Tomorrow War: Dal Diario di Max, Parte 3

In questo terzo estratto di Tomorrow War, il protagonista Max [SEGRETATO] inizia una nuova fase del suo addestramento, che lo porterà a diventare un perfetto agente sotto copertura. Il suo Paese gli affiderà ben presto una missione fondamentale… una missione che segnerà la fine del mondo così come lo conosciamo…

—————————————————————————————————————————————

Decisamente, la realtà è diversa dal cinema. Mi trovo qui da due settimane, ho fallito il primo test alla macchina della verità e ho avuto il piacere di finire per ben due volte dallo strizzacervelli della base. Ho superato il test del poligrafo al secondo tentativo, ma mi è stato detto che la maggior parte dei candidati non ci riesce prima del terzo. Quello che i capoccia non sanno è che ho mentito spudoratamente in entrambe le occasioni.

Non mi sono lasciato ingannare dalla merdosa tuta dell’incaricato o dal fatto che la sua sedia fosse più alta della mia. Non ero neanche intimidito. Ho giocato sporco con le domande di controllo, scompigliando da subito le sue linee guida. Durante il primo test, ho cercato gli elementi di debolezza. Nel secondo, li ho sfruttati. L’addetto si vantava del suo diploma conseguito con successo a Fort McClellan, ma per me non faceva alcuna differenza.
Avere la meglio su un poligrafo non è troppo difficile, se non sei un coglione e non cerchi di fregare quell’ammasso di latta stringendo le chiappe o infilandoti una puntina in una scarpa. Quelle sono leggende metropolitane che funzionano solo nei romanzi spionistici di mezza tacca. L’esaminatore è addestrato a individuare qualsiasi stratagemma idiota, mentre le moderne sedie da poligrafo incorporano sensori a pressione che rilevano ogni minima tensione del corpo durante gli interrogatori.
Qual è l’unico, vero segreto per ingannare una macchina della verità? Partire dal presupposto che non funzioni. Il test è efficace solo se il soggetto crede nella tecnologia che lo sta valutando, e l’esaminatore sa perfettamente come instillare un infondato senso di fiducia. Chi è convinto che il test sia una pura e semplice stronzata e resta saldo nelle sue convinzioni è senza dubbio destinato a superarlo. Prima o poi.
Ci alleniamo in gruppo ogni mattina, e alcuni di noi corrono a una velocità da far spavento. Io non sono una scheggia, ma riesco comunque a non finire tra le schiappe. Tra qualche giorno, a quanto pare, l’addestramento proseguirà in un luogo che tutti chiamano il “Point”. La nostra squadra conta diversi agenti reclutatori, ma io so di trovarmi qui per altre ragioni. I reclutatori ricevono puntualmente istruzioni diverse dalle mie. Imparano ad allestire reti di rapporti e a sviluppare il potenziale degli operativi. Trascorrono ore nei laboratori di conversazione, tentando di apprendere la sacra arte dell’eloquio, anche se temo che talenti del genere non si imparino a scuola. Qui non ci sono orologi laser o Walther PPK. Molti dei reclutatori strapperanno il loro diplomino e faranno tappa nel Nord Virginia per incontrare e salutare gli analisti, prima di finire a sgobbare in qualche noiosa e merdosissima buca nel deserto. Le mie sono solo supposizioni, ovvio, ma si basano sul fatto che quei tizi si addestrano spesso dialogando in arabo o in farsi. L’ho sentito con le mie orecchie, e immagino che essere cresciuto con dei nonni siriani mi assicuri una degna credibilità in materia.
Sebbene i miei compagni, come me, provengano dalla SERE o da istituti superiori, questo posto ha diverse cose da insegnarci. Rispetto alle tecniche di resistenza avanzata che abbiamo imparato qui, le torture nel Maine o nello stato di Washington sembrano l’ora della nanna all’asilo.
Sulla mia pelle non resteranno cicatrici permanenti, ma non dimenticherò mai le atrocità a cui ho dovuto assistere.Due allievi si sono già ritirati dal programma, hanno firmato un accordo di segretezza e sono tornati alle loro vecchie vite.
Io sono figlio unico e ho perso i genitori, ma i miei familiari continuano a fare domande e i superiori mi hanno assegnato una buona copertura. Non sono autorizzato a rivelare per chi lavoro realmente. Sin da quando mi trovavo a Spokane, ho l’ordine di raccontare a chi mi conosce che opero al Dipartimento di Stato come cartografo governativo dell’Agenzia Nazionale Geospaziale. Per rendere la storia più autentica, ho persino passato un mese in una scuola dell’ArcGIS, così da poter discutere di mappature digitali con cognizione di causa. I contatti d’emergenza che ho fornito alla mia famiglia fanno capo a un centralino che gira qualsiasi messaggio a un rappresentante dell’ANG. Mi sono attenuto alle regole di copertura con un rigore religioso, fingendo di vivere un’esistenza ai limiti della normalità. Detesto l’idea di mentire a mia zia. Ho sempre visto in lei una figura di riferimento, in particolare dopo la morte di mia madre.
Da quando lei non c’è più, la vecchia casa che mi ha lasciato in eredità mi sembra quasi un luogo estraneo. Se voglio rievocare il passato e cullarmi nella nostalgia, preferisco passare una notte da mia zia. Dopotutto, sono cresciuto lì, circondato da cugini che ho sempre considerato dei fratelli.
Quando l’addestramento si fa ostico o troppo intenso, penso sempre a loro per rilassare i nervi.
Il concetto più interessante che ho imparato in queste due settimane non è il come, ma il quando uccidere.
Devo ammettere che l’argomento mi ha colto totalmente impreparato. Voglio dire… Quale persona normale valuterebbe la questione in questi termini? Mi sono preso diverse pallottole da simulazione in pieno petto prima di iniziare a cogliere gli indizi visivi, ovvero i tratti delle espressioni facciali da cui emergeva distintamente che il contatto non era lì per fare due chiacchiere. Dopo quattro sessioni nella sala di addestramento, ho cominciato a notarli con chiarezza. I tic nervosi e alcuni intercalare durante le negoziazioni rivelavano che la persona dall’altra parte del tavolo stava per crivellarmi di simunition.
Alla quinta sessione, il mio torace non si è tinto di blu: per una volta è stata la mia Glock 19 a rovesciare una bella scarica di vernice sull’istruttore. Progredendo nel corso, sono entrati in scena insegnanti diversi e molto più esperti. Potevano fingersi nemici o risorse tanto preziose quanto innocue. A volte mi hanno sparato, altre volte sono stato io ad aprire il fuoco.
Dopo trenta sessioni nel giro di due giorni, i responsabili hanno decretato la fine di quella specifica fase del programma.
Mentre mi avviavo verso l’uscita della struttura, ho incrociato l’Istruttore 5 nel corridoio. Lui mi ha rivolto un cenno impercettibile e io gli ho stampato tre proiettili in pieno petto senza neanche pensarci.
In quel momento, ho pensato che fosse finita. Mi sentivo già espulso dalla scuola.
L’Istruttore 5 ha ripreso fiato, si è avvicinato a me e ha allungato la mano, il torace ancora coperto di vernice.
“Ottimo lavoro, hai superato la prova finale. Molti dei miei amici sono morti per un attimo di esitazione. Fidati del tuo istinto e spara al primo segno di minaccia. Penseremo noi a spedire i fiori alle famiglie delle vittime”.
Dopo aver restituito alla mia Glock la letalità dei proiettili a punta cava da nove millimetri, ho lasciato il caricatore vuoto per una settimana, fino a quando non sono riuscito a controllare senza alcun margine di errore il riflesso che mi spingeva a neutralizzare i miei istruttori.