Leggi subito World Of Warcraft Traveler: La Spirale
E’ in libreria il secondo libro della saga di World Of Warcraft Traveler .
“La Spirale” riprende le avventure del dodicenne Aramar Rovin quando la sua vita viene sconvolta dal ritorno inaspettato del padre, il capitano Greydon Rovin.
I due inizieranno una nuova avventura per mare su Azeroth e fronteggeranno nemici micidiali, come gli OCCULTI. Per fuggire proprio ad un loro attacco, Aramar e il vice capitano Makasa Veraselce si imbatteranno in terre straordinarie e meravigliose alla ricerca di risposte: da dove proviene la bussola che non segna mai il Nord e chi sono gli Occulti.
Questo secondo volume contiene bellissime illustrazioni (17) a china inedite anche rispetto alla versione americana.
Ma adesso ecco a voi una bella lettura per entrare meglio in questo romanzo di formazione ambientato nel mitico mondo di World Of Warcraft
CAPITOLO UNO: LA DAMA E LA FIGLIA
La luna più grande di Azeroth, la Dama Bianca, stava ormai tramontando, mentre l’altra più piccola, che chiamavano Figlia Blu, era ancora piena. Pur non essendoci un fuoco di bivacco, i due corpi celesti emanavano luce a sufficienza per il compito che stava svolgendo Aramar Rovin. Il taccuino in grembo e la piuma sgocciolante d’inchiostro in mano, Aram stava finalmente ritraendo l’unica persona che non aveva ancora disegnato su quelle pagine.
Makasa Veraselce posava un po’ a disagio. “Non c’è bisogno che posi,” le aveva detto Aram. “L’importante è che tu non ti muova troppo.”
“Va bene. Perfetto,” aveva detto Makasa, ma poi si era irrigidita e aveva tenuto la schiena ben dritta e dolorosamente goffa. Aram era abituato a vederla irrigidirsi, ma sapeva anche che Makasa era un tipo che si sentiva estremamente a suo agio nella propria pelle, perciò era costretto a compensare personalmente quella goffaggine nel ritratto. Makasa Veraselce aveva diciassette anni ma si comportava come una donna sui trenta… o forse un comandante sulla cinquantina. Alta un metro e settanta, Makasa era snella e muscolosa, aveva la pelle scura, gli occhi castani e i capelli neri corti e scompigliati. Sulla Calcaonde li aveva tenuti sempre cortissimi in modo che seguissero la forma del suo cranio, ma ormai era un mese che stavano percorrendo l’intricata foresta pluviale di Feralas e, sebbene chiunque avrebbe pensato che Makasa portava i capelli corti, Aram conosceva bene sua sorella e sapeva che, ai suoi occhi, dovevano essere ormai “completamente fuori controllo.”
“Sorella.” A quel punto era diventato naturale considerarla tale, nonché impossibile credere che, appena un mese prima, la parola che doveva usare per definirla era pressappoco “nemica”. Ne avevano passate di tutti i colori, nel frattempo, e portavano entrambi le cicatrici – dentro e fuori – a dimostrarlo. Mentre la ritraeva tracciando linee scure e sottili intorno alla guancia sinistra e alla fronte, Aram non poté fare a meno di ripensare a quando si erano incontrati sette lunghissimi mesi prima…
Aramar Rovin era il figlio del capitano, salito a bordo della Calcaonde ufficialmente in qualità di mozzo ma in verità soltanto per conoscere meglio un padre che aveva abbandonato la propria famiglia quando Aram aveva sei anni. Mentre il capitano Greydon Rovin cercava di insegnare a suo figlio tutto quel che c’era da sapere sulla vita, la scherma e la flora e la fauna di Azeroth, il vice capitano Makasa Veraselce aveva ricevuto il compito di trasformare in marinaio un ragazzino di dodici anni che non solo non aveva mai navigato, ma che proprio non aveva mai visto l’oceano in vita sua. Aram – doveva ammetterlo – era stato uno studente svogliato e rancoroso. Non voleva stare con loro e non ne aveva mai fatto mistero.
Peggio ancora, si era inavvertitamente messo in mezzo tra Greydon e Makasa, poiché quest’ultima considerava il capitano come un padre. Insomma, per usare un eufemismo, Aram e Makasa in quei sei mesi non erano andati molto d’accordo.
Mentre riproduceva i graffi sulle braccia di Makasa, Aram si domandò come se li fosse procurati. Poi passò a disegnare le sue armi: la sciabola e l’accetta appese alla cintura, il catenaccio di ferro che portava a tracolla, lo scudo – un cerchio di ferro coperto da strati su strati di cuoio in grado di assorbire gli impatti – che teneva sempre a portata di mano.
Nell’ultimo mese era cambiato tutto. Separati tragicamente da Greydon e dalla Calcaonde, Aram e Makasa erano fuggiti con una scialuppa per ritrovarsi naufraghi in territorio ostile… e lì, alla fine, erano riusciti a trovare un’intesa. Ogni volta che lui aveva estratto il taccuino, Makasa aveva commentato: “Sarà meglio che non ci sia pure io in quel dannato libretto”.
E Aram aveva risposto sempre nello stesso modo: “Ti giuro che ti disegnerò soltanto quando me lo chiederai tu”.
Ovviamente Makasa non glielo aveva chiesto… fino a quel mattino, quando lo aveva sorpreso con un sorriso e aveva detto: “Potrei anche farlo. Ho sentito dire che è una bella magia”.
“Una bella magia”. Ecco che cosa c’era tra loro due. Avevano sofferto e perduto molto entrambi, affrontando pericoli e tragedie, ma erano sopravvissuti insieme e, lungo il tragitto, non avevano soltanto fatto pace, ma anche riconosciuto il legame che li univa. In fondo si somigliavano. Erano praticamente… fratello e sorella.
Aram esitò e alzò lo sguardo. La Dama Bianca stava tramontando dietro la guglia rocciosa del Picco Celeste dove il loro amico, l’Elfo della Notte Thalyss Querciagrigia, era morto la sera precedente, dopo aver chiesto loro di fargli un’ultima promessa che li aveva rivitalizzati.
Makasa si mosse per la prima volta. Seguì lo sguardo di Aram e si gettò un’occhiata alle spalle. Nonostante avessero lasciato la cima di Picco Celeste il giorno prima, potevano ancora scorgere la cascata che scintillava alla luce della Figlia Blu. Quella mattina avevano seppellito Thalyss proprio ai suoi piedi. Makasa si voltò verso Aram e annuì tristemente, intuendo che cosa stesse pensando il ragazzo. Distratta dal dover stare in posa, Makasa era tornata se stessa, così Aram si affrettò a ritrarre quello sguardo compassionevole che aveva tanto faticato a ottenere.
Makasa non aveva avuto né il tempo né l’opportunità di conoscere Thalyss e affezionarsi a lui come aveva fatto Aram, ma questo non aveva importanza, perché sapeva perfettamente come si sentiva il giovane. Il Kaldorei aveva sacrificato la vita secolare per salvare il fratello, proteggendolo col proprio corpo dai due dardi scoccati per uccidere Aram: agli occhi di Makasa, ciò aveva reso l’Elfo della Notte un amico, un compatriota e un eroe.
Aram avvertiva l’assenza di Thalyss più intimamente, poiché la compagnia di quel saggio Elfo della Notte, che trovava un lato divertente in ogni cosa, aveva finito col riempire il vuoto che si era formato con la morte di suo padre. Adesso Aram aveva perduto sia Greydon sia Querciagrigia. Non li hai perduti, avrebbe detto Makasa. Sono morti. Morti. Affronta la questione, non girarci intorno. Era una tipa tosta, quella Veraselce, sempre schietta e sincera. Col tempo Aram aveva cominciato ad apprezzare quelle qualità.
“Mrksa?” fece una strana vocina in tono speranzoso. Era stato Murky a parlare, il loro piccolo e verdognolo Murloc con la testa grande quasi quanto tutto il corpo, occhioni lucidi da rospo inclusi. Murky e l’altro compagno con cui stavano viaggiando, Codirsuta, erano appena tornati all’accampamento con la legna per il fuoco.
Makasa scosse la testa con aria spazientita. “No. Niente fuochi. Ve l’ho già detto: siamo ancora troppo vicini a Maglio Infausto. Non possiamo permettere che una colonna di fumo conduca i nemici alla nostra posizione. Credevo steste cercando qualche bacca di sbocciavento.”
“Niente bacche,” fece Codirsuta, gettando la legna che Makasa aveva rifiutato tra lei e Aram. Metà iena e metà umano, Codirsuta era un guerriero Gnoll, anche se poco più grande di un cucciolo… ma decisamente più corpulento.
Il gruppetto si guardò intorno. Si erano accampati nella radura rocciosa che affiancava un fiumiciattolo ai confini tra Millepicchi e Feralas, una densa foresta formata da alti alberi che incombevano su di loro nella penombra della notte. La legna che i due avevano raccolto, e che nessuno avrebbe usato, giaceva proprio là dove avrebbe dovuto esserci un falò, e cioè nello stesso posto in cui avrebbero cucinato e consumato la cena, se solo avessero avuto il tempo per pescare o andare a caccia. I loro quattro stomaci brontolarono praticamente all’unisono.
Aram ricordò all’improvviso di essere affamato. Parecchio affamato.
“Urum n Mrksa mlgggrrr. Murky n Codrsta mlgggrrr. Murky mrrugl amci mmgr mmm mmmm flllurlok, nrk nk mgrrrrl. Nk mgrrrrl!” disse Murky.
Makasa lo guardò socchiudendo gli occhi, quindi scoccò ad Aram uno sguardo interrogativo.
L’altro si strinse nelle spalle. “Non lo so. Credo di aver capito qualche parola. So che io sono Urum e tu Mrksa…”
“Mrksa,” lo corresse Murky.
“Codirsuta è Codrsta,” intervenne Codirsuta.
“E che noi siamo i suoi ammrici. Amici. Però non capisco il resto.”
Murky scosse la testa e ripeté: “Nk mgrrrl, nk mgrrrl…” altre tre o quattro volte. Il suo stomaco gorgogliava ogni volta, come a voler sottolineare le sue proteste.
Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo mangiato qualcosa? si domandò Aram. Tre giorni fa? E nel frattempo ne erano successe di tutti i colori: avevano marciato senza tregua e combattuto come gladiatori e corso a perdifiato. Aram sapeva che, a quel punto, non gli restava che nutrirsi di radici. Era una situazione disperata, ma per qualche strana ragione Aram non si sentiva così bene da settimane. Forse addirittura mesi. Lo stomaco gli doleva, eppure si sentiva in pace. Sì, stavano morendo di fame e i loro nemici li stavano braccando, tuttavia erano molto lontani e, dato che Aram e i suoi amici erano fuggiti per via aerea in groppa a una viverna, avevano soltanto una vaga idea di dove stessero andando, senza contare che non potevano seguire in alcun modo le loro tracce. E così, per il momento, Aram e i suoi amici si stavano rilassando un po’ al chiaro di luna.
Una volta completato il ritratto, Aram lo firmò con una sigla arzigogolata e si rinfilò il pennino in tasca. Makasa aggrottò la fronte. Aram conosceva bene quell’espressione. “Vuoi vederlo?” le chiese.
Codirsuta e Murky si arrampicarono letteralmente l’uno sopra l’altro per ammirare l’ultima opera di Aram.
“Mmmm mrrrggkk,” tubò Murky. Aram sapeva che aveva appena detto bella magia perché glielo aveva insegnato Thalyss.
Codirsuta annuì e ripeté il complimento di Murky. “Bella magia,” disse in tono fermo.
Secondo il Murloc e lo Gnoll, la “bella magia” del taccuino di Aram non era soltanto una metafora. Per loro c’era veramente qualcosa di mistico nel modo in cui Aram riusciva a raffigurare le persone, i luoghi e le cose in cui si imbatteva. Probabilmente non sarebbe riuscito a stupirli di più neppure se avesse materializzato un grappolo di bacche di sbocciavento dal nulla.
Dal canto suo, Aram sapeva soltanto che gli piaceva disegnare. E gli piaceva pensare anche di essere piuttosto bravo. Il suo patrigno ne era altrettanto certo, tant’è che una volta aveva lavorato una settimana soltanto per regalargli quel taccuino in occasione del suo dodicesimo compleanno. Aram l’aveva considerato il suo bene più prezioso… almeno finché suo padre non gli aveva affidato la bussola e Thalyss la ghianda.
In quel momento, tuttavia, Aram non voleva pensare né all’una né all’altro: quello che voleva era che Makasa desiderasse vedere il proprio ritratto. Solo che quella non sembrava averne la minima intenzione. In effetti, Aram si era appena reso conto che non gli aveva neppure risposto.
Sentendosi improvvisamente meno sicuro di sé, le chiese: “Non vuoi vederlo?”.
Makasa aggrottò la fronte un’altra volta. “Non lo so. Secondo te?”
Aram si trattenne dal roteare gli occhi, ben sapendo che l’avrebbe soltanto fatta irritare. Invece si alzò, fece il giro del mucchio di legna e le si avvicinò. “Io spero di sì,” disse, porgendole il taccuino.
Makasa lo guardò attentamente alla luce della luna per un lunghissimo minuto. “E così io avrei questo aspetto?” chiese alla fine.
“Mrgle, mrgle,” disse Murky, e Aram sapeva che significava sì.
Codirsuta disse soltanto: “Makasa”. Il suo tono era definitivo.
Aram fece una smorfia. “Be’, quantomeno è così che ti vedo io,” disse. “Ti piace?”
“È troppo tenera,” rispose Makasa.
Non “Sono troppo tenera,” pensò Aram. “Lei.” “Non hai sempre questo aspetto,” disse. “Però è quello che avevi in quel momento. Tuttavia… è così che ti vedo io quando chiudo gli occhi.”
“Se davvero riesci a vedermi a occhi chiusi, allora perché mi hai fatto posare?”
“No, ecco…”
“Non è male, comunque,” concesse l’altra.
Aram pensò che stesse soltanto cercando di assecondarlo. “Non ti deve piacere per forza,” disse cercando di nascondere il proprio disappunto. Chiuse il taccuino e lo avvolse nel suo involucro impermeabile, quindi lo infilò nella tasca posteriore dei pantaloni e si rimise a sedere.
“No, è bello,” insistette Makasa in tono sempre meno convincente.
“Sei impossibile,” borbottò Aram.
Makasa sorrise, il che lo fece arrabbiare di più. “Moccioso,” lo rimbeccò l’altra.
“Chi, io?”
“Ti deprimi solo perché qualcuno non ti fa un applauso.”
“Nessuno ti ha chiesto un applauso. Sai come si fa, a proposito?”
“Io non faccio applausi. Né a te, né a nessun altro.”
“Peggio per te.” Aram scosse la testa. “Di che cos’è che stavamo parlando?”
“Di quel moccioso del mio fratellino.”
Aram la guardò in cagnesco. Makasa stava ancora sorridendo.
Poco dopo sorrise anche lui.