I Cavalieri del Nord: l’anteprima che tutti state aspettando! (Prima parte)
La data d’uscita de I Cavalieri del Nord è ancora distante, ma noi stiamo già scalpitando per farvi conoscere questo fantastico romanzo storico creato da Matteo Strukul!
Vi ricordiamo innanzitutto che il contest artistico per votare la copertina definitiva è entrato nella sua fase più accesa, e che potete dare il vostro prezioso contributo sulla gallery fotografica della nostra pagina Facebook…
Il regalo che vogliamo farvi oggi è qualche pagina del romanzo in anteprima assoluta, che potrete leggere mentre andate in bus, a lavoro o tra una pagina e l’altra della vostra tesina pre esame!
Un piccolo antipasto “estivo” che vi presenterà il mondo freddo e pieno di pericoli in cui sono ambientate le avventure del giovane Cavaliere Teutonico Wolf e della misteriosa Kira.
Buona lettura!
I CAVALIERI DEL NORD
di Matteo Strukul
PARTE PRIMA
AUTUNNO 1240
IL SACCO DI IZBORSK
Wolf sentì il sapore dolce e denso del sangue che gli allagava la bocca. Era riuscito a proteggersi con lo scudo. La lama della spada era calata su di lui, rapida e scintillante, come l’ala nera della morte. Il suo avversario pareva incarnare la furia.
Allo stato puro.
Ma, malgrado avesse parato il colpo, Wolf non aveva potuto evitare che lo scudo gli andasse a sbattere sul naso, aprendogli un lungo taglio scarlatto. Il dolore si propagò in onde sferzanti, quasi accecandolo.
Eppure, quel colpo formidabile lo aveva risvegliato dal senso di smarrimento e di paura che lo aveva attanagliato con denti affilati, rendendolo rigido nei movimenti quasi fosse, d’improvviso, diventato una bambola di stracci.
Così, la sua reazione non si fece attendere. Ruotò su se stesso di trecentosessanta gradi, mentre la spada, quasi un prolungamento del suo stesso braccio, fischiava bianca e perfetta, disegnando un arco nel cielo arrossato di scintille. Si trattò di un istante, pura poesia primordiale: e poi la lama andò a falciare il russo, che finì per terra in mezzo alla neve.
Un guerriero nemico, proprio di fronte a Wolf, roteò l’ascia nell’aria, facendola calare sull’elmo di un cavaliere teutonico. Il guerriero crociato crollò al suolo senza vita. Il tempo di scalciare con la gamba il cadavere e l’infedele gli si fece sotto. Occhi gialli da belva brillavano ai lati del nasale dell’elmo, la striscia di metallo lucente spaccava in due il volto in una maschera di guerra. L’uomo lanciò un urlo roco e gutturale che parve rompere il manto color piombo del cielo. Wolf, ancora una volta, alzò lo scudo mentre l’ascia dell’altro vi si schiantava con il rombo di un tuono.
Questa volta, resistette in modo perfetto al colpo ma l’imponente lama dell’avversario impattò in modo talmente devastante da affondare nel legno, rompendo la croce nera dipinta sullo scudo e riducendola a una fontana di schegge.
Mentre lapilli di polpa bianca turbinavano tutto intorno e l’uomo davanti a lui spalancava gli occhi per lo sforzo del colpo portato, Wolf fu rapido a individuare la guardia abbassata e, in quella via aerea, rimasta libera e priva di difesa, affondò la lama della propria spada con precisione chirurgica, andando a colpire l’altro, giusto sotto l’ascella, in quel punto in cui la cotta di maglia era tradizionalmente più cedevole e peggio lavorata. Un arco vermiglio schizzò tutto attorno mentre il russo lanciava un grido di dolore e il ferro faceva strame di lui.
Nell’istante esatto in cui l’uomo cominciò a urlare come un demone, per via della ferita subita, Wolf strattonò lo scudo, strappando in quel modo dalle mani dell’avversario la stessa ascia che vi si era incastrata. Poi, si liberò di quella massa di legno e metallo ormai informe e snudò la spada corta immergendola, con un movimento fluido e rapidissimo, nella gola del nemico.
Il russo lo fissò con gli occhi sbarrati. Stringeva le mani coperte dai guanti contro la gola, nel disperato tentativo di fermare il fiume che ne usciva. E in quel fiume c’erano i suoi ultimi soffi di vita.
Scie rosse arabescarono la neve mentre, intorno, la battaglia infuriava.
Wolf vide i corpi degli uomini che lottavano intorno a lui, alzando schizzi di ghiaccio e fango. Vide Thorsten finire con la gola tagliata e accasciarsi senza vita mentre gli occhi gli divenivano di vetro, vide Benno con la sopravveste bianca ormai lacera e strappata, raggiunto da una lama. Vide infine Gernot che abbatteva a colpi di martello un russo.
Tutto girava intorno a lui in una giostra impazzita: le punte di lancia, irte come denti selvaggi e contro cui gli uomini andavano a infilzarsi nell’impeto dell’assalto, i cadaveri coperti di frecce, quasi un diavolo li avesse usati come punta-spilli, l’orrore dello scempio.
Tutto quell’inutile spreco di vite, quella furia cieca e selvaggia che andava ad attorcigliarsi ai corpi rubandone l’anima. Rami ribelli di un’edera maligna, in grado di arrampicarsi ovunque per risucchiare il flusso salvifico dell’esistenza. Scintille rosse di fuoco galleggiavano come lucciole infernali nell’aria greve del tanfo dei morti.
Qualcuno lanciò un grido spezzato.
Wolf alzò lo sguardo verso le mura in legno della città ormai annerite dalle fiamme e simili a denti scuri, stagliati contro il cielo. Il tappeto candido di neve, era imbrattato da un lago carminio che si allargava fino a sommergere il bianco.
Izborsk era ormai caduta. I fratelli avanzavano come la mano di un Dio guerriero. Fu uno sterminio. In nome di Dio e della Croce.
– Avanti, avanti – gridò Kaspar von Feuchtwangen.
Wolf vide il suo maestro avanzare a falcate rapide, gli occhi attenti, i denti serrati, quasi digrignati per la rabbia. La sopravveste bianca, al cui centro stava la croce nera, emblema dei cavalieri teutonici, pareva diffondere un’aura soprannaturale intorno a lui, proteggendolo da qualsiasi assalto nemico. Dietro Kaspar, veniva il resto del suo gruppo. Avanzavano come un cuneo compatto, annientando le ultime sacche di resistenza. Wolf si unì al manipolo dei Teutoni perché quel grido, non appena l’aveva udito, gli aveva incendiato l’animo. Si gettò in avanti, al fianco dei suoi fratelli. Dopo qualche istante si ritrovò davanti un russo e lo colpì in pieno volto con il gomito, schiantandolo lungo la strada innevata che portava ormai al cuore di Izborsk, al centro della città pulsante di fiamme e gelo infernale.
Qualcuno gridò, un nugolo di frecce guizzò nell’aria scura, ma Wolf aveva fatto in tempo a recuperare uno scudo triangolare lungo la via, e si protesse come meglio poté. Proseguì in quella folle corsa, ubriaco e ormai completamente fuori controllo.
I Teutoni erano arrivati ad annientare l’ultimo pugno di Russi. In un intreccio rabbioso di corazze ed elmi, Wolf menava fendenti, parava colpi, infilzava nemici. La testa gli pulsava in modo insopportabile, sembrava quasi che il cervello si stesse schiacciando contro la scatola cranica nel disperato tentativo di uscire e riversarsi fuori. Era un dolore insopportabile mentre la nausea saliva come un tormento infinito. Vide, davanti a sé, un altro avversario.
Si gettò in avanti nel tentativo di anticiparne le mosse. Si tuffò letteralmente su di lui. Rovinarono a terra, ma mentre l’altro tentava ancora di riprendersi, rotolandosi fra neve e fango, Wolf fu più veloce e, estratto il pugnale, lo piantò con un unico movimento nella gola del russo.
Poi, ormai esausto, allargò le braccia e si abbandonò stremato su quel pezzo di terra, sullo scudo bianco di neve e rosso del sangue dei nemici, mentre i suoi occhi grigi s’incavicchiavano nel piombo del cielo.
Guardò i corvi che sbattevano le ali lucide, gracchiando una cantilena di morte che pareva celebrare la fine di quella giornata terribile.
Il cuore sembrava uscirgli dal petto. Sentiva il respiro mozzarsi dentro di lui. E alla fine giunse il silenzio.
Allora chiuse gli occhi.
E pianse.
Tutte le lacrime che gli erano rimaste.
CIELO COPERTO DI SANGUE
Quello sopra di lui era un cielo coperto di sangue.
Ora.
Wolf rimase a guardare il piombo arrossato che lo fissava dall’alto mentre le nuvole morivano come agnelli al macello.
Strinse le mani ripensando a tutte le vite che aveva spezzato. Sentiva la croce nera al centro della sopravveste bruciare come un cuore estraneo, un cuore a lui alieno. Sentiva il dubbio penetrargli nell’animo come avrebbe fatto un serpente viscido e insinuante.
Tutto quel sangue, tutti quei morti… era dunque quella la misericordia di Dio?
Sentiva le convinzioni e le certezze vacillare mentre i fiocchi bianchi di neve andavano a posarsi dolci sul viso, quasi fossero coriandoli.
Rimase steso, finalmente arreso al cielo, al fresco di quella mattina che ora lo avvolgeva nelle sue spire azzurrine e di cui non aveva goduto nemmeno un istante, sfinito com’era nel combattimento e nel succhiar via la vita ai suoi nemici.
Pregò, lasciò che la mente invocasse il nome di Dio affinché potesse intercedere per lui, perché si sentiva sporco, si sentiva un assassino e null’altro e se quello era il compito riservato ai fratelli guerrieri dell’Ordine, be’ lui non ne era certo orgoglioso. Proprio per nulla.
Diciassette anni.
E si sentiva sporco.
Poi, un po’ alla volta si mise a sedere spostando la schiena contro le pietre del pozzo. I suoi occhi andarono dal cielo all’anima spezzata di Izborsk, o meglio, a quel che ne rimaneva ancora in piedi.
Vide le izbe carbonizzate, sventrate dal fuoco, vide le cataste di morti, ammonticchiati come ramoscelli di vita strappata, pronti per essere infilati in un camino infernale. Sentì la nausea salirgli fin quasi a esplodere fuori.
Si trattenne.
Grattò con gli stivali quella prima neve che aveva coperto i prati e i pascoli e il ventre della città.
Si tolse i guanti e infilò le unghie in mezzo ai denti, fra gli incisivi e i canini, in un moto di rabbiosa angoscia, quasi quel futile gesto potesse avere un qualche effetto su tutto ciò che era calato, come l’apocalisse, sulla città.
Ma non accadde nulla.
Già, non era certo possibile, non dopo tutto quello che aveva compiuto. Aveva tolto la vita a un gran numero di uomini e ora che cosa pretendeva? Che tutto tornasse ad essere come prima? Be’, se quella era la speranza, non ci sarebbe mai riuscito. Non dopo quanto aveva fatto. Il dolore metallico che si era impadronito del suo stomaco continuava a salire quasi a sommergerlo, e guardare i corpi dei fratelli che giacevano, senza alcuna pietà, in mezzo a pozze di neve purpurea, non lo aiutava di certo.
Pensò di essere un carnefice.
Il peggiore di tutti.
Poi guardò le mani lorde di sangue. Per la prima volta, da quando tutto si era interrotto, si chiese se fosse stato ferito. Provò a toccarsi il viso, il petto sotto la cotta di maglia.
Integro. Era perfettamente integro. Come se nulla fosse accaduto. Come se fosse rimasto a dormire in un letto caldo dalle lenzuola bianche.
Eppure sopra di lui i corvi continuavano a roteare in un corteo funebre. Planavano neri e irridenti, gracchiando tutto il loro scherno nell’aria fredda di quel luogo dimenticato da Dio, beccando le pupille delle vittime e cibandosi degli occhi dei morti.
Le teste dei russi piantati sulle picche sembravano sorridere, accusandolo di aver sterminato la gente della città.
Le scintille rosse portate del vento erano ormai diventate fiocchi affumicati di cenere che si confondevano con il candore della neve. Vide le croci nere dei Teutoni ballargli davanti agli occhi mentre i fratelli riunivano i sopravvissuti al centro della piazza.
Poco distante da lui.
I mercenari danesi sghignazzavano.
Era un riso, il loro, che gelava i precordi del cuore. Wolf vedeva le sagome dei guerrieri perlustrare le izbe. Depredavano tutto. Arraffavano quello che trovavano. Spicchi di pelle bianca gli lampeggiavano negli occhi stanchi, carne violata e poi lasciata a morire in mezzo alla birra fredda di un tavolo in legno. I Teutoni condannavano quei gesti ma li tolleravano perché, dopo tutto, i Danesi, erano alleati.
Un’alleanza sancita dal papa.
Nientemeno.
Chissà cos’avrebbe detto Gregorio IX se avesse visto quelle scene.
Era stato lui a concedere l’Estonia a Valdemaro, re dei Danesi, giusto? Perciò molto probabilmente avrebbe lasciato stare.
Avrebbe tollerato.
In nome della croce.
Wolf sentì la colazione salire finalmente in gola.
Si piegò in avanti rigettando un fiotto di liquido bruno e caldo che andò ad abbeverare la neve bianca, disperdendosi in rivoli marroni, giù per i gradini di pietra. Appoggiò sfinito un braccio sul bordo del pozzo e rimase lì aspettando, no anzi, implorando che la morte venisse a prenderlo.
Ma non accadde nulla.
– Oggi è stata la prima volta, non è vero figlio mio?
Conosceva quella voce calda e dolce, forte eppure piena di velluto e di affetto. Era la voce di Kaspar von Feuchtwangen, uno dei più grandi cavalieri teutonici.
Il migliore fra i crociati.
Voltò lo sguardo verso di lui, rimanendo steso contro le pietre del pozzo.
Al centro di quella maledetta piazza.
Un pallido raggio di sole filtrò da dietro la coltre di nubi grigie e andò a illuminare la scena.
Wolf non rispose. Si limitò a passare il dorso della mano sulla bocca impiastrata di avanzi di cibo e sapore acido.
Kaspar si stagliava davanti a lui contro il cielo, contro quella città spezzata. I capelli color argento spettinati dal vento. Gli occhi grigi piantati nei suoi. La barba chiara a sottolineare un viso segnato dalle cicatrici e dalla saggezza. Gli zigomi sottili e alti che si muovevano insieme alle parole, quasi volessero accarezzarle mentre uscivano nell’aria.
Kaspar strinse l’elmo che teneva fra le mani.
Poi parlò.
– Consolati. Non c’è niente di peggio della prima volta. Perciò prenditi tutto il tempo che serve. Non c’è fretta.
– Ho avuto paura – disse Wolf.
– Mi meraviglierei del contrario. Ognuno di noi ha avuto paura.
– Temevo di esserne sopraffatto.
– Ma non è successo.
– Fortuna.
– Certo, e anche determinazione e disciplina. Ho visto come combattevi.
– Non ne sarei così fiero, se fossi in te.
– Non si tratta di essere fieri, Wolf: è la guerra.
– Se credi che questo basterà a placare la mia coscienza…
– Non c’è la coscienza, ragazzo mio. C’è solo quello che facciamo.
Kaspar lo guardò con quella maledetta luce negli occhi. Qualcosa che Wolf non era in grado di spiegare ma che ammantava le parole del maestro con la regale bellezza di un gioiello. Non che poi tutto questo cambiasse nulla. Proprio per niente. I morti c’erano e sarebbero rimasti.
Luce o non luce.
Eppure, qualcosa di magico albergava in quegli occhi. Qualcosa che rassicurava e allo stesso tempo ti faceva sentire amato e vivo.
Ecco come si sentiva alla fine.
Amato e vivo.
Per non essere stato abbandonato.
Quella notte.
Quella notte fra i lupi.
***
Kaspar von Feuchtwangen guardò il ragazzo. Wolf si era comportato bene. Se ne stava con la schiena contro le pietre del pozzo e provava a fare i conti con l’orrore che aveva appena vissuto.
Era la guerra.
Una guerra di religione, in nome della Croce. Eppure, per quanto nobile, era la cosa più sporca e subdola che un uomo dovesse affrontare. Ti restava addosso per sempre. E non riuscivi più a liberartene, dell’odore di morte. Puzzava anche quel giorno. Di morte.
Guardò Izborsk e la vide sprofondata nel baratro. Un unico borgo fumigante e nero, che gli girava attorno come un’arena urlante. Le voci dei contadini, spezzate dal dolore, riempivano le vie coperte di neve e fango. Il mugolio delle vittime che cresceva in un coro di sofferenza e sconfitta. E quella piazza d’armi, in cui i Fratelli dell’Ordine stavano radunando i sopravvissuti, aveva l’aspetto di un campo grigio popolato di profughi che chiedevano pietà.
Vide donne dai volti coperti di cenere e lacrime e muco, i bimbi tenuti per mano che trotterellavano in colonna a fianco alle madri in un unico corteo di dolenti. Poppo Von Osterna, Landmeister di Prussia dei Cavalieri Teutonici abbaiava ordini ai suoi affinché dessero almeno l’idea di un limite ai Danesi, mercenari spietati e affamati di preda e bottino.
E con loro, con i Teutoni, a benedire quello scempio, c’era l’Abate Anton Bederke.
Kaspar guardò ancora una volta Wolf e capì che cosa pensava il ragazzo: pensava che tutto quel massacro fosse un unico spreco di vite.
E aveva ragione.
Ma il Papa insisteva per usare, perché quella era la parola esatta, “usare”, i Teutonici come arma per evangelizzare e sottomettere alla croce gli infedeli del Nord. Dopo i successi del Gran Maestro Hermann Von Salza in Transilvania, Prussia e Livonia, il suo successore, Conrad von Thüringen aveva fatto ben poco e ora il Gran Maestro Gerhard von Mahlberg, che se ne stava protetto e ben rimpannucciato nei Palazzi Romani al fianco del Pontefice, era più che mai desideroso di ribadire e, se possibile, superare i successi di Von Salza.
I Teutoni avevano un ruolo fondamentale in quelle terre inesplorate e figlie del caos, in cui il freddo era talmente crudele e spietato da trasformare in un’unica landa desolata e coperta di gelo l’immensa pianura che si estendeva da Marienburg a Novgorod.
Un territorio sterminato, inospitale e crudele come crudeli erano quelle popolazioni che i Teutoni da anni si ostinavano a combattere in nome della Croce.
Eppure imporre il credo con il ferro, la neve e il sangue non poteva essere l’unica strada possibile. D’altra parte, la fedeltà a Dio e alla religione cattolica non era certo in dubbio. Dopo tutto, chi era lui, Kaspar von Feuchtwangen, per gettare l’ombra dell’incertezza su mille e più anni di storia e battaglie, di guerre e onore?
Nessuno.
E poi la Regola era la salvezza. Quel vivere di rigore, ordine e disciplina lo aveva aiutato così tante volte e in modo talmente efficace nella vita, da cancellare d’un sol colpo ogni esitazione.
Ripensò a qualche anno prima, quando da San Giovanni D’Acri era finito nelle piane della Prussia, a combattere un nemico disorganizzato e sfuggente, intere tribù di barbari coriacei, asserragliati in bizzarri tuguri. Tornò con la mente alle battaglie in Pomesania sotto la guida rapace di Hermann Balk, e alla costruzione della fortezza di Marienwerder, e poi al massacro di uomini inermi, perpetrato sul letto ghiacciato del fiume Sigurne.
La regola vissuta fino in fondo, fra fede e draconiana intransigenza, lo aveva salvato. Sempre. Anche quando aveva vissuto l’inferno estivo nelle paludi e nella boscaglia sotto le frecce infide dei Prussi, che tentavano con la guerriglia di resistere all’avanzata sul versante orientale oltre Chelmno. Era sopravvissuto. Insieme ai suoi fratelli aveva scoperto quanto la cavalleria pesante teutonica fosse non solo più efficace e devastante in campo aperto, ma addirittura letale se specializzata nella guerra invernale.
Ma tutto, solo e soltanto in nome e con la grazia della fede in Cristo.
Naturalmente non era una cosa semplice da accettare. Era la vita di un monaco e di un guerriero: che sceglieva di pregare, combattere e diffondere la parola della croce. E null’altro. Ma, accogliendo un simile sacrificio, l’esistenza poteva forse avere un senso e diventare l’immagine quasi perfetta di un sogno più grande e vasto, e magnifico.
Scosse la testa, incredulo, e tornò con gli occhi su Wolf.
Per un attimo lasciò che le sue iridi indugiassero in quelle del ragazzo.
Erano passati dieci anni eppure, da un certo punto di vista, non era cambiato nulla.
Immutato.
Quello sguardo sincero e generoso era ancora quello di una notte di freddo e lupi.
I LUPI E IL BAMBINO…