. Mi sentivo osservato, analizzato da quelle figure spettrali che fluttuavano ai quattro angoli della stanza nei loro costosi completi da dirigenti.
Quando mi sono fatto avanti, è venuta ad accogliermi una rossa sulla trentina. Si è fermata di colpo, a pochi centimetri da me, fissandomi dritto negli occhi. Indossava un tailleur pantalone e aveva zigomi alti con lineamenti europei.
Era di bell’aspetto, ma i suoi occhi inquisitori sembravano stridere con la giovinezza dei suoi tratti. Mi ha squadrato, mi ha chiesto di seguirla fino al tavolo e, dopo qualche passo, si è presentata come Maggie. La riunione non era ancora iniziata.
Sono rimasto accanto a lei, in piedi e a disagio, mentre la conversazione cominciava a farsi più chiassosa, come i chiacchiericci della mia classe ai tempi di Spokane.
Maggie si è voltata verso di me e ha annunciato: “Tu e io lavoreremo insieme”.
Fantastico, ma in che modo? E dove? Erano queste le domande che mi passavano per la mente. Ho accarezzato pensieri insignificanti e assai poco cavallereschi mentre i pezzi grossi intorno a me ciarlavano con foga, ridendo e scambiandosi cenni d’intesa come se si conoscessero da anni. Dal canto mio, continuavo ansiosamente a tenere d’occhio l’uscita.
Sono stato il primo a notare le guardie del corpo che si sono riversate nella stanza, seguite nientemeno che dalla Presidente degli Stati Uniti.
Di colpo è sceso il silenzio e tutti sono scattati in piedi, mentre la Presidente guadagnava un posto alla testa del tavolo.
“Prego, sedetevi e cominciamo”.
Uno dei colletti bianchi si è avvicinato alla parete, ha premuto un interruttore e ha attivato un dispositivo fissato alle finestre. Emetteva flussi di rumore bianco, allo scopo di neutralizzare eventuali microfoni laser. Quell’apparecchio era in bella vista, ma mi chiedevo cos’altro nascondessero le mura e i soffitti della Delmay Glass. Un portaborse della Presidente ha consegnato una valigetta all’oratore di turno.
Un altro ha trascinato in posizione un vecchio proiettore.Era dai tempi della scuola che non assistevo a una presentazione con diapositive analogiche, ma il mio sguardo incredulo non è passato inosservato. Maggie mi si è avvicinata all’orecchio e ha sussurrato: “Gli hacker non possono violare gli archivi di diapositive”. Già, aveva senso.
Ho sempre sentito dire che le reti più sicure non sono i sistemi informatici protetti, tantomeno quelle idiozie relative ai programmi di formazione documentata. È il cosiddetto sneakernet: il trasferimento fisico tra persone fidate di informazioni scritte su carta.
Sullo schermo bianco sono comparse le diapositive, proiettate una dopo l’altra in rapida successione.
Operazione Falco braccato: destabilizzazione del regime siriano”. Cominciavo a capire perché mi trovavo lì. Io e Maggie dovremo fingerci due tecnici delle telecomunicazioni: l’obiettivo è recapitare e installare un imprecisato “pacco” in uno snodo di trasmissione della Syriatel situato alla periferia di Damasco. Viaggeremo da soli, ma in caso di emergenza potremo contare sulla protezione di forze speciali già di stanza ai confini della capitale siriana. Gli uomini delle squadre d’élite si stanno occupando del trasporto di alcuni missili terra-aria da un sottomarino al largo della costa fin nelle mani dei ribelli. Un operativo sorveglierà la nostra zona di atterraggio e passerà all’offensiva se dovessimo incontrare degli infidi allevatori di capre.
La riunione si è protratta per non più di quindici minuti.
La Presidente, assorta nelle sue riflessioni, si è concessa una lunga pausa prima di parlare. “Assad non lascerà mai la Siria di sua spontanea volontà. Se dovesse essere deposto, o se il suo regime collassasse, gli alauiti finirebbero uccisi o sarebbero costretti alla diaspora. Allo stato attuale delle cose, rappresentano solo il dieci percento della popolazione siriana”.
La Presidente ha fissato Maggie, poi ha rivolto un’occhiata a me e ha aggiunto: “È tutto chiaro?”
“Sì, certo”, ha risposto Maggie con prontezza.
“Bene. Quando sarà tutto finito, chiamate il capo di stato maggiore”. Maggie ha annuito con atteggiamento accondiscendente.
La Presidente si è alzata, ha ringraziato tutti ed è uscita senza troppe cerimonie.
Non avevo mai incontrato un presidente. Sentivo l’irrefrenabile impulso di chiamare casa e raccontarlo a tutti, ma gira voce che sia il modo più rapido per finire in un sacco e sparire per sempre.