Tomorrow War: Dal Diario di Max, Parte 4

Siamo giunti alla vigilia dell’uscita di Tomorrow War (in tutte le librerie da domani, 23 giugno!) e vi proponiamo la quarta e ultima anteprima per questo nuovo capolavoro survival scritto da J.L.Bourne, il maestro del thriller post apocalittico! Facciamo un piccolo salto avanti nel tempo, e scopriamo qualche dettaglio in più sulla missione di Max: una missione che cambierà per sempre il mondo… con risultati apocalittici!

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Un Gulfstream non identificato mi stava aspettando sulla pista di Drake. Il volo è durato poco: tre ore dopo il decollo, ho raggiunto la mia destinazione in Nord Virginia. Non mi hanno portato a Langley, ma nella sede di una società di copertura ad Alexandria. L’edificio si erge in bella vista e salta agli occhi di chiunque percorra la Route 1. È sufficiente cercare un complesso con enormi antenne satellitari sul tetto e un giardino curato nei minimi dettagli. Nessun imprenditore spenderebbe tanti soldi per tagliare i prati ogni settimana e tenere le finestre lucide.
La struttura di facciata è un edificio di mattoni rossi che ospita una compagnia di telecomunicazioni e che è collegato alla vicina fabbrica di vetro. Non a caso, si trova poco distante dalla rampa che imbocca il Woodrow Wilson Bridge sul lato della tangenziale, ai confini con il Maryland. Garantisce un pratico accesso alla stazione di Huntington, alla base aeronautica di Andrews e alle sedici agenzie di intelligence.
Appena entrato nell’edificio, mi sono fatto strada verso il banco della reception, dietro cui sedeva una donna ben vestita e con i capelli legati in una crocchia. Non mi ha intimato di fermarmi, tantomeno ha reagito in alcun modo alla mia presenza. Senza neppure alzare lo sguardo, mi ha consegnato un tesserino con lo stesso logo della Delmay Glass che campeggiava sull’edificio e mi ha ordinato di salire in ascensore, quindi di premere il pulsante otto. Le ho chiesto come facesse a sapere chi fossi, ma lei ha tagliato corto.
“Riconoscimento facciale. Sei autorizzato a entrare. Ora sali in ascensore. Non è una buona idea restare alla reception per più di sessanta secondi”.
Ho avuto la netta impressione che quella donna non stesse scherzando. Mi sono diretto verso l’ascensore e ho guardato le porte a specchio chiudersi di fronte a me. Ho premuto otto ed è risuonata una voce meccanica: “Benvenuto alla Delmay Glass. Avvicini il tesserino alla spia luminosa, prego”. Il pulsante otto stava lampeggiando, quindi ho seguito le istruzioni alla lettera. “Grazie, le auguriamo una piacevole giornata”.
L’ascensore ha intrapreso la sua breve scalata fino all’ultimo piano. Quando le porte si sono aperte, ho notato un lungo tavolo circondato da persone in abiti d’affari. Sul ripiano c’erano delle ciambelle fritte, insieme a una caraffa in metallo probabilmente piena di caffè. Il mio abbigliamento mal s’adattava alle circostanze, perché indossavo un paio di pantaloni militari, scarpe di cuoio consumate dal tempo, una polo e un cappellino con la tesa. Da tempo avevo rinunciato alla rasatura mattutina e sfoggiavo una folta e rispettabilissima barba. Le persone intorno al tavolo mi erano del tutto sconosciute. Mi sentivo osservato, analizzato da quelle figure spettrali che fluttuavano ai quattro angoli della stanza nei loro costosi completi da dirigenti.
Quando mi sono fatto avanti, è venuta ad accogliermi una rossa sulla trentina. Si è fermata di colpo, a pochi centimetri da me, fissandomi dritto negli occhi. Indossava un tailleur pantalone e aveva zigomi alti con lineamenti europei.
Era di bell’aspetto, ma i suoi occhi inquisitori sembravano stridere con la giovinezza dei suoi tratti. Mi ha squadrato, mi ha chiesto di seguirla fino al tavolo e, dopo qualche passo, si è presentata come Maggie. La riunione non era ancora iniziata.
Sono rimasto accanto a lei, in piedi e a disagio, mentre la conversazione cominciava a farsi più chiassosa, come i chiacchiericci della mia classe ai tempi di Spokane.
Maggie si è voltata verso di me e ha annunciato: “Tu e io lavoreremo insieme”.
Fantastico, ma in che modo? E dove? Erano queste le domande che mi passavano per la mente. Ho accarezzato pensieri insignificanti e assai poco cavallereschi mentre i pezzi grossi intorno a me ciarlavano con foga, ridendo e scambiandosi cenni d’intesa come se si conoscessero da anni. Dal canto mio, continuavo ansiosamente a tenere d’occhio l’uscita.
Sono stato il primo a notare le guardie del corpo che si sono riversate nella stanza, seguite nientemeno che dalla Presidente degli Stati Uniti.
Di colpo è sceso il silenzio e tutti sono scattati in piedi, mentre la Presidente guadagnava un posto alla testa del tavolo.
“Prego, sedetevi e cominciamo”.
Uno dei colletti bianchi si è avvicinato alla parete, ha premuto un interruttore e ha attivato un dispositivo fissato alle finestre. Emetteva flussi di rumore bianco, allo scopo di neutralizzare eventuali microfoni laser. Quell’apparecchio era in bella vista, ma mi chiedevo cos’altro nascondessero le mura e i soffitti della Delmay Glass. Un portaborse della Presidente ha consegnato una valigetta all’oratore di turno.
Un altro ha trascinato in posizione un vecchio proiettore.Era dai tempi della scuola che non assistevo a una presentazione con diapositive analogiche, ma il mio sguardo incredulo non è passato inosservato. Maggie mi si è avvicinata all’orecchio e ha sussurrato: “Gli hacker non possono violare gli archivi di diapositive”. Già, aveva senso.
Ho sempre sentito dire che le reti più sicure non sono i sistemi informatici protetti, tantomeno quelle idiozie relative ai programmi di formazione documentata. È il cosiddetto sneakernet: il trasferimento fisico tra persone fidate di informazioni scritte su carta.
Sullo schermo bianco sono comparse le diapositive, proiettate una dopo l’altra in rapida successione.
Operazione Falco braccato: destabilizzazione del regime siriano”. Cominciavo a capire perché mi trovavo lì. Io e Maggie dovremo fingerci due tecnici delle telecomunicazioni: l’obiettivo è recapitare e installare un imprecisato “pacco” in uno snodo di trasmissione della Syriatel situato alla periferia di Damasco. Viaggeremo da soli, ma in caso di emergenza potremo contare sulla protezione di forze speciali già di stanza ai confini della capitale siriana. Gli uomini delle squadre d’élite si stanno occupando del trasporto di alcuni missili terra-aria da un sottomarino al largo della costa fin nelle mani dei ribelli. Un operativo sorveglierà la nostra zona di atterraggio e passerà all’offensiva se dovessimo incontrare degli infidi allevatori di capre.
La riunione si è protratta per non più di quindici minuti.
La Presidente, assorta nelle sue riflessioni, si è concessa una lunga pausa prima di parlare. “Assad non lascerà mai la Siria di sua spontanea volontà. Se dovesse essere deposto, o se il suo regime collassasse, gli alauiti finirebbero uccisi o sarebbero costretti alla diaspora. Allo stato attuale delle cose, rappresentano solo il dieci percento della popolazione siriana”.
La Presidente ha fissato Maggie, poi ha rivolto un’occhiata a me e ha aggiunto: “È tutto chiaro?”
“Sì, certo”, ha risposto Maggie con prontezza.
“Bene. Quando sarà tutto finito, chiamate il capo di stato maggiore”. Maggie ha annuito con atteggiamento accondiscendente.
La Presidente si è alzata, ha ringraziato tutti ed è uscita senza troppe cerimonie.
Non avevo mai incontrato un presidente. Sentivo l’irrefrenabile impulso di chiamare casa e raccontarlo a tutti, ma gira voce che sia il modo più rapido per finire in un sacco e sparire per sempre.