La Figlia di Odino sta tornando: Il Salone Del libro è alle porte
L’abbiamo lasciata a Lucca Comics & Games (SCARICA IL PRIMO CAPITOLO) con la voglia di continuare a seguire le avventure di Irka nel mondo vichingo del lontano Nord… Siri Pettersen sta tornando, la Figlia di Odino ritorna al Salone del libro di Torino in anteprima nazionale e dal 17 maggio in tutte le librerie!
Immagina di essere braccata in un mondo ignoto. Sei senza identità, senza famiglia, senza soldi. Tutto ciò che hai è un cacciatore di teste, un nato da una carogna, e un’orribile, crescente consapevolezza della tua identità.
Se volete riprendere le fila della storia della trilogia norvegese di Siri Pettersen, Raven Rings leggete qui
Abbiamo pensato di darvi un’assaggio anche del secondo capitolo 😀
VICHINGA
«Norvegia?»
«No».
«Finlandia?»
«L’hai già detto. No».
«L’Islanda! Dev’essere l’Islanda! Fai quel suono particolare… come i vichinghi. Thhh». Jay emise un soffio d’aria tutt’intorno alla lingua.
«Io non conosco i vichinghi», disse Hirka, e premette un punto sulla spalla di Jay, facendola piegare su se stessa.
«Ahi, ahi, ahi! No, non ti fermare! Vichinghi? Non hai mai sentito parlare dei vichinghi?».
Hirka continuò a massaggiarle le spalle senza rispondere.
«I norvegesi che vivevano mille anni fa? Navi? Razzie? Berserker?
La parola berserk le era familiare, ma Hirka non disse nulla. Molte parole le erano note, senza che ciò avesse alcun significato. Aveva smesso di cercare le somiglianze. Quasi sempre si trattava d’una falsa pista, e ciò non faceva altro che intristirla. Inoltre aveva imparato a essere sincera. A non dire mai che era arrivata attraverso le pietre. A non cercare di vendere il tè di un altro mondo agli avventori del bar. Altrimenti il padrone chiamava la polizia, e l’unica via di fuga era quella attraverso la finestra del bagno.
Centocinquantaquattro giorni. Da quando aveva lasciato Ymslanda, Mannfalla.
E Rime.
Andò alle spalle dell’altare e aprì la porta del campanile. Salì le scale fino a raggiungere la cima. Le avevano permesso di vivere lì, malgrado non fosse una stanza pensata per le persone. Il prete aveva detto che assomigliava a un cantiere, senza riscaldamento né luce. A Hirka le due cose non mancavano affatto. Padre Brody aveva cercato di sistemarla nella stanza in cantina, dove avevano abitato Jay e sua madre. Ma quel luogo le ricordava le segrete di Eisvaldr. Doveva salire, molto in alto. Arrampicarsi dove nessuno avrebbe potuto seguirla. E dunque se n’era salita lassù, ogni sera, fin quando padre Brody si era dovuto arrendere. Il grosso della polvere l’aveva tolto, e anche la sporcizia lasciata dei pipistrelli. Ora era tutto a posto, a condizione di non trovarsi lì quando suonavano le campane.
Hirka si guardò intorno, in quella che era la sua nuova casa in quel mondo nuovo. La scala occupava la maggior parte dello spazio. Alzando lo sguardo, riusciva a vedere le campane al piano superiore. In realtà si trattava dello stesso piano, ma qualcuno vi aveva costruito un soppalco di legno. Di certo nelle intenzioni doveva essere temporaneo, o magari un sostegno su cui lavorare durante alcuni restauri; ma poi era rimasto lì.
Incastrato tra la scala e la parete Hirka aveva un materasso, e un cuscino con un cigno deforme, ricamato da qualcuno che probabilmente non aveva mai visto un cigno in vita sua. Aveva una tazza che in realtà era tagliata a metà, con su scritto: “Avevi detto mezza tazza!”. Divertente, da quando le avevano spiegato la battuta. Poi c’era un mobiletto angusto con tre cassetti. Quello più in basso era bloccato, e perciò ci viveva Kuro. Aveva anche una stufa portata lì da padre Brody. Il calore giungeva da alcuni buchini nella parete al piano di sotto, e correva dentro un lungo filo, arrivando fin lassù. L’aveva accesa e spenta varie volte, e ora aveva smesso di funzionare. Ma non aveva alcuna importanza: Hirka non aveva freddo: del resto aveva numerose candele.
Aveva anche un libro sull’apprendimento delle lingue che le aveva dato Jay. Hirka riusciva a stento a leggerne il titolo. Qui i libri erano alla portata di tutti. C’era un’abbondanza incredibile di ogni genere di cose. Però c’erano anche persone senza casa. E peggio ancora, gente come lei. Gente senza il numero. Tutte le persone ne avevano uno. Senza il numero, era come se non si esistesse affatto. Hirka sarebbe potuta essere tranquillamente un fantasma.
Appoggiò la schiena al muro nel profondo vano della finestra. Fantasma o no, per lo meno aveva la propria finestra fatta di autentico vetro. In cima era appuntita e aveva uno sfiatatoio che era quasi sempre aperto.
Hirka fece scivolare le mani sul vetro freddo. Il vetro le piaceva. La pietra le piaceva. Erano materiali che conosceva, a differenza di tanti altri cose, in quel posto.
Guardò York, lì fuori, che la gente chiamava città. Il nome della chiesa era St. Thomas; si trovava vicino al centro. Le case erano fitte fitte, come a Mannfalla. L’unico pezzetto di terra libero che vedeva si trovava proprio lì fuori. Nel semplice giardino, in cui i sassi spuntavano dalla neve come denti storti. Sotto ciascuna pietra c’era un cadavere. Qui non bruciavano la gente: la seppellivano semplicemente nel terreno e la lasciavano a marcire. Non era giusto: soltanto gli assassini facevano così. Eppure la cosa non dava fastidio a nessuno.
Aveva chiesto se dessero mai qualche morto in pasto ai corvi; ma era un’altra delle cose che non avrebbe domandato mai più.
Pensa quanto avrebbe potuto fare là fuori, se non avessero utilizzato quel luogo per i loro rituali perversi. Avrebbe potuto piantare delle pastinache, e forse le campanule d’oro, le lacrime di sole e…
Cose che qui non esistono. Cose che nessuno ha mai sentito nominare.
Lì nessuno coltivava un bel niente. Neppure il cibo di cui avevano bisogno.
Hirka toccò una delle piante sul davanzale della finestra. Padre Brody l’aveva accompagnata nella serra presso la scuola, e le aveva comprato tre germogli. Crescevano lentamente, ciascuno nel proprio bicchiere di cartone. Non aveva idea di che piante fossero, né contro quale malanno potessero servire. Bisognava reimparare tutto. Assolutamente tutto.
Lasciò che il suo sguardo spaziasse alla ricerca di qualcosa di tranquillo su cui fermarsi.
In basso in basso scorse un uomo su di una panca. Aveva spazzolato via la neve dal punto esatto in cui sedeva, ma non intorno. Lui guardò brevemente verso l’alto, poi distolse immediatamente lo sguardo. Fece finta di non averla vista. Aveva una felpa grigia col cappuccio e una giacca di pelle. Lo aveva già visto: era già passato di lì il giorno prima, ne era certa. E lo aveva visto anche nelle vicinanze del negozio di alimentari. Che cosa voleva? Perché era lì? Era della polizia? Era venuto a prenderla perché non aveva il numero?
Fu colta da una paura strisciante, un senso di freddo allo stomaco.
D’un tratto l’uomo si alzò, attraversò il cortile e uscì dal cancello di ferro battuto. Lei lo seguì con lo sguardo, ma era sparito. Vide soltanto le macchine che passavano.
Il silenzio non esisteva, in quel mondo. Ovunque uno andasse, era circondato da rumori. Un brontolìo costante di macchine. Tante cose sconosciute; tante cose da sapere; tante cose che avrebbe potuto sbagliare. Hirka si premette i palmi delle mani contro le orecchie, finché non poté udire solo il suo stesso sangue che le scorreva in corpo, sempre più veloce.
Il respiro si rifiutava di raggiungere i polmoni. Si sentiva soffocare. Fu travolta da una sensazione irreale. Le mani cominciarono a tremarle. Si strappò di dosso i vestiti, armeggiò con la chiusura-lampo dei pantaloni. Non riusciva a toglierseli abbastanza in fretta. Vuotò la sacca. Le cose si sparsero in giro per il pavimento. Cose vecchie, cose familiari. Le sue cose. Le piante. Ne erano rimaste così poche. Il maglione verde, con i bordi lisi. Indossò quello, e anche i pantaloni. Il coltellino a serramanico. Nessuno lì girava col coltello: non era permesso.
Si accasciò sul materasso e rimase così seduta, stringendosi le braccia intorno al corpo. Si portò una mano al petto e al tatto sentì i ciondoli: una conchiglia e un dente di lupo, con delle piccole tacche. Ciascuna di quelle tacche rappresentava qualcosa di reale. Qualcosa che era accaduto. Vittorie nelle sfide tra lei e Rime.
Rime…
Aveva fatto l’abitudine a quelle fitte improvvise. Si era abituata a essere sopraffatta dalle emozioni; eppure alla nostalgia non riusciva ad abituarsi. Quel buco in petto la divorava, ogni giorno. Da centocinquantaquattro giorni.
Ymslanda era salva: questa era l’unica consolazione. Al sicuro dagli Orbi, ora che lei non c’era. Ora che il marciume non c’era più.
Tuttavia le rimanevano i ricordi. I regali.
Il suo cuore cominciò a calmarsi. Respirare divenne più facile. Lei era Hirka. Era reale. I suoi oggetti erano reali. Semplicemente non appartenevano a quel luogo lontano.
Neanche a questo, di luogo.
Si infilò la mano in tasca. Ne estrasse tre pietre ematiche, dono di Jarladin. Il consigliere gliele aveva nascoste nel mantello, prima che partisse. Avrebbe potuto viverci per tutta la vita, a Mannfalla. Qui era impossibile a dirsi. Non aveva visto nessun posto in cui comprassero e vendessero pietre. E nessun negozio le voleva.
Poi c’era il libro di Hlosnian. Un regalo che all’ammaliapietre doveva essere costato un occhio della testa. Rime gliel’aveva dato la notte in cui era partita.
Hirka sentì un battito d’ali. Kuro si posò sul davanzale, e sgusciò dentro attraverso lo sfiatatoio. Planò e si appollaiò dentro il cassetto. Negli ultimi tempi si comportava in modo strano. Saltellava poco, camminava soltanto. Lo aveva visto perfino cadere su un fianco. In parole povere sembrava depresso. Forse il corvo aveva delle difficoltà, proprio come lei. Aveva difficoltà a trovare nutrimento in quel mondo morto, privo del Dono.
Per lo meno c’erano l’uno per l’altra. Senza di lui non avrebbe superato quegli ultimi mesi.
Hirka si sistemò in grembo il libro di Hlosnian. Era spesso, con una rilegatura di pelle marrone e delle fettucce con cui annodarlo. Sulla copertina Hirka aveva attaccato un oggetto circolare. Padre Brody le aveva detto che si trattava di una vecchia bussola. Hirka l’aveva trovata nel cimitero. L’ago puntava sempre verso Nord, e guardarlo fisso la aiutava quando il mondo le faceva venire le vertigini.
Hirka aprì il libro. Non era mai stata brava a leggere e scrivere. Appena meglio di suo padre. Eppure aveva riempito intere pagine di parole assurde e bozzetti. Una piantina dei dintorni. Disegni di piante. Disegni trovati per strada. Una foglia morta. Carte di caramelle. Pezzi di giocattoli.
All’inizio raccoglieva tutto. Ogni minima cosa le risultava nuova e bella in modo struggente. Si era anche scritta delle cose che voleva raccontare a Rime, ma poi era diventato troppo doloroso. E ogni giorno che passava, era sempre peggio. Quindi aveva smesso.
Tuttavia continuava ad annotarsi nuove parole. Man mano aveva creato un sistema. C’erano pagine dedicate agli oggetti che conosceva da prima. Sedia, finestra, pane, pioggia. E poi parole per cose di cui non avrebbe mai immaginato l’esistenza: telefono, cioccolata, asfalto, occhiali da sole, lavatrice, benzina.
Riuscì a trovare la matita e scrisse la nuova parola che aveva imparato da Jay. Vichingo: uno che viveva a bordo di navi mille anni fa.
Guardò Kuro. Si era addormentato nel cassetto. Le penne della testa vibravano quando respirava. Alzò la matita e riprese a scrivere.
Sopravvivere: esistere. Cavarsela. Non morire.
…. Vi aspettiamo al nostro stand al Salone Del Libro di Torino da giovedì 10 maggio a lunedì 14 al PAD.1 STAND E45-D46