Tomorrow War: Dal Diario di Max, Parte 1

Mentre Star Wars: Tarkin sta per atterrare in tutte le librerie (qui potete leggere il primo e il secondo estratto del nuovo romanzo di James Luceno!) un altro pezzo da novanta si appresta a conquistare il cuore di tutti i lettori appassionati di romanzi apocalittici… Tomorrow War! Da J. L. Bourne, autore della mitica saga del Diario di un Sopravvissuto agli Zombie, un nuovo viaggio in un’America da incubo…

Oggi vi presentiamo Max, il protagonista, grazie a qualche pagina del suo diario… buona lettura!

TomorrowWar

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Mi chiamo Max [SEGRETATO]. Max, per gli amici.
Qualche settimana fa, mi sono diplomato alla scuola di Sopravvivenza, Evasione, Resistenza ed Elusione (SERE) con sede a Brunswick, nel Maine. Nonostante fosse una tappa obbligata dell’addestramento degli uomini a “elevato rischio di cattura” come il sottoscritto, l’esperienza si è rivelata gradevole come un calcio nei coglioni. Mi sono ritrovato nel mezzo di un’area governativa che si estende per diverse migliaia di chilometri quadrati, costretto a sfuggire a uno squadrone di truppe ostili, organizzate e armate di tutto punto. Ho imparato sul campo le più raffinate tecniche di fuga e sopravvivenza. Alla fine, naturalmente, anch’io sono stato catturato, mi sono visto identificare come il “criminale di guerra 38” e ho passato qualche giorno in gattabuia per gli interrogatori di rito. Date le premesse, ho accolto con un discreto nervosismo la notizia del mio trasferimento a Spokane, nello stato di Washington, per la fase successiva del corso di sopravvivenza. Le vesciche che mi tormentavano i piedi non erano ancora guarite quando ho attraversato le porte dell’edificio senza finestre che fa da sede a quel particolarissimo istituto di formazione.
Sto documentando la mia esperienza per un motivo preciso, ma non mi sento ancora pronto ad affrontare l’argomento.
Metterlo per iscritto significherebbe renderlo reale, concreto, tangibile… Per quanto “tangibile” possa essere un testo digitale.
La struttura di sicurezza era popolata di volti sconosciuti.
Un uomo in uniforme nera, con voce ferma, ci ha ordinato di prendere posto: la lezione sarebbe iniziata nel giro di qualche minuto, una volta conclusi i controlli sul nostro conto.
Dopo un rapido scambio di battute, ho scoperto che il tale seduto alla mia sinistra era un maggiore dell’Aeronautica in servizio sugli aerei spia U-2. L’uomo alla mia destra, incalzato in un fugace botta e risposta, ha invece ammesso di lavorare a Fort Meade. Non serviva un genio per ricollegarlo alla sede della National Security Agency. In breve tempo, il minuscolo auditorium si è riempito di persone che non avevo mai visto prima. Alcune sembravano spie, ma al giorno d’oggi non è facile stabilirlo con certezza. C’era chi parlava e chi osservava in silenzio. Io mi sono concentrato sui taciturni. Poi ha fatto il suo ingresso un uomo di mezza età, con il classico carisma da vecchia volpe, un paio di jeans e un pullover di tonalità più chiara completo di toppe sui gomiti. In mano stringeva un portablocco di metallo. Senza proferire parola, si è sistemato su una sedia in fondo alla sala, nel punto più alto dell’auditorium, appena sotto due enormi pannelli di vetro a specchio.
Quando gli studenti hanno preso confidenza con il nuovo ambiente, il chiacchiericcio si è fatto più intenso, fino a sfociare in quel fastidioso crescendo che in genere preannuncia l’ingresso e il conseguente rimprovero dell’insegnante.
Ma così non è stato. Mentre parlavo del più e del meno con il pilota di U-2, mi sono guardato intorno e ho notato una
serie di piccole telecamere posizionate sul soffitto. Coprivano ogni angolazione possibile. Inevitabilmente, la mia attenzione si è focalizzata sui microfoni che pendevano in bella vista lungo tutta la sala. Poi, trenta minuti dopo l’orario previsto per l’inizio della lezione, la classe ha finalmente ritrovato il silenzio e l’uomo in uniforme nera è rientrato, fermandosi in piedi di fronte ai presenti.
“Probabilmente vi starete chiedendo perché siete qui”.
Molti dei trenta studenti in aula hanno annuito.
“Siete qui perché conoscete cose, o state per conoscere cose, che rischiano di sprofondare gli Stati Uniti in una monumentale tempesta di merda se qualcuno vi costringesse a parlare. Il mio nome non ha troppa importanza. Potete chiamarmi Ambasciatore”.
Gli sghignazzi della classe gli hanno strappato un mezzo sorriso.
“Devo farvi una domanda, e vi prego di rispondere ad alzata di mano. Chi di voi non ha mai frequentato ufficialmente una scuola SERE?”
Non sono riuscito a trattenermi. Mi sono guardato intorno per capire quale coglione avrebbe abboccato all’esca.
Dietro di me, non ho visto nessuno con la mano alzata.
Poi sono trasalito. L’Ambasciatore ha squadrato qualcuno nella mia direzione e ha detto: “Tu, in piedi”.
Stavo quasi per alzarmi, ma il tizio dell’NSA seduto alla mia destra è stato più rapido di me. La base a molla della sua poltroncina ha sbattuto di schianto contro lo schienale, e l’uomo è balzato in piedi sotto l’attento sguardo dell’Ambasciatore.
“E così, tu non sei mai stato alla SERE?”, ha chiesto il nostro anfitrione.
“No, signore. Mai sentita nominare”, ha risposto l’agente dell’NSA.
“Come ti chiami?”
“Charles”.
“Bene, Charles. Grazie per la conferma”.
L’Ambasciatore ha rivolto un cenno verso il fondo dell’auditorium. In un lampo, due uomini in uniforme nera e con il volto coperto, armati dei loro fidi AK-47, sono entrati come furie nella sala, hanno preso Charles e l’hanno trascinato via. Nel giro di pochi istanti, mi sono ritrovato accanto un posto vuoto. Del suo ospite restava solo un alone di calore sulla sedia.
L’Ambasciatore ha proseguito: “C’è sempre qualcuno”.
E la folla gli ha fatto eco con una risata.
Sadici del cazzo! Sarebbe potuto toccare a voi. Per un attimo, anch’io me l’ero vista brutta.
L’Ambasciatore ha ripreso a parlare.
“Il programma standard delle scuole SERE insegna i fondamenti per resistere alle strategie e alle pressioni del nemico. Naturalmente, tutti voi avete appreso quest’arte nelle due settimane di sopravvivenza sul campo, coadiuvate da un’allegra simulazione volta a illustrarvi le condizioni in cui versano i prigionieri di guerra. Vi siete sottoposti a un valido addestramento, certo, ma questa scuola arricchirà il vostro curriculum di nuove competenze”.
L’Ambasciatore continuava a camminare di fronte a noi, avanti e indietro, senza mai interrompere il monologo.
“Le tecniche che avete imparato alla SERE vi saranno utili in situazioni come questa”.
L’Ambasciatore ha puntato l’indice verso il fondo della sala. Teneva il pollice alzato, come se la sua mano si fosse tramutata per magia in una pistola. L’intera parete dietro di noi ha cominciato a sollevarsi, ritirandosi nel soffitto e rivelando la saletta nascosta appena oltre. Se qualcuno mi avesse chiesto come immaginavo le stanze degli interrogatori nel Giappone della seconda guerra mondiale, avrei risposto descrivendo la camera che avevo davanti agli occhi in quel momento. Sembrava la sezione di una capanna di bambù, con catene e strani strumenti appoggiati lungo il perimetro o appesi alle canne che componevano la struttura. Un uomo con un sacco in testa, apparentemente privo di forze, era immobile e in silenzio accanto a un aguzzino reso irriconoscibile da un passamontagna.
Il prigioniero tremante e incappucciato indossava gli abiti di Charles.
Quando l’interrogatore gli ha sfilato dalla testa il sacco umido e nero, nessuno si è stupito di riconoscere il volto sgomento e singhiozzante dell’NSA.
Il torturatore di Charles ha cominciato a porgli delle domande.
Mentre tutti noi fissavamo con orrore lo specchio unidirezionale, l’uomo ha sollevato un pannello dal pavimento di bambù, scoperchiando una botola ricolma di acqua scura. Dopo aver ruotato velocemente una vecchia valvola d’ottone, un rubinetto ha riversato altro liquido nero nella pozza. Per un istante, mi ha ricordato quei placidi stagni in cui gli orientali allevano le carpe koi. Almeno fin quando l’interrogatore non è tornato a interessarsi di Charles.
“Per chi lavori?”, gli ha chiesto in tutta calma, con un forte accento arabo.
Charles squadrava la pozza di acqua scura ai suoi piedi, sempre più profonda. “Non capisco perché mi state facendo questo!”, ha gridato.
Il carceriere non si è fatto pregare e gli ha rifilato un terrificante schiaffo sulla nuca.
Charles è rimasto senza fiato e ha rivolto lo sguardo verso l’auditorium, ma le sue speranze si sono infrante sul vetro
a specchio. Per quanto imbrigliati nel loro stesso riflesso, i suoi occhi sembravano supplicare tutti noi. La sofferenza dell’uomo oltre quel vetro mi dava il voltastomaco.
“Aiuto!”, ha gridato Charles, ma il suo aguzzino lo ha atterrato con un calcio sulle gambe e lo ha schiacciato a terra, la faccia premuta contro l’acqua.
Mentre una mano gli immergeva la testa, l’altra è scattata verso il cronometro su un ripiano poco oltre. Quell’uomo seguiva un misterioso protocollo, che ho rilevato ma che non sono riuscito a decifrare. Non ho mai avuto l’impressione che volesse realmente annegare Charles. Sapevo che quella fase di addestramento era studiata e regolamentata per evitare qualsiasi danno a lungo termine, fisico o psicologico che fosse.
A Charles devono essere sembrate ore. Eppure, dopo neanche quindici secondi, il torturatore lo ha riportato alla luce con uno strattone e gli ha chiesto: “Allora, per chi lavori?”
Seguendo le istruzioni dei suoi superiori, che gli imponevano di attenersi alla copertura stabilita in caso di interrogatori, Charles ha risposto: “Lavoro al Distretto Navale di Washington. Sono un archivista!”
Charles stava mentendo. E la menzogna è una scelta rischiosa per qualsiasi prigioniero. Anche i cattivi hanno Google, e sanno come usarlo. Fidatevi.
“Ah, davvero? Nel tuo portafogli abbiamo trovato una tessera della biblioteca di Fort Meade, e sul lunotto della tua auto c’è un adesivo con simboli matematici”. L’interrogatore si è abbattuto su Charles con un altro schiaffo.
“Ok, d’accordo, lavoro per l’NSA! Ora basta! Per favore!”
Le luci al di là del vetro si sono spente. La parete è scesa lentamente dal soffitto, tornando al suo posto e celando, almeno per il momento, l’orrore della sala appena oltre.
Tra gli studenti, me compreso, si è innescata una rete di sguardi, animati dal timore per ciò che sarebbe accaduto in seguito. L’Ambasciatore, che si era defilato senza dare nell’occhio all’inizio di quella drammatica farsa, è rientrato con Charles nell’istante esatto in cui il crescendo di chiacchiericci ha raggiunto il suo apice. Sull’aula è sceso un silenzio di tomba. Memore del mio addestramento, mi sono alzato e ho accompagnato il povero dipendente dell’NSA fino alla sua poltroncina. Per chi ha vissuto sulla propria pelle una simile esperienza di stress indotto, sentirsi riaccolto nel gruppo è estremamente importante.
Ho aiutato Charles a sedersi e ho tentato di rassicurarlo.
Non presentava sintomi di catatonia, ma sembrava un’altra persona. Gli ho offerto una gomma alla menta e lui l’ha accettata. L’asciugamano attorno alle sue spalle era zuppo dell’acqua che ristagnava in quell’orribile pozza al di là della parete.