Anteprima della settimana: un estratto del racconto Kosplay

Tra le 33 storie straordinarie di “Le Realtà in Gioco”,  la raccolta che uscirà ai primi di maggio, c’è il racconto scritto dal bravo ed ormai noto ai nostri lettori Tullio Avoledo.

In un non ben chiaro anno del XXI secolo , Margo, una bellissima ragazzina dai capelli rossi e le gambe lunghe  ed una galassia di lentiggini sul viso, si guadagna da vivere facendo il Kosplayer.

Inizia con “Due centoni di tasse abbuonate in cambio di un giro di Pac-Man”… 

Cosplay, videogiochi, slang e deriva violenta della società in un evidente omaggio ai capisaldi della fantascienza moderna: ecco gli elementi principali, ma non unici di Kosplay…Leggetelo tutto d’un fiato!

KOSPLAY 

Vorrei averla kwi davanti a me kwella stronza ministra di un sakko di anni fa, kwella che diceva a Vatti e agli altri della sua Gehenneration di non essere choosy. Choosy un kazzo. Vorrei vederla kwi lei, seduta su ’sta sedia, mentre la trukkatrice mongola la spalmazza tipo di trukko e dice Sai, io ho fatto il trukko a Lara Kroft. E che fosse l’urLara o una delle sue decinaia di inkarnazioni va’ a saperlo, anche se è poco truffolo sia la Kroftona originale, quella megafiga ke ha bagnato i sogni di un kasino di nerd e nerde ke adesso sono allo Spizio.

Vatti ha tipo kreduto alla ministronza, e ha viaggiato il mondo, al tempo in kui i dinosauri ankora usavano tipo Google azziké Hoogle e Big Steve era più o meno vivo e diceva cose tipo Crescete e moltiplicatevi e stay hungry, stay foolish, e in kwuesto è stato tipo un profeta, perké la fame c’è alla grande e anche la pazzia, perké altrimenti kosa ci farei kwi ai provini notturni per Fallout 3 Reloaded? Uno stomako ke brontola komanda alla grande sul cervello, non c’è lotta, anke se una voce dentro di te kontinua a dirti ke stai facendo una kazzata grossa tipo come il kannello di Pompeo Durhammer.

Vatti ha provato tipo una decina di mestieri prima di trovare kwuello ke l’ha fatto morire: addestratore interinale di Shamu l’Orca allo zoo di Berlino. Klaro ke non era mika tipo l’orca originale, ma tutti sulle kartoline la kiamavano Shamu l’Orca

Vatti ha lavorato allo zoo tipo dieci giorni prima ke kwella puttana di un’orka lo mangiasse. Cioè, non è ke l’ha mangiato veramente. L’ha tipo morso e inghiottito e sputato, tipo in mezzo minuto. Kwindi non era neanke hungry, la stronza. Hanno scritto sul tabellone una cosa tipo ke La Direzione Si Scusava Per L’Incidente e Offriva Pop Corn Gratis Per Tutti all’Uscita e hanno infilato Vatti in una plastic bag e la plastic bag in un forno e la musika d’organo era tipo registrata e il sakko kon papà dentro è scivolato nelle fiamme tipo varo di una barka come kwella ½affondata a Fiumicino dove vivo io.

Mentre la trukkatrice mi lavora gwardo la tele. Assassin’s Kreed 14, kwello in Cindia, dove Nelson Mandela Kremaster viaggia tipo dietro nel tempo e inkontra Siddartha. Non è un Kosplay. È un gioco-gioco, ma la grafika è fikissima.

Kome ke dici, ke non kapisci?

Se uso l’italiano standard inizio Ventunesimo va meglio?

Sì?

Ne conosco altre quattro: Bimbominkia anni Venti, Ambient, Disneytype e Sparacazzate, che era la lingua ufficiale del Partito del Grande Lekkagnokka.

No, scherzo. Inglese, va bene. Inglese e Bimbominkia. Sarei di madrelingua Bimbominkia, per via di Mamma, appunto, per questo credo si chiami madrelingua, ma la Corporation di Mamma era la Soylent, che è tipo molto attaccata alle tradizioni e preferiva che noi bambini venissimo educati in italiano standard. Però Mamma era una testa dura e così ci ha fatti bilingui, io e i miei fratelli, Tanya e Jericho Echo Echo Echo.

Sì, si chiama proprio così.

La macchina battezzatrice ha chiesto a Vatti, cioè, a Papà, di digitare ancora il nome, ma ogni volta che Papà lo faceva la macchina diceva INPUT ERRATO. Finché, dopo il terzo tentativo, si è mangiata la tessera di Papà e abbiamo dovuto salire tipo sei piani di scale e far battezzare mio fratello a mano. Quelli manco sapevano come fare. Vivevano in un posto sporco e puzzolentissimo, uno degli uffici di una volta dove stanno ancora gli impiegati umani, mentre al piano di sotto ci sono quei bei saloni di plastimarmo luccicante, con le macchine tipo d’oro e cromate. Gli impiegati vivono ai piani alti, dove non arriva più la corrente. Dormono nei loro uffici di una volta, e scrivono con la matita su fogli di carta. Hanno delle cose rotonde chiamate timbri. Prendono il timbro, aprono una scatoletta bassa dove c’è una specie di cuscino nero umido, appoggiano il timbro sul cuscino e poi lo schiacciano su un foglio di carta così vecchio che è giallo invece che bianco. Dopo mettono il foglio in un contenitore tenuto insieme con lo scotch e ti dicono felicitazioni, signori. E così Jericho Echo Echo Echo comincia il suo meraviglioso viaggio nella nostra Democrazia Sostenibile. In mezzo all’odore di cavoli bolliti e calzetti bagnati. O viceversa. Cavoli bagnati e calzetti bolliti.

Invece io e Tanya siamo state battezzate a macchina.

Una volta il battesimo era una cosa che si faceva in chiesa, ma adesso lo fa lo Stato, tipo in subappalto. La Chiesa fa tipo i matrimoni, i funerali e tutto quello che ci sta in mezzo, ma non il battesimo, perché quello è il momento in cui lo Stato ti controlla i cromosomi, e se ti dice male vai nello Scarico, per cui la Chiesa ha detto che in questa cosa non ci vuole entrare, e semmai i bambini vengono ancora a lei, ma dopo.

Io dovevo chiamarmi Jeep, per via di una sponsorizzazione che c’era quando sono nata, ma poi l’offerta è scaduta e allora papà ha optato per Fanoni, che è il nome dei denti della balena. Papà è sempre stato fissato con i cetacei, e penso che perciò sia molto ironico che proprio un cetaceo l’abbia spedito nella grande discarica celeste. Credo però che la fissa del nome Jeep gli sia rimasta, perché se prendi le iniziali dei quattro nomi di Jericho Echo Echo Echo vedi che viene fuori JEEE.

Mamma stava ancora smaltendo i postumi della festa di benvenuto alle emorroidi, quando Papà le ha detto come mi aveva battezzato. Gli ha tirato dietro una bottiglia mezza piena di Ron Chavez Aniversario. Per fortuna era di plastica. Papà ha svitato il tappo, si è fatto un sorso e poi ha proposto a Mamma, ancora sderenata e tutta sottosopra per il parto, di fare a metà col nome. In pratica, poteva aggiungere cosa voleva, prima o dopo il nome Fanoni.

Mamma, per dispetto, ha scelto Margherita, che è tipo il nome di una qualche nonna che lei aveva avuto una volta. I Bimbominkia hanno di queste ricadute sentimentali.

Se uno adesso mi chiama Fanoni, tipo, gli infilo lo stivale in gola. Con tutta la gamba dietro.

Se mi chiama Margherita, l’altro stivale.

Margherita Fanoni: due stivali due, con un salto tipo Brucelee Reeves.

Chiamatemi Margo.

È il nome che mi sono scelta.

Il mio nome da Kosplayer.

L’ho usato la prima volta a sedici anni, quando dovevo saldare il debito delle tasse scolastiche, e ho giocato un livello di Pac-Man.

Prima di entrare nell’arena il Censore mi ha chiesto:

Nome e Cognome?

E io: Margo.

Margo e poi cosa?

Margo e basta.

E lui ha tippato sul suo pad le parole: Nome: MARGO – Cognome: EBASTA.

Manco fossi una testariccia bantù, invece di una rossa con tipo due galassie di lentiggini sulle guance.

Poi lui si inginocchia, perché all’epoca ero alta un metro e un cazzo per via dello sviluppo ritardato, e mi fa: Allora, signorina Ebasta, adesso tu ti infili in quel bel costumino da ciliegia, entri in quel tunnel e cominci a correre.

Corro e basta?

Lui mi ha guardato un attimo perplesso, poi ha detto: Beh, sì.

Io da Mamma, oltre che il pelo rosso e la pelle di latte, ho preso anche le gambe lunghe, lunghissime. Ero più gambe che altro, da bambina. Di sicuro non avevo cervello. Due centoni di tasse abbuonate in cambio di un giro di Pac-Man. Un vero affare.

Sì, come no.

Ho capito che non era per niente un affare quando sono saltata fuori dal tunnel e mi sono trovata nel corridoio nero del gioco. C’erano file di lucine piccole piccole proiettate a mezz’aria, e le pareti sembravano tipo velluto nero. Io ero vestita da ciliegia, e il costume mi impediva parecchio i movimenti. Me l’avevano detto, ma non pensavo fosse così lento.

Ho cominciato a muovermi. Cioè, a provarci.

Il Censore mi aveva spiegato che il costume biometrico mi permetteva di fare passi solo di una certa misura, e un tot di passi al minuto. Perciò dovevo stare attenta alla direzione che sceglievo, perché se sbagliavo e incocciavo nel Pac-Man, allora erano guai.

Che tipo di guai?

Facile. L’ho scoperto meno di un minuto dopo, quando una ciliegia come me è apparsa all’incrocio del corridoio. Si muoveva normale, ma ho visto gli occhi del Kosplayer dentro il costume, un cinese giovane coi brufoli. Gli occhi erano grandi come piattini, dilatati dalla paura.

Dev’essere terribile, ho pensato, provare a correre e trovarsi bloccato nel costume, che ti costringe ad andare al suo passo, con quell’andatura scanzonata e ignara.

Ignara di cosa?

Beh, ma del Pac-Man, no?

Il bionte giallo alto tre metri apparve alle spalle della ciliegia. Mosso dai suoi algoritmi di intercettazione spalancò la bocca, scattò in avanti e trangugiò il cinese in un boccone.

Tutto qui: un attimo prima c’era, e un attimo dopo non c’era più.

Niente schizzi di sangue, o plastiche in frantumi. Il bionte ingurgita tutto nel suo ventre a fusione e rilascia energia nella griglia: un processo pulito e immediato. Così un disoccupato si trasforma in energia, con un jingle allegro.

Poi Pac-Man cambia direzione e si volta verso di me. Guardo le palline luminose sparire nella sua bocca che si apre e si chiude. Decidendo d’istinto, scatto a sinistra. Mossa sbagliata, direbbe chiunque. Immagino che lo stia pensando anche il Giocatore che muove il mostro. Ma io con la coda dell’occhio ho appena visto un grappolo d’uva passare in uno dei corridoi laterali. Era a destra, ma se il mio prodigioso QI non mi inganna…

Bingo!

Pac-Man si accorge del bersaglio viola, che vale 1.000 punti contro i miseri 150 della mia ciliegia. Punta immediatamente in quella direzione, lasciandomi libera di scappare.

Una volta un hacker, che cercava di impressionarmi perché glielo facessi infilare nella mia ciccina adolescente, mi ha detto tipo che a questo mondo nessuno è davvero sicuro: tutto quello che puoi fare per salvarti è essere un po’ più sicuro del tuo vicino. Questo vale per la pirateria informatica come per la vita in genere. Così, invece di cadere nel panico e mettermi a correre come una scema in giro per il labirinto nero, ho cercato di immaginare dove potevano stare i bersagli più appetibili per il Pac-Man, e me lo sono tirato dietro fino a portarlo a tiro degli sfigati. Mentre il Pac mangiava, io svicolavo via, verso nuove e più grandi avventure.

Adieu ananas.

Adiós banana.

La fine del livello è arrivata con un colpo di gong in sensorround.

Ce l’avevo fatta.

Sei brava, per essere una dilettante, si complimentò il Censore, posando il pollice sul mio pad e autorizzando l’accredito dei 200 buoni. Se te la senti, fra un paio d’ore abbiamo un livello 33.

No, grazie.

Perché no? Ti muovi bene. Ho visto che partita hai fatto. Sei tosta.

Appunto perché sono tosta ti faccio marameo e telo via.

Il corregidor mi segnala che “telare” è un verbo anacronistico. Vuol dire che non si usava più nell’italiano standard inizio Ventunesimo. Faceva parte dei subgerghi temporanei di qualche minoranza del Ventesimo. Okay, Hokkaido, ogni tanto mi trampo, è normal, naw? Quando per risparmiare i tuoi genidatori ti fanno impiantare database di seconda mente, è normale che ci scappi un errore qua e là, kwa e law, quack quack. Buchi e voraginose voragini nella mia educazione, ahimé.

 

Per festeggiare, quel primo giorno da Kosplayer, esco dal Kolosseo e spendo 50 buoni per un aerotaxi. So che non dovrei, ma si vive una volta sola. Il pilota è tipo un figo con tanto di giubbotto da aviatore in plastipelle. Si infila le scarpe da decollo, mi fa salire sul sedile dietro, e poi solleva l’ultraleggero come se fosse una ciambella salvagente e comincia a correre lungo la strada, gridando PISTA, PISTA, PISTA, come una formula magica per trasformare la strada in una pista, immagino. Un carretto di paglia si schiva all’ultimo momento, e così anche un branco di bambini che giocano a palla avvelenata. Saltano indietro e da tutte le parti, urlando. Un centurione con la cresta punk mi minaccia con la spada di plastica. I turisti indiani scattano holo ridendo.

Il pilota sbuffa, corre, sbuffa.

Poi un ultimo colpo con le scarpe potenziate, un salto di cinque metri e l’aereo è in aria.

Ho lo stomaco sottosopra per via dei rimbalzi, ma il momento in cui l’aereo si stabilizza e prende quota, spinto dall’energia cinetica accumulata, è sempre un momento magico. Dico sempre per fare la granfika, ma è solo la seconda volta nella mia vita che salgo su un aerotaxi.

È bello guardare la città dall’alto. Il grande raccordo anulare, col suo traffico di camion e bus a metano che sembrano grandi balene dipinte coi loghi delle compagnie. Le superstrade del popolo, dove solo i VIP e i funzionari del Partito della Gioia possono andare. Guardo le loro auto scivolare come squali sull’asfalto liscio, cento metri sotto di noi.

“Tutto il mondo è un acquario, e noi siamo il mangime”, dice il Poeta. O qualcosa del genere.

Volare è la cosa più simile al sesso che conosco.

Ma il sesso è meglio.

Tra un articolo originale e una cosa che gli assomiglia scegliete sempre l’articolo originale. Credetemi.

L’aerotaxi planò sul ponte posteriore dei Kosta Kondo, e dieci minuti dopo il tassista stava planando sul mio ponte anteriore. Mettersi d’accordo sullo sconto era stata questione di un attimo. Eravamo tutti e due infoiati a mille. Io per via dei 200 buoni e dell’aver schivato per una manciata d’attimi la bocca del Pac-Man, lui… Beh, lui un po’ per via dello sforzo fatto per portarmi lì, ma soprattutto, non per vantarmi, per il fatto che nessun essere umano dai quattordici ai trecento anni può resistere al richiamo del mio corpo. Dico sul serio. Sono piccola ma tosta. Dicono che il mio punto di forza sono gli occhi. Ma anche il resto non è niente male. Ed è tutta (beh, quasi tutta) roba mia.

Prima di scoparmi, il tassista mi chiese (che carino) se doveva farsi una doccia. Ma a me piaceva così. Sudato e lustro per lo sforzo. Con i muscoli duri come il marmo. Non solo quelli superottimizzati delle gambe. Gli spruzzai il preservativo sul cazzo, dritto in verticale come un atleta ginnico o un soldato sull’attenti.

Aveva tecnica, questo non si discute. Mi portò al primo orgasmo tipo in quattro minuti, e al secondo sedici spinte dopo. Venimmo insieme, con effetti speciali tipo fuochi d’artificio.

Uscì da me vincendo la mia resistenza. Avrei voluto tenerlo dentro di me per un mese o due, come un’ostrica intorno al pilone di un molo. Si scusò, dicendo che aveva una corsa urgente per l’aeroporto. Le chiamano ancora “corse”, invece che volo.

Quando il ragazzo fu uscito (in tutti in sensi, ahimé) presi possesso mentale del mio Lebensraum: otto metri quadri sul ponte di seconda classe, con oblò. Okay, Hokkaido, l’oblò guarda sull’acqua sedici metri più in basso, dato che la Kosta Kondo, come la chiamano tutti, si è arenata su un fianco, con un angolo di dodici gradi. Qui tutto è storto, e la chiusura e apertura delle porte è un problema. Ma i pavimenti in legno applicati sghembi su quelli veri rimettono le cose abbastanza a posto, se uno non si fa prendere dalla nausea. I Kosta Kondo sono un’alternativa economica (beh, relativamente economica) ai terraflat. Finché dura, non è una brutta sistemazione.

Li chiamano Kosta Kondo per via di un disastro navale di uno ziliardo di anni fa. C’è un Kosta Kondo, o anche più di uno, davanti a ogni grande città. Sono navi in disarmo, credo si dica così. Non tutte sono affondate, ma prima o poi lo saranno. Al largo di New New York mi pare ce se sono tipo 20, e una è una portaerei. Ci abitava Tanya, prima di morire. Il suo flat l’ha ereditato Jeee. Lavora come barista a SubLowerManhattan e si fa un sacco di figa fresca ogni giorno, almeno a sentire lui. Ha sedici anni, e il cervello di una rana. Nel senso che è selettivo. Le rane sembra che vedano solo quello che mangiano, tipo mosche e zanzare. Tutto il resto non se lo cagano manco di striscio, come se non lo vedessero proprio. Jericho Echo Echo Echo è così con la passera. Vede solo quella. Per il suo Quindicesimo, quando è diventato maggiorenne, mi ha mandato un vid parecchio interessante. C’erano cinque sue vicine di flat che gli avevano organizzato questa festa di compleanno, dove una dopo l’altra gli leccavano il cazzo, e poi si facevano fare, e alla fine, quando lui sborrava in bocca alla più figa delle cinque, lei poi passava un po’ di sborra a ognuna delle altre, come una specie di comunione del cazzo, ahahah, bella battuta.

Adesso il mio fratellino ha sedici anni, e per quello che ne capisco non arriverà ai venti, mi sa. Non col suo stile di vita e le endemìe di NNY.

 

Avevo anch’io sedici anni quel giorno, quando giocai il mio primo livello di Pac-Man. E guadagnai i miei primi 200 buoni da Kosplayer. E mi presi il trivax dal tassista. Ragazze (e ragazzi, ovviamente), quando spruzzate il preserv sul cazzo del vostro amante, accertatevi che la bomboletta non sia scaduta.

Me ne costò 2000, di buoni, curarmi il trivax, e solo perché lo feci fare da un medico albanese, di quelli che non fanno domande e se gliele fai non rispondono.

Ovviamente, per trovare i 2000 buoni, dovetti giocare ancora.

Di anni ne ho quattro di più, e vivo ancora ai Kosta Kondo, che in questo tempo si sono inclinati solo di un grado. I pavimenti sono di nuovo storti, ma ormai ci ho fatto l’abitudine.

Ho vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita. Il fatto è che come giocatrice di Kosplay non ho molte probabilità di arrivare ai trenta, e nemmeno ai venticinque. Volete sapere esattamente quante probabilità?

Tre su dieci di arrivare ai ventuno.

Una su dieci per i venticinque.

E questo se uno è dannatamente bravo.

Da lì in poi ci muoviamo nei campi della fede. Ho sentito di Kosplayer arrivati addirittura a trentatre anni, che è l’età in cui devi smettere e i Videocrati ti regalano un ciondolo di legno vero, e una pensione e un flat da qualche parte nel sesto mondo.

Ma sinora non ho incontrato nessuno che l’abbia ricevuto davvero, quel ciondolo.

Solo perché se ne parla, non vuol dire che una cosa sia vera.

Comunque questo è quanto: venti e non più venti. Quindi la morale è: fattela piacere, questa schifa età. Non ne avrai altre.

 

Penso a questo, e a tante altre cose, mentre la truccatrice mongola finisce di prepararmi per il provino di Fallout 3 Reloaded. Deve truccarmi da ghoul, cioè da vittima delle radiazioni. Una specie di zombie che però parla normalmente e non si rende neanche conto di sembrare un mostro. Tipo Moira Brown nel game originale, ma solo tipo, perché in questo reboot non ci sono grossi personaggi femminili. Per dire, avrò tipo cinque battute.

So che non è Lara Croft, Nicole Brennan o neanche Eliza Cassan o Sheba Varnadze, ma è comunque un lavoro. Non è che ci siano tanti ruoli femminili, nel Kosplaying. Qualche volta ho dovuto recitare vestita da maschio. Mi ricordo una partita di Napoleon Total War. Quella volta l’ho scampata per un soffio. Truccata con un paio di baffoni stavo in fila assieme ad altri duecento Kosplayer. Eravamo un reggimento della guardia. Davanti a noi c’erano tipo i Prussiani del generale Blucher, o qualcosa del genere. Era un fottuto ruolo da comparsa. Neanche una battuta. Dovevo solo camminare e marciare, e sparare quand’era il momento. Era proprio quello, il problema. Quello stronzo che ci comandava non si decideva a ordinarci di sparare. E se lui non dava l’ordine, non potevamo sparare. I nostri costumi biometrici ci impedivano di farlo.

Cominciavo a pensare che quell’idiota che giocava la partita si era dimenticato del nostro reggimento. Magari in quel momento era concentrato nel muovere quel cazzo di cavalleria che stava caricando i Prussiani sul fianco, e di noi si era scordato, o magari si stava sparando una sega. Era la terza volta che i fucilieri duecento metri davanti a noi ricaricavano e sparavano. Per la terza volta il Kosplayer alla mia sinistra era caduto. All’ultimo era esplosa la testa. Appena il Kosplayer cadeva una subroutine automatica ne spostava un altro a prenderne il posto. “Ranghi serrati!”, urlava ogni volta il sergente.

Eravamo a meno di cento metri dalle file nemiche, e continuavamo a venire avanti tipo come bersagli, quando finalmente ricevemmo l’ordine di sparare. Stavo per farlo, quando i fucili del nemico esplosero in una nuvola di fumo, e l’ultima raffica ci falciò come mosche.

Mi beccai una pallottola alla spalla, e caddi giù distesa, facendomi calpestare dagli altri Kosplayer che andavano a morire.

Mi diedero il culo di porpora, che è una medaglia di plastica dorata, e 1000 buoni extra.

Un medico mi curò la ferita in un ospedale da campo del gioco. Era un altro elemento della ricostruzione Kosplay. Mi andò bene che non ci fu bisogno di amputare. Dietro il tavolo del chirurgo c’era un mastello di legno pieno fino all’orlo di gambe e braccia segate, e una fila di almeno sedici cadaveri impilati come legna da ardere.

Il Kosplaying non è un lavoro facile.

Ma è comunque un lavoro.

Chiedetelo a Vatti, se il suo lavoro era meglio.

Vi piacerebbe avere come referenza “cibo per orche”?

 

La truccatrice finisce di applicare l’ultima pustola. Devo dire che è in gamba. Non ci credo nemmeno per un attimo che ha fatto il trucco a Lara Croft. Le extraunionarie sono delle bugiarde nate. Però ha una mano niente male.

Butto in aria un po’ di polvere-specchio. Notevole.

Pustole realistiche, occhiaie da zombie, colorito da pesce marcio. Semplicemente perfetto.

L’altoparlante gracchia il mio nome, storpiandolo come al solito.

Scatto su dallo sgabello, e sono già nel personaggio.

Le scenog di questo game sono davvero fighe. Sembrano vere, città in lontananza comprese. Gli holo sono impeccabili. Sento che dietro c’è la mano di uno screenwizard di HolyBolywood. E siamo solo alla versione beta: il gioco comincia la settimana prossima. Siamo ancora ai provini.

Lo so cosa state pensando. Che bisogna essere matti per prendere parte a un gioco in cui le probabilità di sopravvivenza sono quelle di un fiocco di neve all’inferno. Ma è tutto il business del Kosplay che succhia. Migliaia di giocatori che muoiono ogni giorno, in tutto il mondo, per il divertimento di pochi. Perché le nostre partite non vengono trasmesse. O registrate. Sono come quelle partite con gli scacchi giganti che facevano in quella città, una volta. Solo che non c’è il pubblico. Ci sono soltanto i due giocatori, seduti alle consolle, e sono loro due a muovere le pedine, che saremmo noi Kosplayer.

Uno si chiede che senso abbia una roba del genere.

Okay Hokkaido, mi rispondi tu, guarda che i giochi gladiatori ci sono sempre stati. Si sono solo evoluti, dekaffeinati, civilizzati. Così sono finiti i tempi in cui la gente si sbudellava con le spade e i forconi, e siamo passati alle corse automobilistiche a 300 all’ora e al pugilato e ad altre cose del genere. E siamo andati avanti così per secoli. Certo, i gladiatori, quelli veri, non sono mai spariti davvero. Gente che combatteva e si spaccava a pugni nudi, o che si ammazzava in qualche altro modo creativo per divertire gli altri. Solo che era una cosa clandestina, fuorilegge.

E poi è arrivato il Kosplay.

Nel momento in cui i videogame sono arrivati al livello massimo di realismo, e non potevi distinguere un personaggio ammazzato da un morto vero, qualcuno ha avuto l’idea di ricostruire i giochi con persone reali. E non l’ha fatto di nascosto. Macché. L’ha reso un business planetario, con tanto di avvisi di reclutamento online e negli uffici di collocamento. All’inizio erano giochi dove ti facevi poco male, al massimo un paio di costole rotte. In certe corpocrazie tipo Dai Nippon e Aztlan i figuranti agli inizi erano carcerati per reati comuni, o dissidenti politici. C’erano dei precedenti: all’inizio del millennio, in Cina, migliaia di prigionieri venivano costretti a giocare ai MMORPG anche per 20 ore di seguito, per procurarsi oggetti virtuali che poi venivano venduti in rete a giocatori troppo pigri per sbloccare gli oggetti a forza di ore di gioco.

L’inizio del Kosplaying era tutto lì.

Dove non era il caso di utilizzare prigionieri (ad esempio nella nostra Democrazia Sostenibile) non mancavano comunque i volontari. I cosplayer dei giochi on line erano migliaia. Quasi tutti accolsero con entusiasmo la novità del gioco.

All’inizio, per i primi anni, le cose sono andate lisce.

Ma poi il gioco ha cambiato le regole d’ingaggio.

Il primo Kosplayer morto non ha un nome. O meglio, nessuno se lo ricorda.

Successe durante una partita di Call of Duty: Siberian Counterstrike.

Uno dei giocatori, annoiato della partita, fece voltare uno dei suoi Kosplayer. Erano armati di fucili taser, di quelli che ti stendono con una scarica ammazzabuoi ma che poi ti fanno riprendere in pochi minuti.

Questo se spari dalla distanza giusta.

Ma il Kosplayer mosso dal giocatore annoiato si voltò verso i suoi compagni di squadra e sparò loro in faccia a meno di due metri.

Così almeno racconta radio Kospa, il samiszdat omeo che gira tra la truppa dei figuranti.

Tre uomini e una donna rimasero ustionati. Uno morì, con la faccia ridotta a una pizza bruciata. Girano foto, di quella faccia. Nessuno sa se sono vere o meno. Ma girano. Come ci girano le balle all’idea che quel coglione che ha sparato ha trasformato un gioco di ruolo in un massacro.

Quello che all’origine era stato un incidente, l’effetto di una molecola impazzita, diventò tipo un moto browniano, e poi una moda. Gli uffici legali di tutto il mondo ebbero un picco di lavoro, ma nel giro di un mese i nuovi contratti di Kosplaying erano pronti, e tra i giocatori e le assicurazioni si era trovata un’intesa soddisfacente.

Come dite? Se ai Kosplayers chiesero qualcosa? Nahw, macché. La Videocrazia dominante si basa sull’idea dell’accesso totale alle informazioni sui media. Sono lì, basta prenderle. Se uno non lo fa e preferisce i porno 3D o le telenovela cambogiane alla gazzetta ufficiale sono cazzi suoi.

Non esistono dati sulle perdite di Kosplayer. Personalmente avrò visto morire almeno tremila figuranti. Ma può darsi che siano solo una goccia d’acqua nel mare. Nessuno sa quante partite si svolgono, in questo momento. Viene da chiedersi come cazzo fanno a trovare il tempo di giocare, i nostri amati governanti. È vero che non ci sono più guerre, e che il Kosplay calma la loro frustrazione e funge tipo da surrogato per i conflitti veri. Ma non hanno niente di meglio da fare?

C’è chi dice che non sarebbero i Patroni della Videocrazia a giocare, ma i loro figli e nipoti. In effetti questo spiegherebbe la crudeltà e l’insensatezza di certe azioni, che hanno fatto meritare al gioco la “K” iniziale. Il poeta elisabettiano Philip Sidney scrisse qualcosa tipo che gli esseri umani sono come palline da tennis lanciate dalla racchetta degli dei. Come lo so? Perché ho interpretato la veggente Giokasta nel reload di Secret of the Templars III. Una delle sue battute diceva proprio questa cosa, delle palline da tennis. Anche l’idea che siamo pedine in mano al destino è vecchia come il mondo. È solo che adesso è da prendere alla lettera. E che il destino sono i Patroni. Sponsorizzano grandi cose, è vero, tipo la bonifica delle favela di Bergamo o la metropolitana Milano-Roma, ma puoi scommetterci che non è filantropia. Hanno sempre il loro tornaconto. Non subito, magari, ma prima o poi il denaro che scuciono torna nelle loro tasche, moltiplicato di parecchie volte. Non è che quando c’erano ancora gli Stati le cose andassero meglio. Rubare era solo un po’ più complicato.

Ma basta pensare. 

Muovi il culo, Kosplayer.

“Una giornata nel Kosplaying è una giornata al Grand Hotel. Ogni pranzo è un banchetto…”

Quando entro nella scenog rimango senza parole.

Tutto è così preciso. Sembra di essere davvero in un deserto postatomico, tipo vicino alla centrale di Beauvais. La città di Megaton sembra reale: le baracche di lamiera precariamente abbarbicate ai bordi del cratere, le pericolanti insegne luminose, le passerelle di ferro arrugginito.

C’è un figurante uguale, ma proprio uguale, allo sceriffo Lucas. Scuote la testa, guardando gli adoratori della bomba inginocchiati nell’acqua stagnante, tutti intorno all’ordigno nucleare inesploso. Poi mi vede e sale la collina, venendo verso di me.

Ho quattro battute quattro, in questo reload. Interpreto un personaggio che nella versione originale non c’era. È stato pensato per i giocatori di sesso femminile. Non ce ne sono molte, ma qualcuna evidentemente c’è.

Lo sceriffo Lucas è un nero di bell’aspetto, sulla quarantina. Cammina con una scioltezza fantastica. Sto pensando che non mi spiacerebbe farmi ingrassare la pagnottella da lui, quando pronuncia la sua prima battuta.

“Ehi, straniera. Da dove vieni? Cosa ti porta a Megaton?”

A questo punto il Giocatore ha diverse opzioni di risposta. Il Kosplayer invece non ne ha nessuna, dato che deve limitarsi a pronunciare le parole che il Giocatore gli fa apparire davanti agli occhi.

“Vengo in pace. Ho solo bisogno di riposare un po’”.

“Daniel Simmons ha tirato le cuoia, due giorni fa. Puoi prenderti la sua capanna, se vuoi”.

“Splendido. Sei davvero gentile”.

“Dovere, madame”, fa lui, con un inchino che mi fa sciogliere come il burro.

“Però non ho le chiavi”.

Che battute del cazzo. Sembra l’inizio di un porno 4D.

“Qui a Megaton non chiudiamo le porte a chiave, madame”.

Anche se la parola la pronuncia all’inglese, quel “madame” modulato dalla sua voce ben impostata è tipo un invito a letto per direttissima.

“STOOOP!”, urla una voce da arpia, in alto. Solo che è stata una donna a urlare, e che è tutt’altro che un’arpia. Ha solo la gola secca, credo.

È piccola, bruna. Scende dal suo sgabello alto tre metri e viene verso di me, muovendo il bacino in un modo che mi fa quasi star male, per quanto è sensuale.

Jessica Ormond Bigelow Sackville Welles, c’è scritto sulla sua sedia da regista (casomai si dimenticasse chi è).

È chiaramente un nome d’arte, dato che i suoi geni sono un misto asiatico-messicano.

Tutti i registi, nel campo del Kosplay, hanno i primi quattro nomi che formano l’acronimo JOBS. È così da quando è uscito quel game dove Big Steve, il boss della Apple, resuscita che è tipo uno zombie e vive nella torre campanaria di Notre Dame a Parigi e progetta macchine incredibili e giochi crudeli dove muoiono persone vere. Così, dicevo, tutti i registi di Kosplay hanno JOBS come iniziali dei nomi. Non si sa chi è stato il primo, ma ormai è così per tutti. È una specie di club identitario, come quello dei finti Huroni e dei commercialisti tossici.

Di sicuro la piccoletta ha in realtà un nome etno, tipo Conchita o Carmen.

Anche se, da come si comporta, una serie di nomi di grandi dittatori del passato sarebbe più giusta.

“Chi cazzo ha scritto questo copione di merda?”

“La NeuBeth…”, balbetta un’assistente di studio, rossa in faccia come un peperone.

“Rimandateglielo indietro. Non posso girare una scena con battute del genere. Capito? Non, punto, posso, punto”.

Poi si volta verso di me. Non sorride, ma gli occhi sono caldi.

“Sei carina. Sei brava. Hai mai avuto un ruolo di prima fila? Hai cicatrici? Verresti a letto con me? Rispondimi subito. Non necessariamente nell’ordine”.

 

Due ore dopo siamo a letto insieme, nel suo flat romano tipo New New York, con vista sul Circeo e un buonissimo odore di macchia mediterranea. Anche se il panorama è solo un ologramma, e il profumo dev’essere artificiale, l’illusione è perfetta.

La camera è grande, fresca. Il letto enorme, con lenzuola di stoffa vera.

Jessica Ormond Bigelow Sackville Welles è entrata vestita solo di una vestaglietta di seta. Ha sorriso, immagino vedendo che sedevo abbastanza rigida sul bordo del letto e non mi ero tolta i vestiti. Ci ha pensato lei. Ha posato le dita lunghe e affusolate, leggere come farfalle, sulla zip della tuta, e l’ha tirata lentamente giù, lasciando liberi i seni. Li ha baciati a lungo, facendomi indurire i capezzoli. Poi ha tirato ancora un po’ più giù la lampo e mi ha leccato l’ombelico.

E poi ancora più giù.

Mi ha rovesciato indietro sul letto. Si è allungata su di me, chiedendomi sottovoce di toglierle la vestaglia. La seta ha fatto un rumore sensuale scivolando sulla sua pelle nuda e abbronzata, sul bel culetto tonico che si muoveva mentre lei strofinava il suo pube sul mio, e la sensazione di quei peli cortissimi sulla mia pelle era un’estasi. Ero carica come una molla, pronta ad esplodere. L’ho accarezzata, era incredibilmente liscia. I suoi seni si strofinavano contro i miei, e mi sembrava impossibile che i nostri corpi potessero aderire così bene, nonostante la differenza di statura. Il fatto è che fra le lenzuola Jessica non sembrava più così piccola. Era tipo come se fossimo alte uguali.

Aveva mani esperte. Un sacco esperte. Non era la mia prima volta con una donna, ma è stata di sicuro la più soddisfacente. Era come se le sue dita fossero collegate in presa diretta con il mio desiderio. Non c’era bisogno di dire Toccami più giù o non ti muovere da lì. Il suo corpo rispondeva al mio come due strumenti bene accordati, componendo una sinfonia di piacere che sembrava non finire mai.

Non so quanto tempo fosse passato quando lei smise di toccarmi e si stese accanto a me. Io ero madida di sudore, lei fresca come una rosa. Nella finestra-ologramma, il sole al tramonto bagnava il promontorio in una luce dorata.

Sorridendo, Jessica passò lentamente l’indice sulle mie cosce, sui fianchi, sulla curva del seno. Stuzzicò il capezzolo, lo fece diventare duro, prima di scendere di nuovo sui fianchi, sulle natiche.

Poi il dito premette contro il buco del mio culo. Senza violenza, ma senza nemmeno rallentare, mi s’infilò per intero nel sedere. Jessica lo mosse lentamente, voluttuosamente.

“Sei stata brava”, sussurrò baciandomi. Tolse di scatto il dito dal mio culo, facendomi male. Poi, forzando le mie labbra, me lo mise in bocca. “Leccalo”, ordinò.

Obbedii.

Sorrise. La pelle intorno agli occhi non si distese. Mantenne una rigidità innaturale. Come se i muscoli reagissero in ritardo.

Fu allora che capii che la sua giovinezza era solo un’illusione. I minuscoli segnali lasciati dalla chirurgia rivelavano la verità.

Tolse il dito dalle mie labbra.

In bocca avevo il sapore della mia merda.

Mi carezzò la guancia, teneramente.

Con l’altra mano mi graffiò il seno.

Poi, prima che potessi accennare una qualsiasi reazione, saltò giù dal letto con un’agilità che faceva pensare a muscoli potenziati da un miurgo di grido.

Stronza!”, gridò, con gli occhi che luccicavano nel buio, modificati anch’essi dalla chirurgia estetica. “Mi fai rabbia!”, sibilò scivolando nuda lungo la parete, muovendosi a scatti: ora veloce, ora lenta. Con una mancanza di ritmo che mi faceva perdere concentrazione, come un ipnotismo. “Mi fai pena!”,  aggiunse, scattando verso il letto e afferrandomi per le spalle.

Mi scosse due, tre volte. Le mani che poco prima mi avevano accarezzato ora stringevano come morse, facevano male.

Aveva gli occhi gonfi di lacrime.

Mi scaraventò contro la testiera del letto. I cuscini morbidi attutirono l’impatto. L’ologramma del golfo scivolava verso la notte. Il promontorio si riempiva di luci, e altre luci si accendevano nel cielo, luminose come le lacrime di Jessica.

Rimase immobile, in ginocchio sul letto, ansimando, ma non per lo sforzo. Era come se lottasse con un animale dentro di lei.

La guardavo senza capire.

Teneva la testa china, i capelli le mascheravano gli occhi, come in un horror subcoreano del cazzo.

Poi dalle sue labbra invisibili uscirono delle parole.

Dovetti tendere l’orecchio, per capirle.

Fu una cosa tipo monologo in un vecchiofilm, se capite cosa voglio dire.

Parlava, e sembrava non fare caso se l’ascoltavo o meno.

Parlava di me.

 

Mi chiedo come fate a sentirvi vivi. Come fate a dire che siete umani, quando vi lasciate usare come materiale da costruzione. Siete legno, pietra. Siete carne che viene mangiata e cagata. E dimenticata. Siete i pezzi di un fottutissimo gioco di scacchi. Vi fate scannare a migliaia ogni giorno per il piacere dei vostri padroni. E fate la fila per avere un posto nel massacro. Siete voi a mandare avanti questo orrore”.

Questo non doveva dirlo. La schiaffeggiai forte. Non so se le feci male. Probabilmente no.

Ma rialzò la testa.

“Sei brava a insultarci”, le urlai. “Sei bravissima a giudicare! Come se avessimo scelta! Tu sei nata nelle Seicento Famiglie, vero?”

“Nelle Trecento”, sussurrò.

Scossi la testa, incredula. “Le Trecento? Sei nata nelle Trecento Famiglie e fai la regista di Kosplay? Mi prendi per scema?”

Gli occhi di Jessica rivelavano la sua età vera. Incastonati in una pelle liscia e giovanile, avevano dentro la profondità e le ferite del tempo.

“Sono la pecora nera”, disse. E poi aggiunse: “Non per le mie abitudini a letto. Se è quello che ti stai chiedendo. Non vengo da Singapore, o dall’Unitarietà. E ho una figlia più vecchia di te”.

“Non mi interessa”.

“Oh, ma dovrebbe. Perché sai, anche lei vuole fare kosplaying. Fare l’amore con te è stato uno sbaglio. Mi ha… Mi ha fatto capire cosa sta succedendo davvero. Una cosa è pensare, o meglio non pensare, con l’aiuto di qualche droga. Un’altra è stringere tra le braccia una ragazza e sentire che stai per perdere tua figlia…”

La guardai senza crederci. A bocca aperta come un pesce. Come l’orca che ha ucciso mio padre. È un pesce, vero, l’orca? Non è tipo come i delfini, che sembrano pesci ma invece sono mammiferi?

Il mio cervello balla lo zakk fra le pareti del cranio.

“Ma se anche lei fa parte delle Trecento…”

“Lo so. È assurdo. Potrebbe avere tutto. Tutto. E invece ha scelto di giocare”.

“Perché? Non capisco…”

“Potresti fermarla”.

“No che non posso! Ha compiuto da un pezzo quindici anni. È maggiorenne”.

“Puoi impedirle di giocare. O farla giocare in un ruolo tranquillo”.

“Si è venduta ad un’altra compagnia!”, gridò.

“Cazzo”.

Il braccio destro di Jessica si sollevò. Mi aspettavo di tutto. Invece la sua mano mi carezzò la spalla. Una carezza tenera. Da madre, o da amica. Non più da amante.

Quel gesto mi fece venire un groppo in gola.

 

“Che esperienza ha?”

“Nessuna. È carne da macello”.

“Oh. Per che compagnia ha firmato?”

“La Bandamco”.

Fischiai tra i denti.

Cazzo.

La Bandamco è una compagnia senza scrupoli. Nata da una fusione aziendale tra la Yakuza giapponese e il Soviet degli Urali, ha i più grandi teatri di posa al di fuori degli Stati Confederati e della buona vecchia Cinecittà. Dicono che ci sia la mano della Bandamco dietro il bombardamento nucleare di Old Bollywood. La Bandai ha cercato di farle guerra per le prime cinque lettere del marchio, ma dopo un migliaio di morti, fra cui il suo CEO, ha deciso di lasciar perdere.

Il presidente della Bandamcoè un vecchio politico americano, George qualcosa. Dev’essere stato tipo un presidente, quando c’erano ancora gli Stati Uniti. Adesso la bandiera a stelle e strisce, naturalmente, è proprietà della Pepsi.

La Bandamco ha un esercito di 2.000 uomini, truppe da sbarco scelte, e si dice abbia anche armi chimiche e nucleari. Chiedete pure conferma alla Bandai.

“Dove la tengono, tua figlia?”

“Pamukkale. Nel Califfato Ottomano. Hanno un campo d’addestramento, laggiù. In realtà un campo di prigionia”.

Hai altre figlie?, mi veniva da chiederle.

Questa è la donna che cinque minuti fa mi ha sodomizzata con un dito.

Ma è una madre, cazzo. Cosa ne so, io, delle madri? La mia era una Bimbominkia. Si faceva di dopa, di suma, di phol, di qualsiasi cosa venisse sfornata dai complessi orbitali della Mafia. A casa si parlava Bimbominkia.

Ricambiai la carezza. La mano mi si bagnò di lacrime.

Erano calde, erano vere. Era la cosa più vera che mi fosse scivolata addosso in tutta la mia vita.

STOP.

FINE DEL CAPITOLO.

 

 

Tornai al Kosta Kondo con l’umore sotto i tacchi.

Niente aerotaxi. Non avevo nemmeno un decimo della somma necessaria. Forse Jessica si sarebbe anche offerta di pagarmelo, ma non mi sembrava una cosa da chiedere. E lei non si era offerta di chiamarmelo.

Dopo un’ora di fila alla dogana della Zona Verde, una scarpinata di due ore lungo il corridoio umanitario che porta dal centro di Roma alla periferia. Di lì, bus a metano fino a Ostia, tre ore in piedi stretta in mezzo a un macello di gente sudata. Poi, dal terminal fortificato di Ostia, pedibus con scorta armata fino all’imbarcadero. Il mare per fortuna era tranquillo. Il traghetto era una zattera montata su un centinaio di taniche vuote. Costava un po’, ma era sempre meglio che farsi la passerella stretta e alta che collegava la terraferma con il Kondo. Non era illuminata, e di notte era meglio evitare di passarci.

Il mare non somigliava per niente a quello della finestra virtuale nel flat di Jessica. Era denso come una minestra della Mezzaluna Rossa. E puzzava. Di cose morte e di vecchie ciabatte sfondate e di speranze inculate, come diceva Vatti. Soprattutto di cose morte. Carcasse di topi galleggiavano sul liquame brodoso, con le zampette all’aria che invitavano a fare il solletico ai ventri gonfi di gas. Mi ricordavano una poesia che Malcolm, il mio primo ragazzo, mi aveva letto una volta.

Parlava di una ragazza morta annegata, dentro la quale viveva una famiglia di topolini. Mangiavano il fegato e le reni della ragazza. E lì dentro, diceva la poesia, quei topolini avevano vissuto una bella gioventù.

Malcolm X Y (Y era il cognome) sapeva un sacco di cose, sulla poesia. Se fossi stata un po’ meno oca o un po’ più interessata, chissà quante cose saprei, a quest’ora.

 

Bien sçay, se j’eusse estudié
Ou temps de ma jeunesse folle
Et a bonnes meurs dedié,
J’eusse maison et couche molle.
Mais quoy! je fuyoië l’escolle
Comme fait le mauvaiz enffant…

 

Questo per esempio, signore e signori e infinite via di mezzo, era François Villon, un’altra delle fisse di Malcolm. Io avevo un bel dirgli che la cultura non serve a niente in un mondo di merda come il nostro, e che poteva solo farti star male. Lui insisteva che anche star male è qualcosa, nel mondo vuoto in cui ci tocca vivere. Star male vuol dire reagire, prendere coscienza. Vuol dire che dentro di te c’è ancora qualcosa di vivo…

Un anno dopo vinceva un posto di terzo assistente alla Wilbur King Writing Academy di Los Alamos e ci si trasferiva in due giorni, lasciandomi un cane ChiBaw della Sony e tre mesi d’affitto da pagare.

Il padrone di casa mi abbuonò l’affitto in cambio di un bel po’ di sesso orale. Niente passera, chissà perché.

Mi chiedo come si sarebbe fatto risarcire da Malcolm, se fossi stata io a bidonarlo.

La cosa ironica è che la cattedra era quella di Letteratura Hip Hop.

E Malcolm odiava l’Hip Hop.

Mi ero tenuta il cane, finché le batterie non si erano esaurite e lui era rimasto accovacciato per l’eternità tipo quel cane giapponese che aveva perso il padrone.

Una sera, finalmente, l’ho buttato fuori dall’oblò.

 

Così non c’è nessun cane ad accogliermi quando entro nel mio flat sbilenco, che puzza di mare morto e di ruggine e di lenzuola sudate. Ho i pensieri che sembrano un piatto di noodles condito con l’acido. Ho giocato così tante volte, ho rischiato la vita in così tanti ruoli, che è diventato davvero tipo una specie di gioco, invece di una cosa seria. Mortalmente seria.

Ma pensare alla figlia di Jessica mi ha incasinato le sinapsi.

Mi dico che non dovrei.

Che il culo mi duole ancora per il dito di quella stronza.

Solo che stronza non è la parola giusta.

Devo sforzarmi, per trovarla.

È mamma.

Stringo fra le dita il foglietto di cartaplastica con il numero di telefono.

Lo appollottolo.

Lentamente, il foglio si stende di nuovo, sul piano del tavolino. Torna perfetto, come nuovo.

 

Non la chiamo subito.

Guardo il numero.

Lo leggo.

Lo rileggo al contrario.

Lo imparo a memoria.

Ma non la chiamo.

Prima mi faccio una doccia.

Quella che uso è acqua di mare filtrata. Più o meno dovrebbe essere sicura. Solo che devi stare attenta a non fartela finire tipo in bocca, o in un occhio.

Così metto una maschera da bagno, un affare dal look sadomaso che filtra l’aria e impedisce all’acqua di entrare. Poi mi laverò la faccia con acqua in bottiglia. Teoricamente è più sicura, anche se nessuno ha accesso ai dati e alle statistiche dei tribunali commerciali, per cui potrebbe essere anche solo teoria, appunto.

Che mondo di merda.

Era la frase preferita di mio padre.

Diceva che lui poteva dirlo, perché aveva conosciuto il Mondomeglio. Da bambina lo chiamavo così, Mondomeglio, come se fosse una parola sola.

Diceva che quando aveva quindici anni il mondo era meraviglioso. C’erano aerei grandi come case, e potevi salirci pagando pochissimo, e ti portavano in ogni angolo della Terra. E c’erano cose chiamate telefoni cellulari, e altre chiamate tabli o qualcosa del genere, e con quelli potevi parlare con tutto il mondo e scaricare musica e vedere film. Papà diceva che era ubriaco o stonato tutte le sere, ed era come vivere una festa che non finiva mai. Per dire, lui aveva fatto l’università, e si era quasi laureato, senza studiare mai.

Fantastico.

Solo che poi è finita.

Penso a una ragazza della mia età che sta per giocare una partita di Kosplay.

Penso alla mia prima partita. Il bionte. La musichetta allegra che accompagnava la morte del Kosplayer.

Penso alla morte della ragazza.

Sbuffando, esco dalla cabina.

 

C’è la fila, davanti all’unico vistavid del Kosta Kondo.

Cioè, all’unico ancora funzionante. Ce ne sarebbero altri 11, in teoria. Ma anche qui è sempre e solo teoria.

Davanti a me ci sono sette sfigati, che per qualche motivo hanno sentito il bisogno di chiamare qualcuno. Quello prima di me maneggia un foglio di carta, carta normale, così sudato che gli si sfalda in mano. Borbotta parole che sembrano formule magiche, battute di qualche commedia o dramma interiore che nessun altro conosce. Aspetta in fila e poi, quando arriva il suo turno, senza dire niente si volta e se ne va via.

Non ci vuole molto prima che la fila si riduca a quattro persone, e poi tre. Le vistavid costano un occhio.

Alla fine ne resta una sola, davanti a me. Una ragazzina magra, nervosa, con le unghie mangiate fino all’osso e l’aspetto di una che ha perso l’ultimo treno della vita. I capelli biondi e lunghi sembrano la coda di un animale morto.

Piange e si agita, mentre la faccia che appare sul piccolo monitor sorride. È un uomo pasciuto, dai lineamenti brutali. Indossa un vestito nero di sartoria, che sembra tipo una di quelle giacche che portavano i preti una volta, pieno di bottoncini luccicanti tipo madreperla. Guarda più me che la ragazzina. Il campo di inibizione del suono funziona solo a momenti, lasciandomi sentire tre parole su quattro.

Quello che sento non è per niente bello.

Le labbrucce grassotte borbottano che non sono cazzi suoi se deve vendersi un rene, sono cose che capitano, si sa che gli aborti costano, e non è stato lui a dirle che per pagarsi il Resh doveva farlo senza preserv, si sa come vanno le cose. Mica l’ha messa lui sulla strada, si sa che i buoni consigli non bastano, se una non vuole seguirli, e lui le aveva detto di vendersi il culo e la bocca, mica la figa.

“Si sa” sono le sue parole preferite, le infila a ogni frase, e hanno qualcosa di sporco, come se dicesse figa o inculare. Dice anche quelle, e più la ragazzina abbassa la testa più le parole “si sa”, la formula magica di quello stronzo, piovono su di lei, schiacciandola sempre di più. Intanto il lurido mi fissa, e si lecca anche le labbra, come se fossi tipo un dolce, o un cicciolo di carne unta.

Alzo il medio e glielo mostro. Lui strizza gli occhi come se ci vedesse male, e poi non mi guarda più e riprende la sua tirata sommergendo la ragazzina di chiacchiere che insulterebbero l’intelligenza di un topo e che a lei costano cinque buoni al minuto.

Infatti le finisce il credito. L’immagine sfarfalla e sbiadisce dallo schermo.

La ragazzina si volta, disperata.

“Scordatelo”, le faccio, prima ancora che apra bocca.

“Te lo succhio”, balbetta lei. Il che mi dà il senso di quanto fuori sia.

“Sparisci, ragazzina. E se vuoi un consiglio, c’è una Maman Sandiè al ponte quattro che l’aborto te lo fa gratis. Certo non potrai detrarlo dalle tasse, ma mi sa che tu le tasse non le paghi, vero?”

Mi fissa senza capire. Come se parlassi una lingua esotica.

Poi annuisce. Qualcosa dev’essere affondato fino al livello delle sue cellule cerebrali ancora vive.

Annuisce ancora.

“Ponte quattro”, ripete imbambolata.

“Brava. Cabina 415”.

“415”.

La sua spina dorsale sembra guizzare come un serpente nella maglietta sporca XSmall che avvolge il suo corpo magro. Scende le scale che portano al ponte quattro come se calasse in una tomba. Il che probabilmente è. Le Maman Sandiè a volte usano solo i feti per i loro riti voodoo, altre volte usano anche la madre. Chi sono io per giudicare cos’è bene e cos’è male?

Compongo il numero sulla tastiera lurida. Il godzilla glass del touchpad è graffiato. Incredibile, considerando che solo il diamante dovrebbe scalfirlo. E non ce lo vedo proprio un anello di diamanti, qui ai Kosta Kondo.

Jessica risponde quasi immediatamente.

Ha la faccia stanca. Le guance piene di pieghe come se fossero una coperta e lei ci avesse dormito dentro.

“Sei tu”. Sorride stupita.

“Ehi”, le faccio, “hai finito di frignare, culona?”

Le labbra le si stendono. Questo sì che è un sorriso.

“Non sono culona”.

“Lo so”.

“Non pensavo che avresti chiamato”.

“Pensavi che una come me non aveva i soldi per un vistavid?”

“No, io…”

“Lascia perdere. Non sai mentire. Guarda che ho poco tempo, però. C’è la fila, dietro di me”.

Tecnicamente è vero. Ci sono altre due persone che aspettano di usare l’apparecchio, o magari solo di scroccare qualche attimo di credito gratis. Capita, che uno finisca la vistavid e lasci l’apparecchio con qualche centesimo di credito per quello che viene dopo. Io non l’ho mai visto succedere, ma dicono che a volte capita. Più facile che nevichi a luglio, secondo me, ma si sa che la speranza, come si diceva, è l’ultima a morire.

“Mi sei mancata”, fa lei.

“Sì, come no”.

“Giuro. Torna da me”.

“Ci devo pensare. Invece ti volevo parlare di un’altra cosa”.

“Vieni da me”, ripete Jessica. E il tono della sua voce è così caldo che mi fa rispondere sì. “Prendi un aerotaxi. Ci sono retate, in città”.

“Non…”

“Offro io, okay?”

Normalmente sarei troppo dignitosa per accettare.

Normalmente.

Due ore dopo sono tra le sue braccia, ed è un bel modo di passare il tempo. Non mi aspettavo avesse voglia di fare l’amore, perché è chiaro che questo non è più sesso, ma è quella buona vecchia roba che ispirava i poeti e i registi di Hollywood, quella vera, the original one.

È bello, scopare con Jessica. No, non è solo bello: è di più. Perché stavolta non è solo scopare. C’è tenerezza, nelle sue mani. E anche quando mi accarezza il sedere sento che non devo più aspettarmi niente di cattivo. La crudeltà è semplicemente il modo in cui affila i suoi sentimenti, in cui li purifica dalla scorie. Fare l’amore con lei è un’esperienza che lascia il segno: dopo, quando è finito e le sue dita si fermano e il tempo riprende a scorrere, mi sento piacevolmente rotta dappertutto, con dei dolori buoni come dopo aver fatto una corsa perfetta, quasi un volo.

“Ti amo”, sussurra, e il mio orecchio arrossisce. “Non mi rispondi?”, chiede  dopo un po’.

“Cosa dovrei risponderti?”

“Che mi ami”.

Alzo le spalle.

“Non l’ho mai detto a nessuno”.

“Dillo a me”.

“No. Non adesso”.

Si allontana da me. Scivola sulle lenzuola di seta, va a rannicchiarsi in un angolo del letto grande come il mio flat.

“Ho pensato”, dico.

“Pensato a cosa?”

“Come si chiama, tua figlia?”

Lei sembra turbata dalla mia domanda.

“Domizia”.

“Che nome del cavolo. Hai detto che è sotto contratto della Bandamco?”

“È così”.

“In che Kosplay la faranno giocare?”

Jessica si stringe nelle spalle.

Company of Heroes – Verdun”.

Quelle quattro parole mi fanno rabbrividire.

In un mondo brutale come quello del Kosplaying, COHV è considerato un gioco troppo brutale. La speranza di sopravvivenza di un giocatore, stando a Radio Kospa, è di una a 30.000. Quasi come nella realtà. La battaglia di Verdun era stata forse la più terribile di quella che un tempo si chiamava prima guerra mondiale. Combattuta fra il febbraio e il dicembre del 1916, vi erano morti quasi mezzo milione di soldati. I programmatori avevano ricostruito lo scenario con una cura maniacale. L’incubo era assolutamente perfetto.

…CONTINUA…