Anteprima: Il Marciume, il sequel de LA FIGLIA DI ODINO

Per Natale vi regaliamo una nuova e attesissima anteprima.

È il secondo libro della trilogia fantasy del talento norvegese Siri Pettersen, che abbiamo avuto modo di conoscere e apprezzare  nell’Edizione 2017 di Lucca Comics & Games.

 

—– SIRI PETTERSEN PORTA LA FIGLIA DI ODINO A LUCCA COMICS & GAMES 2017 —-

Immagina di essere braccata in un mondo ignoto. Sei senza identità, senza famiglia, senza soldi. Tutto ciò che hai è un cacciatore di teste, un nato da una carogna, e un’orribile, crescente consapevolezza della tua identità. 

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La storia 

Hirka è prigioniera di un mondo morente, divisa tra cacciatori di teste, nati dalle carogne e la nostalgia di Rime: per rivedere il suo amico sacrificherebbe ogni cosa. Nel nostro ambiente urbano è un bersaglio facile. Ma la lotta per la sopravvivenza non è nulla rispetto a ciò che accadrà quando prenderà coscienza della propria identità. La fonte del marciume ha agognato la libertà per mille anni. Una libertà che soltanto Hirka può dare.

Vi lasciamo con un assaggio del primo capitolo che abbiamo distribuito in anteprima a Lucca lo scorso novembre. 

«Tutto ciò che chiediamo, è poterci mettere l’anima in pace», disse Telja Vanfarinn, posandosi una mano sul petto. La collana, che formava vari giri intorno al suo collo, tintinnò.

Rime era stato sul punto di ridere. Chiunque avrebbe riconosciuto che si trattava di una messinscena, senza bisogno di essere cresciuti a Mannfalla. Il vestito di lei era drammatico: tutto nero, con le maniche che toccavano terra. Era vestita da vedova, sebbene suo marito le stesse accanto, vivo e vegeto. Il lutto non era nient’altro che un artificio: una manfrina per ingraziarsi il Consiglio, con il quale aveva usato ogni astuzia al fine di ottenere un incontro.

«È una cosa che ci sta dilaniando, Rime-fadri. Il non sapere. Il non comprendere la morte di Urd».

Rime sentì un piccolo fremito all’angolo della bocca. Il nome di Urd gli provocava un malessere, e non c’era alcun segno che gli sarebbe passato. Per lo meno fintantoché il seggio di lui rimaneva vacante. Era come una ferita aperta nel cerchio dei consiglieri che sedevano, appoggiati alle loro spalliere, tutt’intorno al tavolo. Una ferita pericolosa. Infiammata. Impossibile parlarne senza suscitare un pandemonio tale, che avrebbe potuto svegliare mezzo Altromondo.

«Avete ricevuto le nostre condoglianze», rispose Rime. «Io stesso ho fatto visita alla capostipite dei Vanfarinn. Lei sa cos’è successo. Tu sei… la figlia di sua sorella?». Guardò Telja, che, senza essere stata invitata a farlo, si era avvicinata al tavolo del Consiglio.

«Portatore del Corvo, nostra madre è vecchia», disse Telja, evitando la domanda. «La sua memoria non è più quella di un tempo. Tu ci hai fatto l’onore di renderle visita, ma… alcune delle cose che le hai raccontato sono… beh…». Telja si aggiustò la collana.

«Incredibili». Darkdaggar terminò la frase. «Talmente incredibili che dobbiamo aspettarci che la famiglia voglia avere una conferma dall’uomo che di fatto si trovava lì quando è morto Urd».

Rime si aspettava sì un attacco, ma non che fosse tanto esplicito. Guardò il consigliere. «Vuoi trascinarmi davanti ai giudici, Darkdaggar?»

«Nient’affatto, Portatore del Corvo. La famiglia Vanfarinn desidera semplicemente risolvere una volta per tutte questa faccenda». Il sorriso di Darkdaggar sembrava spento. La luce violenta lo colpiva sul viso, rendendolo esangue, arido. Ciò contrastava fortemente con le pareti dorate alle sue spalle. Erano suddivise in pannelli, con i dodici alberi genealogici delle rispettive famiglie. Gli alberi stendevano i propri rami fino al soffitto a cupola, e facevano sì che Rime si sentisse in gabbia. Gli sembrava che la spalliera della sedia fosse comeun muro alle sue spalle, che lo teneva schiacciato contro il tavolo.

Era prigioniero. Inchiodato ad un luogo che non avrebbe mai sentito come suo. Quello era il seggio di Ilume, la madre di sua madre. E lui aveva giurato di non sedervi mai. E invece eccolo seduto proprio lì. Da Consigliere. Rime-fadri. Portatore del Corvo. Circondato da nemici che approfittavano di ogni singolo istante di veglia per tramare la sua caduta.

«Togliere di mezzo?». Sigra Kleiv incrociò le braccia, forti come quelle di un uomo. «Urd è stato ucciso a Ravnhov, e finché quei selvaggi non dovranno rispondere delle proprie azioni, la questione non avrà fine».

Rime sentì crescere la propria irritazione. Dovette forzarsi per rimanere seduto. «È l’ultima volta che lo ripeto, Sigra. La guerra non si farà. Fattene una ragione. Non si può portare in giudizio Ravnhov per un fatto commesso dagli Orbi».

Sigra prese fiato per rispondere, ma Darkdaggar la anticipò.

«Sarà pur vero, ma non possiamo portare in giudizio neanche gli Orbi, o sbaglio?». Bevve un sorso dal bicchiere di vino, mentre le risa si diffondevano intorno al tavolo.

Rime guardò Telja Vanfarinn. Le sue guance erano rosse per l’eccitazione. La donna riuscì a percepire che l’atmosfera in quella stanza stava cambiando. E ciò le infuse coraggio. Lasciò cadere la maschera del lutto.

«Potremmo anche farlo, se non fosse che nessuno li ha visti», sorrise.

Rime si alzò in piedi. «Nessuno?».

Il sorriso si Telja si spense. Lanciò uno sguardo verso Darkdaggar, con occhi imploranti. Rime non se ne sorprese. Era stato Darkdaggar ad approvare quella visita, e Rime immaginava che quei due si fossero parlati varie volte prima di quell’incontro. Restava da vedere da quante angolazioni avessero pensato di sferrare l’attacco.

«Non la prendere come una cosa personale, Portatore del Corvo», disse Darkdaggar. «Telja sta semplicemente sottolineando ciò che tutti sappiamo. La cosa che colpisce di più riguardo ai morti viventi è la loro totale assenza. Chi è che dice di averli visti? Una manciata di Kolkagga? C’è da meravigliarsi che la gente parli di suggestione? O di un avvelenamento? Magari potreste aver mangiato qualcosa che vi ha fatto male. O magari siete stati vittima di una… stregoneria!»­.

Intorno al tavolo scoppiò una risata. Rime strinse i pugni. Si avvicinò a Telja. Lei arretrò di qualche passo. Il suo vestito strusciò per terra. Rime le puntò il dito contro.

«Vi trovate in questa stanza soltanto perché molti qui hanno un senso di lealtà verso la famiglia Vanfarinn. Io invece non ce l’ho. Dare del bugiardo a me e ai miei uomini non vi gioverà».

Lo sguardo di Telja saettava tra Rime e Darkdaggar. «Io non ho mai inteso… Io non ho detto… i sensi sono ingannevoli, Portatore del Corvo. Si dice che molti uomini forti abbiano scorto dei troll nella nebbia, e noi…».

«Dei troll nella nebbia?». Rime catturò il suo sguardo e lo trattenne. Le rughe intorno agli occhi rivelavano che la donna era più in là con gli anni di quanto lui avesse pensato inizialmente. Forse era di lì che le scaturiva quel coraggio. La donna sapeva che era ora o mai più.

«Il sangue di quello che tu credi essere un’invenzione mitologica è colato dalla mia spada. Io l’ho infilzato con l’acciaio, e ho visto la vita abbandonare quelle orbite bianche. Ho sentito il suo respiro. L’ho sentito rantolare. E ho fiutato la puzza che si levava dalla pira, quando li abbiamo bruciati. Un odore che avresti portato con te fino all’Altromondo, Telja».

Le risate erano ammutolite. Telja inghiottì, e abbassò lo sguardo.

«In nome del Veggente», disse Darkdaggar. «Dobbiamo davvero essere così drammatici? Tutto ciò che sta chiedendo la famiglia, è che la loro pena venga alleviata. Hanno perso un consigliere, Portatore del Corvo!».

Ogni singolo sguardo in quella stanza si posò sul seggio vuoto. Non c’era alcun dubbio riguardo quale potesse essere il modo per alleviare quella pena.

Rime guardò nuovamente Telja. «Davvero? Ritieni che questo seggio ti darebbe le risposte che tanto desideri? Smetteresti di chiederti come sia morto Urd, se uno di voi si sedesse a questo tavolo?».

Telja esitò, ma ebbe abbastanza pudore da scuotere la testa.

«Certo che no», disse Darkdaggar. Ma per lo meno sarebbe una garanzia che Urd non è stato fatto fuori proprio per via di quel posto».

Il silenzio piombò sulla stanza. L’accusa di assassinio era palese, ed era giunta in presenza di estranei. Rime li guardò tutti quanti. Uomini e donne che avevano tre, quattro volte la sua età. Rimasero in silenzio: per la maggior parte perché sostenevano Darkdaggar. Qualcun altro perché non voleva peggiorare ancor più la situazione.

Telja Vanfarinn fece un passo verso Rime. «Portatore del Corvo, ci devi perdonare; le nostre parole sono mosse dal lutto! Si parlava di Orbi e di porte di pietra… per noi questo è davvero incomprensibile. Nessuno ha visto alcuna prova che…».

«Fandonie!», interruppe Jarladin. «Un’intera sala del Rito piena zeppa di gente ha visto Kolkagga abbattere le porte facendo crollare le pareti. Se hai bisogno di prove, puoi acquistare pezzi della cupola rossa giù al porto!».

Telja afferrò al volo quell’occasione, come si stesse svolgendo una trattativa. «Una sala del Rito piena zeppa di gente significa tante storie diverse, Jarladin-fadri. Perdonaci, noi non c’eravamo. Tutto ciò che abbiamo sentito è che il palazzo ha tremato. Qualcuno dice che la cupola aveva indebolito le pareti. Altri che è stata la terra a tremare».

Darkdaggar si portò le mani dietro la nuca. «È davvero tragico che non possiamo tranquillizzarvi. Sarebbe stato così incredibilmente facile. Ma la verità è che le porte ora sono tanto morte adesso, quanto lo sono state per mille anni. Non è forse così, Portatore del Corvo?». Guardò Rime senza sorridere. Soltanto i suoi occhi tradivano l’euforia della vittoria.

Rime strinse i denti. Quella faccenda era sfuggita di mano. Lui aveva aperto uno spiraglio, e ora i lupi spingevano per entrare. La diplomazia non gli sarebbe più stata d’aiuto.

«La gente può dire ciò che vuole fino a quando non marcirà all’Altromondo», disse. «L’hanno sempre fatto. Ciò non cambia nulla. Io ero lì. Io so cos’è successo. Urd si è costruito la pira funebre con le sue proprie mani. Era un cane pazzo».

Sigra si lasciò sfuggire un’esclamazione esagerata. Negli occhi di Telja si accese una scintilla; riuscì a stento a trattenere un sorriso. Afferrò un fagotto nero che portava suo marito. Lo sollevò. Era una tunica che qualcuno aveva bucato. Sul petto, lì dove sarebbe dovuto esserci il marchio del Veggente, non c’era nient’altro che uno squarcio. Un buco spalancato sul cuore.

«Questa apparteneva ad un augure, Portatore del Corvo. L’hanno visto spingersi sull’Ora, lì dove il ghiaccio era sottile. Da allora non l’ha più visto nessuno. Dicono che abbia perso la ragione. E che non sia stato il primo. Ammetto che Urd fosse un tipo particolare, Rime-fadri, ma non è mai stato pazzo. Forse è stata la perdita del Veggente che l’ha fatto entrare in depressione? Forse è per questo che ha agito in quel modo. E in questo senso forse si potrebbe dire che il tutto sia stato… beh…».

Rime credeva a stento alle proprie orecchie. La guardò. «Colpa mia?».

Lei si morse le labbra. Lo misurò con lo sguardo.

Lui si sentì nauseato. Fissò la tunica. Quel buco minacciava di risucchiarlo. Di mangiarlo vivo. Un nulla oscuro.

Si avvicinò a Telja. Suo marito tese un braccio per difenderla. Un riflesso patetico. Rime gli afferrò il polso e lo fece arretrare, senza degnarlo d’uno sguardo. Telja afferrò la gonna, come per prepararsi alla fuga.

Rime si chinò verso di lei. «Urd ha ucciso Ilume, la madre di mia madre, davanti ai miei occhi. Ha violato i cerchi dei corvi. Ha fatto entrare i morti dalle carogne a Ymslanda; è impazzito a causa dei suoi stessi malefici. No, io non l’ho ucciso. Ma ti prometto che se ne avessi avuta l’opportunità, l’avrei fatto senza alcuna esitazione. Guarda bene questo seggio, Telja, perché non lo vedrai mai più».

«Basta!». Sigra batté il pugno sul tavolo. Leivlugn Taid, che era al suo fianco, ebbe un sussulto che fece tremolare il suo doppio mento. Il bicchiere di vino si rovesciò. L’anziano, che aveva sonnecchiato durante tutta la riunione, non lo aveva quasi sfiorato. Un fiotto di vino scuro si propagò sulla superfice del tavolo. Ci fu uno strusciare di sedie sul pavimento, giacché tutti quanti si alzarono per mettere in salvo le proprie tuniche.

«Questa riunione è tolta», disse Rime. Spalancò le portefinestre del balcone, ed andò incontro al freddo. Fece entrare il gelo nei polmoni. Percorse un tratto del ponte e poi si fermò. Era uno dei ponti più antichi di Eisvaldr. Un tempo conduceva alla sala del Rito. Ora era proteso verso il nulla, come una lingua congelata. Serpenti scolpiti penzolavano nel vuoto, come abbarbicati al ponte. Rime si rese conto che stava facendo la stessa cosa, e staccò le mani dalla balaustra. Era ricoperta di brina bianca. Le sue mani l’avevano sciolta formando un’impronta.

Giù a terra c’era il cerchio dei corvi. Pilastri pallidi che erano testimoni del proprio primo inverno, dopo che per mille anni erano stati nascosti all’interno delle pareti. Erano morti. Inservibili. Rime aveva trascorso notti intere lì davanti, cercando di evocare. Aveva fatto appello al Dono fino a quando le sue tempie non erano state sul punto di scoppiare; ma le porte si rifiutavano di aprirsi. Il fatto che una volta si fossero aperte davvero gli sembrava quasi un sogno. Darkdaggar aveva detto la verità: le porte si erano spente il giorno in cui lei era partita. Così come tutto il resto.

Sentì dei passi pesanti alle proprie spalle. Jarladin si fermò al suo fianco, e fissò il punto in cui il ponte finiva. «Se continuassi a camminare, risparmieresti loro un sacco di fatica», disse. Il vento giocava con la sua barba bianca.

Rime rise brevemente. «Questo piacere non lo concederò a nessuno di loro. Se mi vogliono morto, devono ammazzarmi loro stessi».

Jarladin sospirò. «Hai esaurito il tuo ruolo, Rime. Non puoi più ignorarli. Non senza finire in catene davanti all’assemblea giudicante. Darkdaggar ha passato il segno, ma tu non stai neanche tentando di metterli d’accordo. Se non ti liberi dell’odio, rovinerai sia te stesso che noi».

Rime fu sul punto di dire che non odiava nessuno, ma sarebbe stata una bugia. Li odiava per aver regnato sotto un falso veggente. Odiava il modo in cui trasformavano la realtà a proprio piacimento. Gli intrighi, le menzogne. L’amara verità era che nessuno intorno a quel tavolo aveva alcun altro scopo se non quello di mantenere il proprio posto.

Jarladin gli diede una pacca sulla spalla, come se gli stesse facendo un favore. «Inoltre su un punto hanno ragione. Diversi auguri ci hanno abbandonati, e ciò avrà delle conseguenze».

«Non ti hanno mai detto che non puoi negare alla gente il diritto di abbandonarti?». Rime si sentì messo a nudo dalle proprie stesse parole. Strappò via lo sguardo dal cerchio di pietre. Batté i pugni sulla ringhiera.

«Tutto questo non ha senso! L’hanno visto loro stessi! Hanno visto le pareti sbriciolarsi, le pietre riaffiorare. Lo sanno che gli Orbi sono stati qui. Conoscono la verità quanto la conosco io, ma sollevano dubbi perché fa comodo al Consiglio».

Jarladin lo guardò. «È questo, ciò che ti motiva? L’avere ragione? Fandonie! Non te n’è mai importato nulla della tua posizione. Se fosse stato così, rafforzeresti la tua famiglia».

Rime gli girò le spalle. Jarladin era grosso come un bue, ed era il suo unico amico attorno a quel tavolo. Ma ciò non significava affatto che avere a che fare con lui fosse più semplice.

«Quello che avevo da dire su questa questione l’ho già detto. Io sono un Kolkagga. Noi non facciamo promesse di matrimonio».

«Regole, Rime? Puoi scandagliare tutta quanta la biblioteca senza trovare un’unica regola che tu non abbia già infranto. Come minimo, scegli un motivo a cui io possa credere!».

«Pensi che sia idiota? Il Consiglio vuole che metta su famiglia perché rafforzerebbe voi, non me».

Jarladin gli poggiò la mano sulla nuca. Una presa forte, come quella di un padre. «Rime… dovrebbe trattarsi della medesima cosa».

Rime chiuse gli occhi. Sentì nell’orecchio la voce del bue dalla barba bianca.

«Ascoltami. Non puoi lasciare che lei determini tutto ciò che fai. Sei un Kolkagga. Sei Rime An-Elderin. Sei il portatore del Corvo, per l’amor del Veggente! Non puoi lasciarti guidare da una figlia di Odino priva di coda, che nessuno rivedrà mai più. Usa la testa, ragazzo! Se vuoi dare speranza alla gente e ricucire questo Consiglio, prendi moglie. Dai una festa. Mostra loro che le famiglie sono forti. E se vuoi sfidarli a tutti i costi, scegli una che non appartenga alle stirpi del Consiglio. Usa questa opportunità per unire il Nord e il Sud. È questo che vuoi, no? Trovati una ragazza del Nord. Io so che Sylja Glimmeråsen non avrebbe nulla da ridire». Jarladin non aspettò risposta. Lasciò la presa, e tornò verso la sala del Consiglio. «Le pietre sono morte», gridò. «Ma noi siamo ancora vivi!». Entrò nuovamente nella sala, e si chiuse dietro la porta.

Rime rimase in fermo lì, pieno di animosità. Il freddo gli mordeva le dita. Si mise la mano in tasca, e ne estrasse un becco di corvo. Hlosnian l’aveva raccolto sulla montagna di Bromfjell, prima che il fuoco divorasse le pietre. Era tutto ciò che era rimasto di Urd: un becco. Neanche l’ammaliapietre ne conosceva il significato.

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Aveva un aspetto tetro. Estraneo. Il colore dell’osso sfumava verso il nero, sulla punta. Nelle scanalature si era seccato del sangue.

Rime lo soppesò con la mano. Era più pesante di quanto avrebbero fatto supporre le sue dimensioni. Gli provocava i brividi. Eppure lo attirava. Il becco era l’unica cosa che sembrava reale. Che gli facesse sentire che tutto quanto era successo davvero. E che quello era soltanto l’inizio.

Potete scaricare il PDF QUI se preferite leggerlo impaginato! 

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Non ci resta che attendere pazientemente che arrivi maggio 2018, data di uscita in libreria.

Cercheremo di darvi qualche nuova anteprima però nei prossimi mesi, così da non lasciarvi troppo tempo senza notizie 😀