IL DONO – ANTEPRIMA DEL PRIMO CAPITOLO

Ve lo avevamo annunciato, e ogni promessa è debito!

Babbo Natale è passato in anticipo in redazione e ci ha lasciato una bella anteprima.

AVETE BISOGNO DI RIPASSARE LA TRAMA? — Eccola

Qui potete leggere il primo capitolo del terzo libro della SAGA DI SIRI PETTERSEN “Il Dono”.

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RITORNO DALL’ALTROMONDO

Rime corse su per il pendio, certo che nessuno potesse scorgerlo nelle tenebre. Raggiunse il crinale, si aggrappò ad una roccia e guardò giù, verso la pianura. Al posto di quella che doveva essere una spianata deserta, c’era un lungo accampamento di tende. Erano disposte in file ordinate, formando un disegno che si trovava soltanto nei luoghi dove la forza motrice era l’ordine, dove c’era qualcuno a decidere.

Un esercito.

Era troppo buio per vederne le dimensioni. Dovevano essere all’incirca duemila uomini, a giudicare dalle fiaccole. Intravvide delle orme nella neve. Un reticolato di vene nere tra una tenda e l’altra. Gli uomini si stavano radunando intorno a un fuoco da campo, proprio sotto di lui. Si muovevano con passo agile e ridevano forte. Rime riconobbe quell’atmosfera. Doveva essere la prima o la seconda serata, immaginò. Presto se ne sarebbero stati a sedere in silenzio, con le schiene ricurve. Quelli che ancora non erano morti assiderati e non si trovavano a letto, malati.

Le insegne spiovevano lungo le aste, ma lui sapeva che portavano il simbolo del Veggente. Era l’esercito di Mannfalla, raccolto ai margini dalla città. Perché? Cosa aspettavano? Quale ordine avevano ricevuto, e da chi?

Aveva ragione lei.

Damayanti gli aveva detto che li avrebbe trovati lì. Gli aveva anche detto che ciò aveva a che fare con lui, con Ravnhov. Ma i legami della donna con il Consiglio si erano interrotti alla morte di Urd; pertanto le congetture della danzatrice no valevano più di quelle di Rime stesso.

Certo, poteva trattarsi di un’esercitazione. Di spostamenti. O di disordini in seguito alla guerra…

Quelle spiegazioni non lo convincevano. L’inquietudine gli bruciava in petto. Aveva la sensazione che nulla fosse come doveva essere.

Forse era colpa dei cerchi dei corvi? Era davvero possibile spostarsi tra mondi senza sentire la terra cedere sotto i propri piedi? Era pure normale che uno provasse un senso d’insicurezza!

No. Si trattava di qualcosa di più di una sensazione. Era una certezza che gli impediva di andarsene dritto a casa. Era stato via per appena venti giorni, e in quel lasso di tempo qualcuno aveva nuovamente buttato giù dal letto i i guerrieri. La vigilanza delle mura cittadine era stata rinforzata, e molte delle guardie erano state sostituite con uomini che non aveva mai visto.

C’era qualcosa che non andava.

Doveva parlare con Jarladin.

Rime tornò correndo verso la città. La neve bagnata gli scricchiolava sotto i piedi. Si avvicinò alle mura di cinta e di lì avanzò più furtivamente, acquattato dietro i cespugli di ginepro. Quattro guardie camminavano avanti e indietro sopra la porta d’ingresso; per il resto quel muro, deserto per lunghi tratti, giaceva come un serpente grigio maculato nelle tenebre. Ritrovò il punto in cui aveva già scavalcato: era un ampliamento del muro che rendeva impossibile che lo scorgessero dalle porte.

Rime si sfilò i guanti, li scrollò per far cadere la neve e li infilò nella tasca della sacca. Poi fece appello al Dono ed iniziò ad arrampicarsi. Le piccole sporgenze delle pietre gli fornivano a stento la presa per poter salire. Si issò sul bordo, lo scavalcò e si lasciò cadere su un tetto dall’altro lato. Una tegola si staccò, e iniziò a scivolare verso il basso. Lui si gettò in avanti e fece giusto a tempo ad afferrarla prima che cadesse oltre la grondaia.

Rimase seduto in ascolto con la tegola in mano. Una porta sbatté con forza ad una certa distanza. Nel vicolo sottostante sentì frusciare qualcosa. Era un ratto. Con i denti tirava un piccione morto. Cercava di trascinarselo appresso tra le foglie ghiacciate.

Rime incastrò saldamente la tegola al suo posto e continuò a correre per i tetti, su verso Eisvaldr. Le case si susseguivano fianco a fianco lungo tutto il percorso. Fu soltanto quando ebbe quasi raggiunto la cima, non lontano dal Muro, che dovette scendere nuovamente in strada.

Il Muro di per sé non rappresentava un ostacolo: la gente era sempre circolata liberamente tra Mannfalla ed Eisvaldr. Ma la vigilanza era stata rafforzata anche lì. C’erano guardie ai lati di ogni arcata. Era un segnale che non lasciava dubbi: la paura aveva preso il sopravvento.

Rime si nascose in un vicolo alle spalle di una locanda. Da una finestra socchiusa sentì provenire una canzone. Le strofe erano un po’ da ubriachi, ma da quel lato della città perfino le note sembravano più pulite.

Si tolse lo zaino e assicurò le spade alla parte centrale in modo tale che stessero nascoste lungo la spina dorsale e non spuntassero oltre le spalle, a mo’ di dichiarazione di guerra. Si calò il cappuccio sul viso, e attraversò la piazza. Le guardie gli gettarono occhiate pigre, ma lasciarono che entrasse indisturbato ad Eisvaldr.

La sua città natale. La città del Consiglio. La città del Veggente.

Il Veggente lo aveva ucciso lui.

Quel pensiero gli portò dei ricordi: Naiell in un angolo, che soffiava come un gatto. La resistenza che il suo corpo aveva offerto alla spada. Il sangue sui piedi nudi di Hirka. L’espressione di lei, così colma di dolore, così tradita.

Io sono quello che sono.

Rime gettò uno sguardo in alto, verso il cerchio di pietre. Se ne stava lì, con quel suo aspetto falsamente innocente, come la cima di un iceberg. Le pietre erano conficcate talmente in profondità da sbucare dal soffitto di una caverna sotto Mannfalla. Era da lì che era appena uscito, nascosto agli sguardi di tutti.

Qui in superficie erano solo dei pallidi monoliti contro il cielo scuro, in cima alla scala, lì dove un tempo si trovava la sala del Rito. Lì dove lui stesso era stato, nel bel mezzo del cerchio, circondato da ogni singola anima di quella città, mentre Svarteld sanguinava a morte sul pavimento di fronte a lui. Per cosa?

Rime chinò la testa e proseguì. Aveva già buttato via tempo a sufficienza tra nostalgia e rimorso: così tanto da non volerci più pensare. Ora doveva scoprire cosa fosse successo in sua assenza.

La casa di Jarladin si trovava in alto sulla collina; era una tra le tante dimore ben curate appartenenti ai membri del Consiglio. Rime sgattaiolò su tra gli alberi da frutto, che ora in inverno erano spogli. Seguiva i sentieri per evitare di lasciare orme nella neve. Doveva rimanere non visto, per lo meno fin quando non avesse saputo con certezza che cosa stava succedendo. Scavalcò agilmente il muretto di cinta sul retro della casa. Era tardi, ma da una delle finestre del primo piano vide tremolare una luce.

La casa era un edificio sontuoso nello stile di Andrakar, con file di colonne e intagli in legno scuro. Scalarla era un gioco da ragazzi.

Rime si issò su di un tetto spiovente e strisciò lungo il bordo fino a raggiungere la finestra. Appoggiò la mano sul vetro, e lasciò che il gelo si sciogliesse a contatto con la sua pelle così da porterci guardare dentro.

Jarladin era solo nella stanza. Sedeva su di uno sgabello imbottito e fissava il caminetto, come se aspettasse che le fiamme si spegnessero, per quella sera. Tra le mani rigirava un bicchiere vuoto. Aveva la schiena curva. Rime era consapevole e si crucciava di essere tra i motivi che angosciavano il consigliere: si era dileguato senza preavviso né spiegazioni.

Lottò contro l’impulso di scendere di nuovo giù, di continuare ad essere uno scomparso. Un’ombra nera in quella notte d’inverno. C’era mai stato un tempo in cui il suo posto era stato dentro una casa, al caldo?

Fai ciò che è necessario.

Rime si gettò un’occhiata alle spalle, accertandosi di essere solo. Poi bussò per tre volte sul vetro. Jarladin sobbalzò. Gli cadde in terra il bicchiere, senza però che si rompesse. Fissò la finestra e si avvicinò. Strinse gli occhi, irrigidendo le spalle. Poi lo riconobbe, e spalancò gli occhi per l’incredulità. Cominciò ad armeggiare con i fermi della finestra.

Rime si spostò dal lato giusto. Jarladin spalancò la finestra e lo afferrò come se stesse per cadere. Poi lo aiutò ad entrare nella stanza e lo attirò a sé. Rime fu immobilizzato in quell’abbraccio da orso, affogò in quel calore.

Poi il Consigliere lo allontanò, e tenendolo ad una spanna da sé lo ispezionò con lo sguardo. Gli poggiò una mano in testa; gli afferrò i capelli come per tirarglieli, ma non lo fece. I suoi occhi divennero lucidi. Rime si irrigidì, ben sapendo che quel calore sarebbe durato poco. Il viso di Jarladin rivelava che un cambiamento era già in atto: quella gioia profonda si trasformò in perplessità.

«Dove sei stato?», biascicò.

Rime si allontanò e chiuse la finestra senza rispondere.

«Dove sei stato?!». La sua voce si incrinò, come se sapesse che stava per apprendere qualcosa di doloroso.

Rime gettò un’occhiata ad una poltrona vicino al caminetto. Avrebbe voluto poterci sprofondare dentro. Riposare. Dormire, ma senza sognare. E invece doveva giustificarsi, cercare di spiegare l’inspiegabile.

«Non mi crederesti se te lo raccontassi», disse.

«Dove sei stato, Rime An-Elderin?». Ormai la rabbia covava sotto le ceneri. Nell’aria c’era una tacita minaccia.  Jarladin esigeva una spiegazione, e doveva essere anche valida. Forse aveva creduto che Rime fosse morto, ma quella reazione rivelava una disperazione più profonda.

Rime trovò la forza di domandare: «Che cosa è successo?»

«Che cosa è successo?». Jarladin ripeté quelle parole come se racchiudessero in sé tutta la stoltezza del mondo. «Che cos’è successo?! Hai ucciso in duello il tuo stesso maestro e poi sei sparito! Ecco cos’è successo! C’era tutta Mannfalla, ma da allora nessuno ti ha più visto. Io pensavo riposassi all’Altromondo, Rime! Che Darkdaggar ti avesse ucciso, alla fine. Pensavo…».

Rime distolse lo sguardo. Voleva evitare gli occhi di Jarladin. Ma non servì a molto, perché il consigliere lo fissava anche da un ritratto alla parete. Lui e il resto della sua famiglia, da cornici dorate. Ovunque si girasse, qualcuno lo guardava. Era un estraneo infreddolito dentro una stanza calda. Una stanza che ricordava Ravnhov, con il caminetto di pietra e le travi sul soffitto. Accogliente, ma non per lui.

«E gli altri? Che cosa hanno pensato?».

Jarladin spalancò le braccia. «Tu che dici? Le spiegazioni sono state le più assurde e disparate. Che Kolkagga ti avesse ucciso per vendicare Svarteld; che Ravnhov ti avesse arso vivo; che tu fossi andato ad annegarti nell’Ora, e ancora meglio: che lo stesso Consiglio ti avesse tolto la vita. Era diventato un tormentone nelle taverne, come se non avessimo abbastanza problemi! Rime An-Elderin sparito dopo un duello e le accuse di omicidio. La tua assenza ci ha avvelenati, che cosa immaginavi?! Tu eri il portatore del corvo!».

Jarladin afferrò un altro bicchiere da un vassoio sul tavolo. Fece per versarvi qualcosa da una bottiglia, ma era vuota: non ne uscì nulla. Le nocche delle sue mani, strette intorno al collo della bottiglia, divennero bianche.

«I cani si sono scagliati gli uni contro gli altri. Le famiglie si sospettavano a vicenda, naturalmente. Ovunque si sentiva il fetore di vecchie ingiustizie. E dunque adesso coltivano delle alleanze, si comprano delle guardie, costruiscono i propri eserciti privati e pensano di farlo in segreto, ma qualsiasi idiota capisce che i soldi da Mannfalla stanno scorrendo verso le province. Tutto il mondo sa che il Consiglio sta per andare in frantumi. Presto vedremo i regni muoversi guerra a vicenda, ecco che cos’è successo, ragazzo! Grazie per avermelo chiesto!».

Rime si sedette sullo sgabello e si passò una mano sul viso.

Ecco perché quei guerrieri si trovavano alle porte della città: erano diretti verso altre province. Erano un dono, per rafforzare delle alleanze. Una compravendita di lealtà…

Dei brutti segnali, ma non c’era nulla cui non si potesse porre rimedio. C’era ancora speranza. C’erano ancora dei seggi vuoti nel Consiglio: quello di Urd, quello di Darkdaggar. Si doveva poterli utilizzare per creare stabilità.

«C’è stato qualcuno che abbia rivendicato il posto di Darkdaggar?».

Jarladin soffocò una risata. La verità solcò il suo viso come fosse una cicatrice.

Rime si alzò in piedi. Sentì il freddo scorrergli sotto la pelle. «Lo occupa ancora lui?».

La sua domanda non ricevette risposta. Rime alzò la voce. «Ha cercato di uccidermi e siede ancora al suo posto?».

«Tu non eri qui!», sibilò Jarladin. «Tu non eri qui ad eseguire una qualsivoglia sentenza. Darkdaggar ha sostenuto di aver agito per legittima difesa. Ha detto che tu lo avevi cercato nella sua casa di famiglia, e che c’eri andato senza essere stato invitato, minacciandolo. Lui non aveva nulla da perdere, Rime. Nulla. Dunque ha giocato tutte le sue carte. Ha dato la colpa a Ravnhov. In fondo era lì che ti trovavi durante questo tentativo di omicidio. E il Consiglio gli ha creduto. Hanno fatto finta di credergli. Perché ci volevano credere!  Perché avevano bisogno di lui. E perché tu per loro sei stato un pericolo ambulante fin da quando sei diventato portatore del Corvo. La maggior parte di coloro che siedono intorno al tavolo ti ucciderebbero con le proprie mani, se avessero qualche speranza di riuscita. E dunque sì, Darkdaggar ha ancora il suo seggio. Se tu avessi lasciato in vita il sicario, avremmo almeno avuto un testimone».

Rime appoggiò la schiena alla parete e chiuse gli occhi. Rise sarcastico. «Sembra di sentire lei. Vivi e lascia vivere, giusto? Pensi davvero che Darkdaggar gli avrebbe permesso di testimoniare? Quell’uomo era già morto dal momento stesso in cui aveva accettato quell’incarico!».

   La rabbia ha un prezzo. Concentrati sulle cose che puoi cambiare. 

Per un attimo pensò si trattasse di una frase di Svarteld, ma quelle parole erano di Ilume, la madre di sua madre. Un sussurro dall’Altromondo. E un duro promemoria del fatto che la politica non era mai stata il suo forte.

Guardò Jarladin, il bue dalla barba bianca. Il fuoco tingeva di rosso metà del suo viso. Il resto era in ombra, come se con un piede si trovasse già all’Altromondo.

«Ora sono qui», disse Rime. «Al danno si può rimediare. Abbiamo molte possibilità: possiamo…»

«Rime… il Consiglio aveva soltanto un sogno, ed era quello di liberarsi di te. E l’hai esaudito tu stesso. È finita. Non ti riaccetteranno mai. È di nuovo Eir a portare il bastone. Io pensavo che gli àuguri e il popolo avrebbero protestato, ma nessuno ha fatto la men che minima rimostranza. Hanno sentito che avevi promesso un seggio a Ravnhov. Hanno sentito che il loro capo alla fine ti ha ucciso perché non hai mantenuto la parola data. Darkdaggar ti ha infangato molto abilmente: hai perso la ragione. Hai ucciso un bambino innocente a Reikavik. Un bambino».

Quelle parole colpirono Rime. Riaprirono la ferita dei ricordi. Il villaggio sul fiume. Avevano creduto che fossero nábyrn, nati dalle carogne. Ma tutto ciò che avevano trovato era un orso ferito in uno scantinato. Il bambino… il corpo magrolino appoggiato alla parete. I capelli rossi. Gli occhi di un morto. Ricordò l’uomo che lo aveva ucciso, in ginocchio davanti a sé. E ricordò il sapore della propria furia. Malgrado ciò, aveva esitato. Era stato Svarteld a farlo. Svarteld, che aveva sacrificato la propria vita per insegnargli a portare a termine le cose.

Rime afferrò Jarladin per un braccio. «Tu sai cos’è successo, Jarladin! Io non ho mai… io non avrei mai…».

Rime incrociò il suo sguardo e capì.

Che lui avesse ucciso o meno era totalmente irrilevante. Svarteld era l’unico che era stato con lui in quella casa, e non poteva più testimoniare. Neanche lui.

Rime si accasciò nuovamente sullo sgabello. Aveva dimenticato ciò che lui stesso aveva spiegato a Hirka: la verità per il Consiglio non contava nulla, se era inutile. Sembrava passata un’eternità, da quella volta.

Jarladin gli si avvicinò. Incombeva su di lui con quella sua stazza bovina.

«Allora raccontami, Rime… dove sei stato?».

Rime provò un senso di pesantezza, come se una palude di ingiustizia, di morti, lo stesse risucchiando. I suoi pensieri erano offuscati, come se avesse bevuto. Come se nulla più fosse reale.

In fondo al cuore sapeva di aver ottenuto qualcosa. Qualcosa di importante, e che valeva tutto ciò. Sarebbe sembrato un delirio, ma doveva raccontarlo.

«Sono stato da lei», iniziò. «Dai menskr. Ho trovato dei fratelli, dei nati dalle carogne, vecchi quanto il Dono. Dei nábyrn che ancora ricordano la guerra. Uno di loro è suo padre. Lei è un’Orba a metà, Jarladin. Mezza menskr, mezza nata da una carogna. È la figlia di un condottiero in esilio. E poi ho trovato lui. Il Veggente…».

Jarladin si passò la mano sul mento. Un gesto rivelatore. Rime sapeva cosa stesse pensando: che il Consiglio aveva ragione. Che Rime An-Elderin, figlio del figlio di Ilume, aveva perso il ben dell’intelletto. Che gli aveva dato di volta il cervello. Che era malato di mente.

Rime alzò gli occhi e lo guardò. «Esisteva, Jarladin! Il Veggente esisteva».

Jarladin incrociò le braccia sul petto. «E dunque che cos’hai fatto quando l’hai incontrato?».

Rime si sentiva paralizzato. «L’ho ucciso».

«Hai trovato il Veggente, e l’hai ucciso?».

Rime annuì. Fissava il caminetto. Le fiamme si erano spente. Braci ardenti danzavano sulla legna carbonizzata. Avrebbe dovuto provare una sensazione diversa al posto di quel vuoto.

«Dunque hai sconfitto il tuo stesso fantasma. L’hai seguita non si sa bene dove, e ora sei tornato e credi che il mondo sia rimasto immobile. Che nulla di ciò che hai fatto abbia avuto conseguenze. Come se non avessimo tutti quanti i nostri fantasmi contro i quali lottare».

Rime si alzò. «Tu pensi che mi immagini delle cose…».

Jarladin gli puntò il dito contro. «Io ho fatto tutto ciò che era in mio potere per proteggerti! TUTTO! Avevi un solo amico intorno a quel tavolo, e sei sparito! Senza una sola parola! Io ti ho difeso. Io…». Si interruppe da solo. Inclinò la testa da un lato, fissando qualcosa con incredulità crescente. Il suo sguardo cercava ciò che Rime sapeva non avrebbe mai trovato: la sua coda.

Nessuna spiegazione sarebbe servita. Tra di loro si era aperto un abisso. Le sue pareti erano troppo ripide, e Rime non avrebbe potuto vincere. Non quella sera.

Il consigliere impallidì. Arretrò. La sua reazione provocò in Rime un inquietante appagamento, come se all’improvviso avesse riacquistato il suo potere. Il privilegio di essere pieno d’ira.

Rime gli si avvicinò. Jarladin piegò all’indietro il busto. Cercò di frapporre una distanza tra di loro, come se stesse parlando con un appestato. E forse era così.

   Sono io, il marciume. Non lei.

Rime gli sussurrò all’orecchio: «Me la sono mozzata io. Sono diventato un senzacoda. Un menskr. E pensi che l’abbia fatto perché sono folle? Perché sono triste? L’ho fatto perché ho dovuto. Tu parli di una guerra imminente. Ricchi contro ricchi, un Consiglio spaccato: pensi che non possa andare ancora peggio? Ti posso raccontare cose che ti faranno gelare il sangue, Jarladin. Uno scontro tra regni è uno scherzo di fronte a ciò che succederà. Prova a fermare uno scontro tra mondi. È contro quello che sto lottando».

Jarladin si girò da un’altra parte. «Tu stai seguendo lei: tutto qui». Dal tono non sembrava convinto.

«Non più. È finita. Come tutto il resto». Rime si sentì trafitto dalle proprie parole. Un dolore improvviso e inaspettato che lo costrinse a voltare le spalle al consigliere. Aprì la porta e saltò sul davanzale. Rimase accucciato come per ricomporsi prima di girarsi nuovamente.

«Non sapevo chi avrei trovato qui, Jarladin: un amico o un nemico. Ma so chi è Darkdaggar. So di che cosa è capace quando è sotto pressione, e devi mettere in conto che ti stia tenendo d’occhio».

«Pensi di poter leggere il pensiero dei membri del Consiglio, Rime? Tu che non sei mai stato adatto a questo ruolo?»

«Penso di poter leggere il pensiero di un assassino».

Jarladin arretrò di un passo. Il suo piede sfiorò il bicchiere che gli era caduto per terra, che si divise in due: evidentemente si era rotto già prima.

«Tu qui non sei al sicuro, Jarladin: né tu, né la tua famiglia. Hai pochi amici nel Consiglio, e Darkdaggar è un uomo pericoloso. È possibile che dobbiate abbandonare Mannfalla».

«Mai».

Rime si era aspettato quella reazione. «Allora almeno promettimi di tenere unito il Consiglio ancora per un po’».

«Vuoi che lo tenga unito? Un Consiglio che tu hai cercato con tutte le forze di distruggere?».

Rime avrebbe potuto sorridere di quell’ironia, se si fosse trattato di un altro giorno. «Sì. Voglio che tu li tenga uniti. Perché adesso so qual è l’alternativa, chi potrebb’essere il suo successore, e ciò non piacerebbe a nessuno di noi due».

Si alzò in piedi sul davanzale e si preparò a saltare.

«Tu hai reso loro la vita facile», disse Jarladin alle sue spalle. «Prima non avrebbero mai osato ucciderti. Avrebbero temuto un’insurrezione popolare. Oppure ancora peggio, una rivolta da parte di Kolkagga. Ma ormai non hanno bisogno di temere nessuna delle due cose. Per loro sei morto, Rime».

«E continuerò ad esserlo». Rime fece appello al Dono, e spiccò un balzo nella notte fredda.

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