Anteprima – Lara Croft e la Lama di Gwynnever
Il secondo capitolo della saga cartacea dedicata a Tomb Raider arriverà in libreria il 18 novembre! Intanto vi anticipiamo un piccolo estratto del romanzo.
Lara Croft e la lama di Gwynnever di Dan Abnett e Nik Vincent
Prefazione
Nel 2016 abbiamo festeggiato i 20 anni di Tomb Raider. Il franchise ha sempre ruotato intorno al desiderio di scoperta, al brivido dell’ignoto e alla promessa di avventura. Al centro c’è l’iconica Lara Croft, e vederla protagonista di un nuovo romanzo è stato un modo di festeggiarla che ci ha reso felici.
Quando abbiamo avuto l’opportunità di lavorare con Dan e Nik una seconda volta, l’abbiamo colta al volo. Il risultato che hanno raggiunto con Tomb Raider – I diecimila immortali ha dimostrato la loro comprensione del nostro amato personaggio e la capacità di rappresentarlo fedelmente, seppure in una forma nuova. Sapevamo che la loro ambizione era di creare una trama perfetta per lei.
Certo, non gli abbiamo reso le cose troppo facili. Dan e Nik, ormai, si erano abituati alla nuova versione “survival-action” di Tomb Raider, ma quando abbiamo iniziato a delineare il secondo romanzo, abbiamo capito che volevamo celebrasse il traguardo dei 20 anni. Quindi, abbiamo chiesto agli autori di cambiare marcia per offrire un’esperienza più nostalgica, che portasse i fan in giro per il mondo, e fosse piena di azione, intrighi e forze ultraterrene. Alla guida, doveva esserci quella Lara Croft sicura di sé e armata di doppia pistola che ha la battuta pronta davanti a ogni situazione pericolosa. Scrivere un romanzo come questo richiedeva un tono e uno stile del tutto diversi. Ancora più importante, richiedeva una profonda conoscenza dei tratti che distinguono le due versioni di Lara e delle qualità fondamentali che condividono.
La buona notizia è che questo romanzo ha imposto meno restrizioni rispetto al precedente, dato che era pensato come un’avventura piuttosto autonoma. Dan e Nik non dovevano tenere conto di specifici fatti precedenti, né avevano bisogno di assicurarsi che Lara arrivasse a un determinato punto. Il che offriva di certo libertà creativa, ma significava anche che, potenzialmente, c’era molto più margine per finire fuori rotta. A volte avere troppe opzioni può essere complicato quanto averne troppo poche. Tuttavia, Dan e Nik si erano guadagnati la nostra fiducia ed eravamo entusiasti all’idea di vedere dove avrebbero portato Lara, vista la strada che si apriva davanti a loro.
Di certo non ci hanno deluso.
Dan e Nik hanno affrontato con successo entrambi i lati dell’universo di Tomb Raider: il moderno e il nostalgico. Hanno realizzato due avventure distinte ma ugualmente di alta qualità per la nostra archeologa preferita, mostrandola prima come una giovane donna relativamente inesperta che fa i conti con le conseguenze di una prova di sopravvivenza traumatica, e poi come un’avventuriera sicura di sé e giramondo che affronta gli ostacoli che la vita la para davanti con un paio di pistole spianate. Non era un’impresa da poco, anzi, era una testimonianza della passione e della fatica che entrambi hanno dedicato a questa nuova avventura.
Come sempre, il team di Crystal Dynamics dedica questo libro ai fan di tutto il mondo, molti dei quali accompagnano il franchise Tomb Raider dal suo debutto 20 anni fa. A quei fan di vecchia data – così come ai nuovi – vanno i nostri ringraziamenti per l’incredibile supporto. Speriamo che vi piaccia l’avventura che state per intraprendere con Lara Croft.
Rich Briggs
Brand Director di Crystal Dynamics
PROLOGO: IL CUORE DI SERENDIP
Sud-ovest dello Sri Lanka
Tapyantore: era questo il nome del tempio in rovina e della gola che lo ospitava nella foresta pluviale. Significava “morte verde”, in una lingua ormai perduta da 1500 anni.
Lara Croft era del tutto sicura che quel luogo fosse pronto per dimostrarsi all’altezza del suo nome.
Quattrocento metri sotto i suoi piedi che scalciavano nel vuoto, c’era la fitta chioma della foresta pluviale avvolta nella bruma. La caduta avrebbe potuto spezzarle il collo e le ossa di braccia e gambe. I rami e le liane le avrebbero lacerato le membra. Il legno in pezzi l’avrebbe trafitta. E se tutto ciò non fosse bastato a ucciderla, il suolo al di sotto della vegetazione avrebbe fatto il resto.
Sopra di lei, la corda da arrampicata – in acciaio da 20 mm rivestito di nylon – era tesa come la fune di un impiccato. Tra Lara e il ponte di Tapyantore avvolto dai rampicanti – una passerella di pietra che collegava la parete orientale della gola al pilastro roccioso dell’antico tempio – c’erano sei metri di corda tesa, sfilacciati giusto nel mezzo. Nonostante il sudore le finisse negli occhi, riusciva a vedere le fibre robuste del cavo che si separavano – una a una – sotto il peso del suo corpo penzoloni.
Solo mantenendo la presa sarebbe riuscita a evitare un tuffo nella foresta, e grazie a un cappio che la caduta aveva stretto come un laccio emostatico attorno al suo polso sinistro. La presa di Lara era così disperata da farle sanguinare i palmi delle mani.
Quanto tempo aveva? Sarebbe passato un minuto prima che le ultime fibre si spezzassero? Ancora meno? Al suo posto, qualcun altro avrebbe preso in considerazione l’idea di mollare la presa e cadere – con arrendevole grazia – in seno alla giungla, le braccia spalancate in segno d’accettazione. Non Lara Croft.
Per qualsiasi archeologo normale sarebbe stata una morte dignitosa: perire in uno degli antichi e sperduti angoli del mondo che aveva dedicato la vita a esplorare. La giungla eterna lo avrebbe abbracciato e avvolto. Le foglie gli avrebbero fatto da sudario, il suo corpo sarebbe rimasto lì a giacere – senza essere pianto né segnato da una lapide – e si sarebbe rapidamente decomposto, ritornando alla terra – nel grande ciclo – per alimentare la vigorosa crescita della foresta. Tapyantore avrebbe trasformato un uomo simile in uno dei suoi segreti. Ma non lei. Lara Croft non era un’archeologa qualunque.
L’unica reazione adatta alla sua personalità era combattere. Non era mai tanto viva come quando si trovava di fronte alle avversità e al pericolo. L’adrenalina era sua amica, era la sua droga.
Lara Croft non aveva mai lasciato andare nessuna ancora di salvezza, metaforica o meno. Era una combattente nata. Magari in futuro i rischi di una vita spinta al limite avrebbero avuto la meglio, ma quel giorno avrebbe lottato. E avrebbe vinto.
Faceva caldo: uno stupido caldo accompagnato da un’umidità mortale. L’aria sembrava una minestra, e lo sforzo estremo della lotta la rendeva ancora più bollente. La maglietta e i pantaloni cargo di Lara erano zuppi di sudore e pioggia. I calzini negli stivali militari erano fradici. Persino il suo vecchio bomber in pelle sembrava impregnato di umidità.
Lara respirava a fatica. Il sudore le scorreva lungo il viso e la schiena, colava lungo le braccia e sotto le maniche. Bagnava anche i palmi delle mani, bruciando la pelle dove il sudore salato toccava le lacerazioni prodotte dalla corda.
“Sarap!”, urlò. Aveva la voce rauca. “Sarap, per l’amor di Dio!”
Sarap apparve sull’antico ponte di pietra sopra di lei e scrutò attraverso la fronda di liana e caprifoglio. Era un avventuriero cingalese, di circa quarantacinque anni. Nei sei giorni in cui – insieme a due compagni – aveva guidato Lara attraverso le foreste pluviali del sud-ovest dello Sri Lanka per trovare la gola di Tapyantore, erano diventati amici.
O così aveva creduto.
A metà del ponte rialzato, con un sorriso triste e le scuse più educate, si era voltato e l’aveva spinta oltre il bordo.
“Tirami su!”, gli ordinò Lara.
Lui scrollò le spalle tristemente.
“Mi dispiace”, le rispose.
“Sarap! Bastardo! Tirami su!”
C’era una possibilità che, se fosse stata abbastanza autoritaria – e Lara poteva essere molto autoritaria – lui avrebbe potuto semplicemente decidere di aiutarla. D’altra parte, era stato lui a buttarla giù dal ponte. Doveva avere un motivo, e anche buono.
Nella caduta, il suo addestramento aveva preso il controllo e le vecchie abitudini l’avevano salvata da una morte istantanea. Avevano assicurato la corda da arrampicata al bordo del sottile e precario arco di pietra. La struttura era rivestita da una vegetazione fitta e umida. Mentre l’attraversavano, Lara si era avvolta la corda attorno al polso sinistro, un’abitudine da arrampicatrice esperta. Quando Sarap l’aveva spinta, il cappio l’aveva presa al volo, strappandole quasi il braccio, ma lei aveva resistito, abbandonandosi alla caduta, rilassata.
Aveva pensato che fosse solo uno stupido incidente. Aveva urlato.
Poi, mentre penzolava appesa alla corda, aveva visto Sarap tutto deluso che tirava fuori il suo pugnale piha kaetta. Si era chinato e, pazientemente, si era messo a segare il cavo ultra resistente con il filo della lama.
La corda si era lacerata con uno schiocco, e Lara era caduta di nuovo, oscillando sotto l’antico ponte come un pendolo. Ormai, solo una cima della corda era legata.
Aveva visto di nuovo Sarap restare deluso, e accingersi a tagliare l’altra estremità.
Poi il suo smartphone aveva suonato.
La suoneria era la colonna sonora di un film d’azione: un accompagnamento inquietante e drammatico per l’ultima avventura di Lara. Quanta ironia.
Quel maledetto telefono. Sarap ne era così orgoglioso. Non faceva altro che vantarsi delle sue funzioni e app, e chattare senza sosta con gli amici e le ragazze mentre attraversavano le radure della foresta pluviale rischiarate dai raggi obliqui del sole.
Ormai Lara aveva capito che, per tutto quel tempo, si era tenuto in contatto con qualcuno di cui lei avrebbe dovuto sapere. Questo era il suo motivo per spingerla.
“Qualsiasi cifra ti paghino”, urlò Lara, “non ti sembrerà abbastanza quando ti avrò fatto il culo, Sarap!”
“È abbastanza”, le gridò lui, con la voce cantilenante che fluttuava attraverso l’aria umida. “E non uscirai mai viva da lì, quindi il mio culo starà più che bene, grazie”.
Il denaro era sempre un ottimo argomento. A Sarap piacevano gli accessori costosi. Gli piaceva la tecnologia. Se si parlava di soldi, ascoltava volentieri. Era un mercenario: in fondo era per questo che Lara lo aveva assunto.
“Raddoppio!”, urlò Lara. “Posso uscire da qui e farti il culo. Oppure possiamo trovare un modo più semplice. Dammi una mano e ti pagherò il doppio”.
“Onestamente, mi piacerebbe dirti di sì”, replicò Sarap, “ma secondo me sei così arrabbiata che mi uccideresti comunque, se ti tirassi su. E nessuna ricompensa in denaro vale la pena, lascia che te lo dica”.
“Raddoppio!”, ringhiò lei. Il dolore al polso, alla spalla e alle mani era quasi insopportabile. Si concentrò prima sulla soluzione più semplice. “Il doppio e nessuna domanda! Tirami su, e dimenticheremo questo malinteso come se non fosse mai successo!”
“Malinteso…”, le fece eco Sarap. “Mi piace questa parola. È conciliante”. Ci stava pensando su: l’idea le restituì un po’ di forza; magari sarebbe stato facile, dopotutto.
“Il cuore di Serendip è molto prezioso”, gridò Lara. “Capisco che la gente lo desideri tanto”.
“Effettivamente”, rispose lui.
“Chi ti ha fatto l’offerta migliore, Sarap?”, gridò Lara. “Chi è stato?”
Il suo desiderio di combattere e il suo senso della giustizia avevano avuto la meglio. Se ne pentì subito. Come strategia psicologica, era un errore da dilettante. Sarap era un mercenario, ma non gli piaceva che gli venisse ricordato. E lei aveva appena detto che la stava facendo fuori per profitto. Aveva offeso la sua dignità e il suo contorto senso dell’onore.
Sopra di lei, Lara vide il viso di Sarap che si adombrava – infastidito – e si ritirava dalla vista.
Dannazione!
Sentì la sua voce che arrivava dall’alto. Stava parlando con gli altri due, Putra e Bapanni? Magari loro erano sconcertati dalle sue azioni? Non era possibile. Dovevano essere d’accordo: Sarap gli avrebbe dato una fetta. Erano i suoi uomini.
No, stava di nuovo parlando al telefono.
“Pronto? Pronto? Sì, io… No, per favore puoi ripetere? Ho detto: ‘puoi ripetere’, per favore. La ricezione qui è pessima”.
Silenzio.
Lara valutò la situazione. L’effetto della caduta la stava ancora facendo muovere pigramente in cerchio sotto il ponte. Okay, quindi bisognava uscirne nel modo più difficile. Fletté le braccia per aumentare l’oscillazione. Doveva solo dondolarsi abbastanza vicino alla parete della gola, o alla ripida facciata del pilastro del tempio. Doveva solo dare all’oscillazione il ritmo che serviva per saltare al momento giusto… Poi doveva atterrare abbastanza bene da afferrare una sporgenza…
Tre variabili: l’arco dell’oscillazione, il tempismo e l’atterraggio. Dipendeva solo dal suo corpo e dai suoi calcoli. Bene.
Continuò a dondolarsi, muovendo le braccia e pedalando con le gambe come in una lezione di spinning da incubo. Guadagnò un certo slancio, aumentando l’arco dell’oscillazione.
Poi sentì la suoneria. Il tema epico di quel dannato film.
“Pronto? Sì, è caduta la linea. Allora, la situazione è questa. Capisco. Beh, direi tre volte di più. Sì. Allora va bene. Arrivederci”.
Sarap riapparve. Sorrideva.
“Sono terribilmente dispiaciuto”, disse. “Hanno alzato la loro offerta”.
Si chinò con il suo piha kaetta e cominciò a segare la corda.
Dondolando sempre più forte, Lara disse: “Certo, quando sei un bastardo mercenario, resti sempre un bastardo mercenario”. Non aveva intenzione di lasciare che Sarap le rovinasse la concentrazione. Chissà se l’aveva sentita? Non lo sapeva e le importava ancora meno.
Poco prima Sarap non si era offeso: aveva usato l’offerta di Lara per spuntare una tariffa migliore. Bene, aveva ancora la possibilità di fargli il culo.
“Il tuo modo di parlare non è molto educato”, le disse, accanendosi sulla corda con urgenza. “Mi sarei aspettato delle maniere migliori da una raffinata signora di buona famiglia come te”.
Allora l’aveva sentita.
“Se pensi che le mie parole non siano educate, aspetta di sentire i miei pugni!”, replicò Lara. Oscillava sempre più forte, ma era ancora lontana dalla parete della gola o dalla facciata del pilastro.
Tuttavia, l’impegno con cui Sarap segava le era d’aiuto: tendendo la corda rendeva più ampio il suo arco.
Vide di fronte a sé la facciata di pietra coperta di rampicanti del pilastro del tempio, ma poi si ritrovò di nuovo ad allontanarsi prima di riuscire ad allungare la mano e trovare un appiglio, dondolando dalla parte opposta. Adesso, la parete della gola veniva verso di lei. Lara tese la mano destra, si allungò, afferrò, ma rimase a stringere solo una manciata di foglie strappate e viticci.
Sarap aveva quasi finito. Lara poteva sentire la corda che cedeva. La ripida facciata di pietra del tempio si precipitava verso di lei. Non aveva scelta. Non poteva aspettare un’opportunità migliore.
La lama stava segando la corda, che alla fine si spezzò con uno schiocco, forte come un colpo di pistola.
Lara si lanciò – braccia e gambe tese – allungandosi, tendendosi, afferrando…
Colpì la parete di pietra con una forza inaudita.
L’aria venne risucchiata fuori dai suoi polmoni. Era andata a sbattere sulla fitta copertura di rampicanti e muschio. Non ci vedeva più. La bocca digrignata era piena di linfa e fibre. Si ritrovò a scivolare, poi a strisciare e cadere. Lara tentò di aggrapparsi, scalciando, graffiando, afferrando. Intorno a lei, i viticci che si rompevano, i rami in pezzi, le foglie strappate, nugoli di insetti infastiditi che si sollevavano.
Si guardò intorno in fretta e tese un braccio. Poi smise di cadere.
Sbatté le palpebre, scosse la testa, sputò pezzi di foglie e muffa. Aveva le gambe penzoloni sul precipizio. Era scivolata di una decina di metri attraverso la vegetazione che si arrampicava sulla parete di pietra. Era riuscita a infilare il braccio destro nella curva del tronco di un rampicante, che l’aveva fermata. La corda recisa aveva fatto il resto, aggrovigliandosi a una qualche sporgenza a pochi metri sopra di lei.
L’intera parete verticale di vegetazione scricchiolò, riassestandosi. Si sarebbe potuta staccare dalla pietra in qualsiasi momento… Lara lo sapeva bene. Si mosse con cautela. Trovò dei punti d’appoggio per i piedi, in modo da togliere un po’ di peso dalle braccia. La corda si era stretta così forte attorno al polso sinistro, che la sua mano era intorpidita. Mosche e insetti le ronzavano attorno. Sentì qualcosa che le strisciava su una guancia, e lo scacciò con lo scatto di un muscolo.
Lara iniziò a spingersi verso l’alto, prima con un piede, poi con una mano – un passo per volta – verificando che ogni ramo e sporgenza fosse stabile. Sentì delle voci dal ponte. Sarap e gli altri avevano visto che era riuscita a mettersi in salvo? Non ne aveva idea. Forse avevano sentito lo schianto tra i rampicanti e avevano pensato che ormai lei avesse fatto un tuffo a volo d’angelo nella chioma della foresta.
Non ne aveva idea, e non le importava.
Lara continuava a salire.
Il Tempio di Tapyantore era una rovina della cultura Karasagor del III secolo. Non se ne trovava traccia se non nei libri più esoterici. Il Karasagor era stato così misterioso, che quasi ogni frammento della sua cultura ed eredità era andato perduto nel corso della storia. Il tempio era di basalto rosso, scavato nella parte superiore di un inquietante pilastro di roccia alto 1000 metri e largo 600. A sua volta, il pilastro si alzava dal pavimento della gola di Tapyantore, un canyon lungo trenta chilometri soffocato dalla foresta pluviale, e le pareti del canyon salivano ancora più in alto, sopra le mura che cingevano il tempio. Il vapore acqueo annebbiava l’imboccatura della gola. L’aria era piena del canto degli uccelli e delle percussioni di un’infinità di insetti. Ogni mossa che Lara faceva era accompagnata dal fruscio delle foglie, dallo schiocco dei ramoscelli e dal rumore di zolle di terra e sassi che cadevano nel precipizio sotto di lei.
Ci sarebbero volute ore per salire fino al bordo del muro del tempio. Lara sapeva che le sue membra non avrebbero retto così a lungo. Non c’era nessun posto dove riposare, nessun punto in cui fermarsi senza dover rimanere in tensione, aggrappandosi. Niente le avrebbe impedito di tentare l’arrampicata.
Sentì qualcosa attraverso il fogliame mentre allungava la mano verso il suo appiglio successivo: uno spuntone, un bordo scolpito, geometrico.
Lara tirò via i rampicanti, spazzando le foglie. Aveva trovato un davanzale, l’imbocco di un’apertura. Una finestra o grondaia scolpita nella roccia. Era piccola, appena mezzo metro quadrato.
Lara sorrise. Era la sua via d’uscita dal dirupo.
Si contorse per infilarsi al suo interno, di testa. Il foro era occluso da terra bagnata e viticci. Lara dovette farsi strada con le mani intorpidite e insanguinate per trovare qualche appiglio sicuro. Strisciò, costretta a tenere le braccia lungo il corpo e a trascinarsi nell’angusto condotto come un lombrico.
Era nero come la pece. L’aria puzzava di marcio. La luce del giorno era un quadrato verde pallido dietro gli stivali di Lara, che procedeva un centimetro alla volta, ansimando. Sentì sul viso le ragnatele spesse come pesanti drappi di seta e si fece strada attraversandole. Sentì cose che le correvano sulle mani e le braccia. Il ragno cacciatore dalla coda rossa poteva uccidere in 12 secondi con un singolo morso. Poi c’erano i serpenti: il krait, la vipera gialla…
Ben fatto, Croft, pensò Lara. Hai scoperto un posto nuovo di zecca per dare all’adrenalina una marcia in più.
Qualcosa le attraversò la mano di corsa. Lo cacciò con uno schiaffo. Nell’oscurità, i suoi occhi che si adattavano al buio riuscirono a scorgere la forma di un millepiedi lungo quasi 40 centimetri. Lara strinse un pugno e lo schiacciò contro la pietra del cunicolo, sentendo immediatamente l’odore di pesce morto delle secrezioni.
Continuò a strisciare attraverso ragnatele più fitte, che la fecero starnutire e soffocare. Le sputò fuori. Poi si tolse un grosso coleottero boreale dalla clavicola.
Infine sentì qualcosa di nuovo, di inaspettato.
Aria fresca.
Con rinnovata energia, continuò a procedere sui gomiti, e all’improvviso la stuoia di vegetazione sotto di lei cedette.
Lara cadde e atterrò duramente.
Era caduta nell’ombra, ma non nel buio più totale. C’era un gelido pavimento di basalto rosso, un odore umido. L’aria era quasi fredda, rinfrescata dalla profondità della camera e dallo spessore della roccia. Il suo corpo madido di sudore rabbrividì. Lara rotolò e si mise a sedere. La corda tagliata era ancora avvolta attorno al suo polso e la faceva sanguinare. Entrambi i capi si trovavano ancora lungo il cunicolo dal quale era caduta. La srotolò e poi si massaggiò il polso e ruotò la spalla intorpidita. Aveva delle foglie intrecciate nei capelli. Li pettinò con le dita e sentì qualcos’altro. Quando allontanò la mano dalla testa ci trovò un grosso ragno nero che le ballava sulle nocche. Lo lanciò via con uno scatto. Un altro ragno stava avanzando sul suo petto. Scacciò anche quello e si alzò in fretta. Si spazzolò con le mani energicamente. L’ultima cosa che le serviva, adesso, era un morso o una puntura velenosa.
Lara pensò di abbandonare la corda, ma non aveva né uno zaino né un altro kit, a parte il suo coltello multiuso. Quella corda l’aveva salvata due volte: era la sua corda fortunata. La tirò fuori dal cunicolo e l’arrotolò.
La camera era in profondità. La pallida luce del giorno penetrava attraverso minuscole finestre a fessura sopra di lei. Era un offertorio di qualche tipo, o forse una parte dei magazzini usati per gli oggetti rituali. Lara era sicura che Tapyantore seguisse uno schema architettonico diffuso nella cultura di Karasagor: lo seguivano tutti i loro templi. Lo sospettava già ai tempi delle scoperte fatte in un altro sito in rovina a Kalangahl, e l’ipotesi era corroborata dalle mappe scarabocchiate fittamente che l’esploratore del XVIII secolo Sir Hubert Morris-Moses aveva lasciato in un taccuino. Per avere quel quaderno aveva fatto a pugni con un ungherese mercenario in una rissa da bar. Il mondo era pieno di mercenari e sembravano tutti al soldo di persone che nutrivano rancore nei confronti di Lara.
Morris-Moses era stato un personaggio sui generis, oltre che un’autorità mondiale sulla cultura Karasagor: un campo di studi così astruso, che il resto del mondo accademico era piuttosto sicuro che non ci fosse alcun bisogno di un’autorità mondiale. I suoi lavori erano stati derisi dalla Royal Society e dagli studiosi dello Sri Lanka (o studiosi di Ceylon, come si diceva all’epoca).
Lui si era ostinato. Aveva continuato le sue esplorazioni delle regioni interne e aveva scritto altri sei libri, tutti rimasti senza editore. Morris-Moses era stato un combattente, come Lara. Non si era mai arreso, ma gli elementi chiave del suo lavoro si potevano trovare solo nei suoi taccuini personali.
Il suo corpo non era mai stato ritrovato. Era sparito in una spedizione per trovare Tapyantore. Le sue ossa erano laggiù nella gola, a riposare nella pace segreta che aveva provato ad accogliere anche lei? La Morte Verde l’aveva preso?
Lara e Sir Hubert Morris-Moses avrebbero potuto trascorrere l’eternità a scambiarsi segreti e storie delle loro spedizioni, tranquilli sotto i viticci e il muschio. Leggendo il suo taccuino, Lara era sicura che lui le sarebbe piaciuto.
Era stato un anticonformista come lei.
Seguendo il ricordo delle mappe che lo studioso aveva tracciato, Lara salì i gradini e scivolò lungo il passaggio dell’offertorio, un corridoio di pietra che portava alla camera dei pozzi. L’odore di marcio lì era più forte, putrido e bagnato.
Lara sperava che ci fosse ancora tempo. Se Sarap era stato pagato per disfarsi di lei, allora l’intenzione era impedirle di raggiungere il Cuore di Serendip, che si diceva fosse custodito nel santuario del tempio. Questo significava che qualcuno lo aveva pagato per poterci mettere le mani.
Il Cuore, che si dice fosse un’effigie d’oro e rubino di uno zibetto alto una trentina di centimetri – in cui gli antichi Karasagor conservavano la loro saggezza primordiale – era un oggetto prezioso di per sé. Se possedeva proprietà leggendarie – e Morris-Moses sosteneva di sì – il suo valore andava ben oltre quello monetario.
Lara sentì dei passi. Si abbassò dietro una copertura. Putra – il braccio destro di Sarap – si fece avanti. Portava un fucile d’assalto M1 a corto raggio “eccellente per la caccia nella giungla”, come aveva assicurato a Lara durante la marcia fino alla gola.
Aspettò finché lui non l’ebbe superata, poi gli si gettò sulla schiena. Sorpreso, lui barcollò in avanti e batté la fronte contro la parete del passaggio.
Putra cadde. Lara lo sovrastava. Lui si voltò – il sangue che gli colava lungo il viso – e sbatté le palpebre guardandola con sincera sorpresa.
“Tu?”, ansimò.
“Sì”, disse Lara. “Ce l’ho fatta”.
Gli diede un pugno sulla mascella, facendo rimbalzare la sua nuca sul pavimento lastricato.
Era fuori combattimento. Lara si alzò e prese il suo prezioso M1. Aveva una munizione caricata, la sicura inserita. Trovò una seconda cartuccia nelle sue bandoliere.
Lara si affrettò lungo il corridoio, salì un’altra gradinata ed entrò nella vasta ed echeggiante volta del santuario.
Due enormi, profonde vasche sacre – scavate nella pietra – erano piene di acqua salmastra e fiancheggiavano una piattaforma di pietra che conduceva a un altare mozzafiato di calcare intarsiato d’argento. Torce imbevute di catrame ardevano in staffe a muro tutto intorno alla sala, riempiendo il tempio con una luce arancione, mobile e screziata. Le fiamme scintillavano sull’acqua e riflettevano l’idolo d’oro posato sul magnifico altare.
L’effigie d’oro di uno zibetto. Il Cuore di Serendip.
Benedette le tue vecchie ossa disperse, Morris-Moses!
Lara stava per uscire allo scoperto, quando vide una figura procedere sulla piattaforma di pietra verso l’altare. Era una donna, slanciata, forte, bionda, con stivali alti, pantaloncini mimetici e una giacca militare di tela.
Lara ne riconosceva il passo, la camminata, lo slancio arrogante.
Era Florence Race… la stramaledetta Florence Race.
Race era una donna straordinaria: doveva ammetterlo. Era in forma oltre il limite del possibile, snella e atletica. Nonostante il caldo e la sporcizia, nonostante le condizioni ben poco glamour e la mancanza di trucco, Race riusciva a essere incredibilmente bella. Aveva gli zigomi alti, il collo sottile e i capelli come oro filato. Era sulla quarantina, e un tempo era stata una ragazza copertina di Vogue, la musa di un famoso pittore, la fidanzata di una rockstar e infine una fotoreporter di guerra, tutto prima che si rivolgesse alla professione più losca del cacciatore di tesori.
Florence Race era dannatamente brava in questo. E lo era perché era assolutamente, fatalmente spietata.
Sotto lo sguardo di Lara, Race osservava il Cuore. Poi, lentamente, lo prese tra le mani, sollevandolo trionfante.
“Ho vinto!”, la sentì dire a se stessa.
Lara uscì dalla copertura, l’M1 all’altezza del fianco, puntato su Race.
“Non oggi, Flo”, le disse.
Race si voltò, il tesoro dorato tra le mani. A onor del vero, si limitò a sbattere le palpebre alla vista di Lara Croft.
Sorrise, come se si fossero incontrate all’opera di Glyndebourne.
“La maledetta Lara Croft!”, esclamò Race, ridendo. “Viva e vegeta. Sei davvero un bel tipo, Lara”.
“Viva, nonostante i tuoi migliori sforzi e un mucchio di soldi”, commentò Lara. “Il Cuore: consegnamelo”.
“No no, cara, questo è mio. Stavolta ho vinto io. Nessun rancore, dolcezza”.
Lara sollevò il fucile all’altezza della spalla.
“Allora, Flo”, le disse. “Ho avuto una mattinata impegnativa, e il mio dito è così stanco, che inizia a fremere”.
Race allargò ancora il suo sorriso.
“Sono certa che potremo trovare un accordo”, disse.
“Ad esempio?”
“Intanto abbassa quell’arma, per cominciare”, disse Race.
Lara sentì due tocchi alle sue spalle: canne di fucile.
Si voltò lentamente, abbassando l’M1.
Sarap e Bapanni erano di fronte a lei, le armi pronte a sparare.
“Sei pregata di lasciarlo”, disse Sarap.
Lara gettò il fucile. La condussero sulla piattaforma tra le vasche sacre, davanti a Race.
La donna stava infilando l’effigie nel suo zaino.
“Lara, tesoro, mi piacerebbe rimanere a chiacchierare, ma ho un compratore che mi aspetta a Colombo. Ti porterei con me, ma devo viaggiare leggera”.
Race guardò Sarap.
“Nessun testimone, per favore”, gli disse.
Sarap lanciò un’occhiata a Lara.
“Muoviti!”, gli ordinò Race.
Sarap esitò.
“Non pensi”, disse, “che forse dovresti offrirmi un po’ più di considerazione per il lavoro sporco che suggerisci?”
Sarap era il solito mercenario.
“Vuoi di più?”, chiese Race, chiudendo la zip dello zaino. “Ti ho già aumentato la paga, e non hai eseguito ciò che era richiesto per quel bonus. Lei è sopravvissuta”.
“Eppure…”, iniziò Sarap.
“Non se ne fa niente”, lo interruppe Race. Si era chinata a prendere un’automatica da 9mm dallo zaino. Alzandosi, sparò con disinvoltura a Sarap in pieno petto.
Con un’espressione di sorpresa e confusione sul viso, Sarap cadde all’indietro, in una delle pozze sacre. Il suo corpo cominciò ad affondare. Dopo un gorgoglio, Lara sentì il tema del solito film che usciva dall’acqua in un suono distorto.
Ci fu un improvviso, frenetico battere nella vasca. Lara indietreggiò. Un immenso coccodrillo palustre – il più grande che avesse mai visto – si era levato dalle profondità e aveva preso il cadavere di Sarap tra le grosse fauci. Si dibatté, rotolando. L’acqua spumeggiava di rosso.
Race guardò Bapanni, che era scioccato.
“Ulteriori domande sul compenso?”, gli chiese. Bapanni scosse la testa, ma ci mise troppo tempo a sollevare la pistola e puntarla su Lara.
Appena aveva sentito la domanda di Florence Race, Lara si era resa contro che sarebbe stata spacciata se non avesse agito in fretta. Fece un passo indietro, si voltò e si calò nella vasca. Bapanni mirò al punto in cui Lara era stata fino a un attimo prima. Florence si voltò quando non sentì uno sparo. Entrambi fecero appena in tempo a vedere una lieve increspatura sulla superficie dell’acqua quando la cima della testa di Lara scomparve.
“Sei uno stupido, Bapanni”, disse Florence, sparandogli nel petto a bruciapelo con la 9mm. Lui crollò ai suoi piedi. Poi Florence guardò la vasca. “E tu lo sei ancora di più, Lara Croft. Una pallottola sarebbe stata molto meno dolorosa e molto più dignitosa di essere mangiata viva da uno stupido coccodrillo. E almeno avresti lasciato un bel cadavere”. Race prese lo zaino e se ne andò.
Lara affondò ancora nell’oscurità più torbida. L’acqua era come olio. Calma e immobile, osservò la forma in agguato del coccodrillo attraverso le alghe e il limo. Nuotava descrivendo un otto attraverso l’acqua, seguito da nuvole di sangue.
Era stata sotto per forse 20 secondi, e non sapeva cosa stesse succedendo. Aveva sentito lo sparo, e immaginava che Race avesse ucciso l’altro mercenario. Forse Florence la stava aspettando. Doveva fingersi morta abbastanza a lungo da convincere la donna ad andarsene.
Il coccodrillo aveva mangiato. Se Lara fosse rimasta abbastanza immobile, forse non si sarebbe accorto che lei era lì.
Ma il coccodrillo si voltò nella sua figura a otto e tornò indietro in direzione di Lara. Lei aspettò che seguisse lo schema, invece l’animale continuava a venire verso di lei. Un altro secondo e vide i denti che sporgevano dalla mascella inferiore. Un altro ancora: le sue narici che si dilatavano. Un altro secondo, e Lara riuscì a vedere chiaramente gli occhi del coccodrillo, spalancati su di lei.
Lara aveva una sola possibilità. Si tolse il rotolo di corda dalla spalla con uno strattone. Quando il coccodrillo attaccò, lei lo scansò con una virata e gli lanciò la corda intorno al muso.
L’enorme coccodrillo si allontanò con uno scatto della coda pesante. Lara resistette, e la spinta strinse l’anello di corda, bloccando il muso del mostro. Il coccodrillo cominciò a sbattere e agitarsi, lottando per liberare le mascelle dalla trappola della corda.
Era davvero la sua corda fortunata.
Quasi senza fiato, Lara risalì verso il bordo della vasca e riemerse in superficie. Aspirò con forza una boccata d’aria. Non c’era traccia di nessuno sulla piattaforma sopra di lei.
Prudentemente – aspettandosi un colpo di arma da fuoco in qualsiasi momento – Lara si arrampicò e rotolò sulla piattaforma. Dietro di lei – il muso ormai libero – il coccodrillo palustre emerse e fece schioccare le fauci delle dimensioni di uno stiracalzoni, mancandola.
Lara si alzò, grondando acqua.
Bapanni – ucciso da una ferita d’arma da fuoco – giaceva sulla piattaforma lì vicino, proprio come Lara aveva sospettato.
Florence Race – insieme al Cuore di Serendip – era sparita.
“Allora, Florence, pensi che io sia morta? Bene, questo è un modo per darmi un vantaggio”, disse Lara. Certe volte si vince, altre si perde, e lei odiava le seconde. Questo era stato un pareggio. Avrebbe avuto un’altra possibilità con Florence Race, e quella donna non l’avrebbe nean