Suggestioni e visioni: la seconda anteprima de I Cavalieri del Nord

 

Siamo in trepida attesa del vincitore del contest artistico indetto per scegliere la copertina del nuovo romanzo della nostra collana Multipop di Matteo Strukul in uscita a fine ottobre, che annunceremo la prossima settimana, qui sul nostro sito.

 

lavoriincorsoPer ingannare l’attesa, vi offriamo di immergervi nella lettura della seconda anteprima e nelle immagini degli artisti che hanno partecipato al concorso (riguardatele qui, sono bellissime) e in alcuni dei luoghi che hanno ispirato il libro.

Burg_Vishering

Ci eravamo fermati QUI …I LUPI E IL BAMBINO…

Dieci anni prima

Kaspar aveva sentito l’ululato: quel suono cupo, inquietante, intriso d’angoscia. Era rimasto in silenzio facendo ben attenzione a muoversi con cautela, spostando i rami bruni e secchi che formavano un intrico, una rete di sottili stecchi color marrone nel bosco morto.

Prima di quello, gli era parso di aver sentito qualcos’altro.

Magari era semplicemente un’impressione, una suggestione legata al luogo e ai rumori dei pini spazzati dalla brezza notturna.

Nondimeno, era abbastanza certo di voler andare a vedere di cosa si trattasse.

Aveva lasciato il cavallo più indietro. Gli aveva carezzato il muso, consegnando le briglie a un paio di fratelli dell’Ordine.

Stava rientrando al castello, dopo un lungo viaggio, di ritorno da una visita al Vescovo di Brema.

Un incontro in cui la politica aveva di rado ceduto il passo alla Regola, alla disciplina e ai principi. Si annunciavano giorni bui per l’Ordine dei Cavalieri Teutonici. Sua Eminenza aveva ribadito, senza peraltro che ve ne fosse bisogno alcuno, la necessità di ultimare l’opera di evangelizzazione della Livonia. Si era detto favorevole, anzi entusiasta, nell’appoggiare una richiesta di scioglimento dei Cavalieri Portaspada per favorirne l’ingresso come sezione autonoma nell’Ordine dei Teutoni.

Ma quello era un falso problema. Non si trattava di un appoggio ma di un’esortazione implicita a Kaspar al fine di conseguire un obiettivo strategico. I Portaspada erano ridotti allo stremo, compressi fra i Danesi di Valdemaro che puntavano a impossessarsi dell’Estonia da un lato e dai Teutoni, rafforzati dalle vittorie recenti, che erano riusciti a trovare una qualche forma di governo o perlomeno di egemonia sulla Prussia.

Insomma i soliti calcoli politici, questioni che Kaspar doveva affrontare, riferire e con cui alfine fare i conti, ma che di certo non aveva intenzione di coltivare in quel momento per un secondo di più.

Sbuffò.

Si strinse nelle falde del mantello, alzò lo sguardo per vedere i raggi pallidi della luna che filtravano come mercurio liquido attraverso le geometrie sghembe degli aghi verdi.

L’odore acre dei pini si fondeva con quello compatto della neve e con un sentore di paura e presagio che sprofondava, in una cappa di attesa, quel paesaggio invernale.

Udì di nuovo il lupo.

Questa volta l’aria recò l’eco di un ringhio.

Era più vicino, ora. A giudicare dal suono, gli stava giusto andando incontro.

E dove ce n’era uno, potevano essercene altri.

Subito dopo, a conferma della sensazione di qualche minuto prima, mentre la sua mano stringeva l’elsa della spada così forte da far sbiancare le nocche, sentì qualcos’altro.

Un urlo.

Quello di un essere umano.

La voce era sottile, al punto che sarebbe potuta appartenere a un bambino.

Kaspar aumentò il ritmo dei passi e, incurante dei rami spezzati e dei rumori che produceva, si ritrovò ben presto a correre, gettandosi a rotta di collo in direzione di quel che aveva appena sentito.

I rami sottili gli ferivano il viso, spine e aghi e nuvole bianche di neve. Un freddo tagliente gli sferzava i capelli, mentre gli stivali affondavano nel manto candido sotto di lui. Il respiro si fece affannato e il fiato mozzo mentre sbuffi chiari di vapore gli uscivano di bocca per poi salire come colonne impalpabili verso le chiome dei sempreverdi.

Ancora pochi passi, ancora il lupo, fino a quando, quell’intrico di rami, spine, rovi e sterpi non lasciò il passo a una radura.

Attorno ad essa gli alberi formavano una corona e al centro di quel cerchio naturale, Kaspar si ritrovò spettatore della scena più incredibile che mai si sarebbe aspettato di vedere.

Esattamente in mezzo alla radura stava un piccolo ragazzino: magro, coperto di pochi e laceri stracci consunti. Gli occhi azzurri guizzavano come gemme nel suo piccolo volto, scavato dalla fame e dalle privazioni.

Stringeva nella manina un grosso coltello dalla lama lucente.

Ai suoi piedi un lupo, ormai morente, uggiolava, guaiva di dolore, in una lenta agonia per una ferita che gli aveva aperto il petto.

Una ferita mortale.

Di fronte al bimbo, un altro grande lupo grigio stava ringhiando, indeciso se attaccarlo o meno: digrignava le zanne e aveva le labbra alte sulle gengive viola.

Il rauco lamento di morte della fiera non sembrava conoscere fine.

Il bambino era allo stremo delle forze e, a dire il vero, il fatto che fosse ancora vivo aveva, agli occhi di Kaspar, qualcosa di miracoloso.

Perfino di divino.

A suo modo.

La luce della luna piena somigliava a quella di una gigantesca lanterna, in grado di illuminare perfettamente la scena dall’alto.

Fu quando il lupo si avvide del suo arrivo che la situazione cambiò repentinamente. La belva parve sorridere agli occhi di Kaspar. L’uomo non aspettò oltre, estrasse la spada dal fodero, gettandosi contro la bestia con tutta la rabbia che il senso di meraviglia gli aveva infuso. Ma lo scontro non iniziò nemmeno, perché il lupo scartò di lato ben prima di ritrovarsi a dover affrontare l’uomo che, con tanta determinazione, si era scagliato contro di lui.

Scomparve invece, inoltrandosi nel fitto del bosco, lasciando Kaspar senza più nulla da combattere.

E l’uomo si ritrovò di fronte al bambino che, giunto allo stremo delle forze, cadde nella neve.

Si accoccolò sfinito, come se qualsiasi energia lo avesse abbandonato, come se tutto quel resistere lo avesse prosciugato, rendendolo improvvisamente senza peso e privo di volontà.

Kaspar abbandonò la spada che scivolò al suolo, e si avvicinò a lui.

Lo prese fra le braccia.

Lo fece con delicatezza, perché quelle ossa sottili, sotto gli stracci consunti parevano doversi sbriciolare da un momento all’altro. Sentì il bimbo che gli si aggrappava con le poche forze rimaste.

Lui rimase lì, sorridendo, nel bianco – azzurro di quella radura bagnata dalla luna.

Guardò il ragazzino ormai incosciente e spento.

Poi fissò il lupo ai suoi piedi.

Lo avrebbe chiamato Wolf, pensò.

 

LA PIAZZA

Sibiu

La piazza di Izborsk risuonava di voci e armi.

Wolf si era alzato in piedi e aveva abbandonato il pozzo, raggiungendo i fratelli dell’Ordine.

– Non è possibile – tuonava Kaspar – dobbiamo fermarli o ci penserò io a costo di farli a pezzi uno dopo l’altro. Stanno radendo al suolo questa città! Stanno umiliando coloro che si sono arresi, e stuprando le loro donne.

Poi girò uno sguardo carico di fuoco verso un luogotenente dei Danesi.

– Questo massacro deve terminare ora! Dite ai vostri uomini di riunire i vinti. Non deve essere torto un altro capello o altrimenti dovrete misurarvi con la mia ira. E giuro fin d’ora che impiccherò chiunque verrà riconosciuto colpevole di saccheggio, stupro o furto. Sono stato chiaro?

Il soldato si lasciò andare a un sorriso sghembo.

– Avete sentito? E aggiungo che tutto questo avverrà per ordine mio, difensore supremo della fede in Cristo! – rincarò Poppo, Landmeister prussiano dei Teutoni.

Il Danese rise sguaiatamente, e sputò sulla neve ai suoi piedi.

Kaspar non attese oltre. Wolf lo vide sguainare la spada e, roteandola nell’aria, puntarla dritta alla gola dell’uomo.

Quello ruggì fiele.

– Va bene – ringhiò in un tedesco mal masticato.

Dopo di che, sgranando imprecazioni e alzando nuvole di nevischio a ogni passo intimò ai suoi di passar parola.

Che si fermasse il saccheggio.

– Già – disse l’Abate Bederke – ma dobbiamo fare meglio di così, non trovate mio Landmeister?

Poppo si grattò la barba rossastra, lunga una spanna. Non si fece pregare.

– Certo, abate!

Si grattò la gola, con un colpo di tosse che terminò in un raschiare crudo di catarro ribollente.

– Harlan, Franz! Rainar, Eberhard!

Nell’udire i loro nomi, quattro cavalieri emersero dalle schiere di Teutoni che si stavano ricomponendo al centro della Piazza.

– Sì, Landmeister – risposero quasi all’unisono.

– Prendete due uomini ciascuno e rastrellate il villaggio. E poi portate con voi almeno un Danese. Verificate che cessi il saccheggio e rammentate a chi dovesse opporsi che in caso contrario dovrà vedersela con l’Ordine Teutonico e con me in persona!

– Molto bene – rispose Harlan von Franken, uno dei cavalieri più attenti e zelanti dell’intero contingente.

– Ora andate e riferitemi quanto prima. Il lavoro qui è appena cominciato.

I quattro partirono con tre compagni ciascuno.

Un Danese ogni tre Teutonici.

Fu una diaspora.

Ogni squadra s’incamminò, rapida e celere, in una direzione diversa.

Nord.

Sud.

Ovest.

Est.

L’abate Anton Bederke prese la parola.

– Molto bene, signori, Izborsk è caduta – sottolineò – ora dovremo trovare il modo di farla risorgere sotto il segno della Croce e di Dio.

Nel dire questo, l’abate raggiunse, senza ulteriore indugio, il centro della piazza. Poi, con voce forte e ben modulata, impensabile a prima vista in un uomo magro e delicato com’era lui, formulò un discorso.

– Siate benedetti difensori di Dio! Siate benedetti guerrieri della Croce! Siate benedetti Cavalieri Teutonici e Portaspada. Scenda sulla vostra impresa di oggi la Parola di nostro Signore Gesù Cristo.

E mentre così parlava, i cavalieri nella piazza misero il ginocchio al suolo e, togliendosi gli elmi normanni, chinarono il capo.

Wolf fece proprio come tutti gli altri, rimanendo in silenzio nella piazza coperta dalla neve che aveva ricominciato a cadere in fiocchi grandi e spessi. Ascoltò con attenzione le parole dell’abate.

– Pentitevi ora dei vostri peccati, guerrieri di Cristo. Ma ricordate: Deus vult! Questa missione nel nord, alla fine del mondo, ha uno scopo ben preciso ed è benedetta da Dio, nostro Signore. Poiché oggi noi non combattiamo in nome dell’avidità o del saccheggio, della conquista o delle ricchezze terrene. Noi vogliamo restituire a questi popoli la voce e il credo di Dio. Noi vogliamo un mondo migliore, costruito nel segno della Sua infinita bontà. Celebriamo dunque la vittoria di oggi, ma facciamolo con la disciplina e la gratitudine, con il valore e la preghiera. Poiché è solo nella povertà e nel rigore, nell’impegno e nella dedizione che Dio si manifesta e, così facendo, rende l’uomo che lo serve ancor più glorioso e nobile.

La voce dell’abate era forte e netta.

Si arrampicava alta e tesa sui fiocchi bianchi che roteavano nel cielo. Dominava quel silenzio assoluto in cui i cavalieri erano sprofondati.

Wolf la ascoltava, mandando a memoria ogni parola. Eppure faceva fatica a capire. Guardava di sottecchi le espressioni dei Teutoni. Li spiava fra le ciglia come quando, da bimbo, faceva nella grande cappella del castello dell’Ordine, nel Nord della Prussia, a Chelmno. Ascoltava le parole del sacerdote e rimaneva in attesa che terminasse l’Eucarestia e venisse il momento di poter avere il corpo di Cristo.

Quell’abitudine, gli era dunque rimasta.

Vide i volti concentrati. Gli occhi chiusi, assaporò il silenzio in cui l’abate aveva lasciato i cavalieri.

Poi Bederke concluse il suo discorso.

– Grande è dunque la gloria di Dio e grande il premio per tutti coloro che ne difendono la parola con la propria vita. E ora in piedi, fratelli. Sorgete come un sol uomo e trovate riposo, prima di ripartire all’indomani per portare il verbo di Cristo in queste terre del Nord! Sia fatta la volontà di Dio.

I cavalieri tornarono in piedi.

– Dio lo vuole – risposero in un’unica, grande, potente voce.

BURZENLAND

Schermata-2015-06-15-alle-20.21.09-690x282

Kaspar entrò nella tenda del Landmeister. Dopo la conquista di Izborsk, i Teutoni avrebbero lasciato un piccolo contingente a guardia della città ma se ne sarebbero ben presto ripartiti alla volta di Pskov. L’arredamento degli alloggi del Landmeister era quasi inesistente. Un giaciglio per riposare. Una brocca per lavare il viso al mattino. Un paio di panche attorno a un tavolo in legno, per le riunioni, che fungeva altresì da altare quando quella stessa ampia tenda semivuota veniva utilizzata per la celebrazione delle sante messe.

Poppo lo aspettava, seduto al tavolo. Teneva in mano una caraffa e versava acqua cristallina nei bicchieri di legno davanti a lui. Con l’altra si torturava nervosamente la barba rossiccia, talmente lunga da terminare in due punte aguzze. I capelli, tagliati corti, erano una nuvola infuocata e ribelle che incorniciava un volto dai tratti marcati. L’energia, in lui, pareva fluire sotto la pelle, in fiammeggianti lingue di metallo fuso.

Mentre Kaspar prendeva posto, Poppo trasse un respiro profondo. Sembrava angustiato da una preoccupazione cieca e ingovernabile ed era evidente che voleva, a tutti i costi, liberarsi di quel peso, peggio, di quel tormento che gli increspava il volto in una mappa di rughe e cicatrici che raccontavano i mille scontri ai quali aveva partecipato.

Il Landmeister di Prussia guardò Kaspar dritto negli occhi, aspettando che si sedesse.

Poi parlò.

– Fratello mio, ti voglio ringraziare per la grande giornata che ci hai regalato oggi. Il tuo valore e la tua abilità ci hanno permesso di conquistare la vittoria.

Kaspar fece un cenno con la mano quasi a schermirsi, e del resto nessuna vittoria sarebbe mai stata possibile senza il contributo di tutti.

Ma a Poppo non bastava ancora.

– Quel ragazzo sta diventando un vero Teutone, l’ho visto oggi come si batteva, si è fatto onore.

– Impara in fretta.

– Già.

– Vieni al punto, Poppo… perché mi hai fatto chiamare? Non certo per dirmi che Wolf è diventato un ottimo cavaliere perché ti dico che questo lo so già! E, allo stesso tempo, non ho intenzione di abboccare a questi tuoi panegirici.

Il Landmeister sbuffò: era stanco e aveva il cuore grave per lo sconforto che gli derivava da quanto stava per dire. Perciò si decise: non nascose quel dolore, lo manifestò apertamente, in modo sincero.

– Fratello mio, mi duole annunciare che sto per chiederti una prova suprema. D’altra parte, a chi, se non a te, posso domandare di portare a compimento una simile missione? A chi se non al migliore fra noi?

Kaspar l’aveva capito fin dall’inizio che c’era qualcosa che non andava. Provò a darci un taglio.

– Vieni al punto – disse – non farla più lunga di com’è.

– Hai perfettamente ragione – rispose il Landmeister di Prussia – vengo dunque al punto.

Afferrò il bicchiere in legno e bevve.

– Hai mai sentito parlare del Burzenland? La terra oltre le foreste? La Transilvania?

Kaspar annuì. Non riuscì a evitare di tradire un lampo di preoccupazione negli occhi. Quel nome gli metteva i brividi. Solo vent’anni prima, grazie all’accordo fra il Gran Maestro Hermann von Salza e Andrea II, re d’Ungheria, i Cavalieri Teutonici avevano avuto in gestione quelle terre, mettendo in fuga le ostili popolazioni barbare dei Cumani e costruendo ben quattro castelli attorno alla città fortificata di Kronstadt. Ma, profittando della partenza di re Andrea per la Guerra Santa, i Teutoni avevano poi piegato altre terre, giungendo fin quasi al Mar Nero. I nobili ungheresi, stremati dai costi della crociata, non avevano visto di buon occhio quell’espansione e avevano ancor peggio sopportato che lo Stato Pontificio avocasse a sé il Burzenland a protezione dei Teutonici. Ne era nata una guerra sanguinaria che aveva ricacciato indietro i Cavalieri dell’Ordine, ora asserragliati a Dietrichstein. Perciò quell’unico castello, in legno e pietra, si trovava in quel momento stretto in una morsa: da un lato gli Ungheresi, dall’altro i Cumani.

E ora Poppo stava per chiedergli di andare a difendere l’ultimo baluardo della Cristianità nel Burzenland.

Perché era questo il senso dell’incontro, Kaspar lo sapeva fin troppo bene.

– Come certamente saprai, il Burzenland rappresenta per noi un territorio strategico, conquistato con le unghie e con i denti, e che permette allo Stato Pontificio di avere le chiavi della porta del Sud e dell’Oriente.

– Naturalmente.

– Ebbene quelle terre selvagge, è il caso di dirlo, si sono improvvisamente risvegliate dal torpore in cui le aveva sprofondate la nostra evangelizzazione. I Principi si sono ribellati, hanno stretto patti scellerati con le popolazioni infedeli e, come se non bastasse, gira voce che un Negromante stia guidando un’orda di Cumani assetati di sangue.

– Conosco le vicende che hanno portato alla rivolta.

– Tanto meglio, allora, inutile dirti che non sono tanto quei quattro nobilastri ungheresi guidati dall’altrettanto imbelle re Bela a darci fastidio, quanto piuttosto l’orda infedele.

I Cumani: il loro nome era leggendario. Tribù barbare e sanguinarie che non seguivano alcun tipo di legge se non quella della neve e del ferro. Contrari al Cristianesimo della Croce, stavano devastando il Burzenland almeno quanto l’Orda d’Oro dei Mongoli che da Nord era scesa come un’Apocalisse a Sud. Nomadi, senza casa, capaci di viaggiare per giorni interi senz’acqua né cibo, erano perfino in grado di nutrirsi bevendo il sangue del proprio cavallo. Ne incidevano la vena con la lama di un coltello. Si diceva indossassero maschere terrificanti in battaglia e adorassero Dei con forme e sembianze di animali mostruosi e deformi.

Ma probabilmente erano solo leggende.

– Il castello di Dietrichstein – continuò Poppo – nostra piazzaforte e centro nevralgico della forza Teutonica nel Burzenland deve essere assolutamente conservato e risparmiato alla furia del nemico. Dietrichstein è un simbolo, una croce conficcata nel ventre molle dell’abominio.

– Vuoi che vada lì? – Kaspar decise di stringere i tempi, tutte quelle premesse lo stavano infastidendo.

Poppo lo guardò con i neri occhi fiammeggianti.

– Sì – disse.

– Posso chiederti perché io e perché proprio noi che ci troviamo così a Nord e lontani dal Burzenland?

Poppo fece un altro respiro profondo, poi parlò come se dovesse liberarsi definitivamente di quella confessione, tenuta nella gola per troppi giorni.

– Perché sei il migliore fra noi e anche perché… non saprei chi altri mandare. Vedi, Kaspar, io devo comandare l’Ordine contro la Rus. Dobbiamo procedere senza indugio fino a Pskov e da lì arrivare a Novgorod, la città più potente della Rus. Dobbiamo assediarla e farla cadere. Non è una mia scelta: è quel che vuole il Papa e dunque l’Hochmeister. La Prussia, peraltro, è un calderone pronto a ribollire da un momento all’altro e non posso spostare più uomini di quanto non abbia già fatto. Io stesso l’ho dovuta lasciare nelle mani del Vicario. Perciò, vedi, ho le mani legate.

– Lo capisco, Poppo. E accetto l’incarico. Mai per un istante ho pensato di fare il contrario.

Poppo lo abbracciò.

– Grazie, Fratello mio, speravo che capissi la gravità della situazione. Non sarai solo naturalmente! Verranno con te altri settanta uomini. Con voi avrete l’abate Bederke. Una guida spirituale vi sarà tanto più preziosa in un viaggio verso l’ignoto com’è questo.

– Grazie per l’incoraggiamento: principi ostili, barbari, infedeli e perfino un Negromante, ci sarà da divertirsi, eh? – sputò fuori Kaspar – sai proprio come convincermi.

– Non volevo che le mie parole risultassero minacciose.

– Be’ anche se non volevi, così suonano alle mie orecchie – e mentre parlava, Kaspar si lasciò scappare un mezzo sorriso. Tanto valeva prenderla nel migliore dei modi.

– Bene, dunque, è deciso. Partirete domattina.

– Porterò con me Wolf.

– Naturalmente. Dirò a Harald Von Hoffman di unirsi a te in questa missione. Ha un carattere ruvido e nervoso ma è duro come un lupo grigio e i suoi fedelissimi hanno spade affilate che sanno maneggiare dannatamente bene.

– Non chiedo di meglio.

– Come dicevo, l’abate Anton Bederke verrà con voi. Sa perfettamente badare a se stesso, non vi sarà di peso, e di certo allevierà i tormenti dello spirito.

– E potrà officiare la Santa Messa. Credo ne avremo bisogno.

– Va bene dunque. Tenete Dietrichstein e vincete in nome di Dio.

– Lo farò.

– Ne sono felice. A questo proposito mi sono permesso di inviare esploratori e messi per annunciare il vostro arrivo alla guarnigione.

Kaspar alzò un sopracciglio – Dunque hai proceduto ancora prima di sapere se avrei accettato?

Poppo si schiarì la gola con una punta d’imbarazzo.

– Be’, qualcuno avrebbe dovuto andarci comunque, quindi ho preferito accorciare i tempi.

Kaspar ci pensò su. E concluse che alla fine era meglio così.

– Va bene – disse – Dopo tutto… Almeno saremo attesi!

Così dicendo, bevve l’acqua pura dal bicchiere.

Quindi si alzò.

Era tempo. Il pomeriggio era già del colore dell’inchiostro in quel dannato fine settembre del Nord e molti erano i preparativi da fare.

Sarebbero partiti alle prime luci dell’alba, diretti verso un luogo di cui avevano sentito parlare da alcuni dei fratelli, ma che non conoscevano affatto. E per raggiungere quella landa dimenticata da Dio avrebbero dovuto affrontare un viaggio di centinaia di leghe attraversando i territori della Livonia, poi il Ducato di Lituania, quindi Masovia, Volinia e Galizia fino a entrare nel regno d’Ungheria.

Infine, il Burzenland.

Era una follia solo a pensarci. Nessuna garanzia di riuscita e le speranze ridotte a poco più che alla luce di una candela, ma avrebbe dovuto farsela bastare, quella luce. Si sarebbe appellato ai cardini della Regola e avrebbe cavalcato con gli altri, ventre a terra: tanto brevior quanto coactior pensò fra sé e sé. In fin dei conti, cosa volere di più? Che altro ci poteva mai essere di altrettanto foriero di gloria rispetto a quel viaggio impossibile? E per andare ad affrontare un branco d’infedeli, per giunta? E non erano forse la gloria e il sacrificio due di quelle virtù per le quali valeva la pena vivere e dunque morire?

Perciò, come era solito rispondersi in quei momenti in cui le missioni parevano di gran lunga superare qualsiasi ipotesi di buon senso e raziocinio, Kaspar pronunciò sottovoce le due parole che sempre lo guidavano, financo nella notte più buia e tenebrosa.

Deus vult – disse fra sé e sé.

Dopo di che salutò Poppo.

Uscì e s’incamminò verso la propria tenda.

Kaspar entrò nella tenda del Landmeister. Dopo la conquista di Izborsk, i Teutoni avrebbero lasciato un piccolo contingente a guardia della città ma se ne sarebbero ben presto ripartiti alla volta di Pskov. L’arredamento degli alloggi del Landmeister era quasi inesistente. Un giaciglio per riposare. Una brocca per lavare il viso al mattino. Un paio di panche attorno a un tavolo in legno, per le riunioni, che fungeva altresì da altare quando quella stessa ampia tenda semivuota veniva utilizzata per la celebrazione delle sante messe.

Poppo lo aspettava, seduto al tavolo. Teneva in mano una caraffa e versava acqua cristallina nei bicchieri di legno davanti a lui. Con l’altra si torturava nervosamente la barba rossiccia, talmente lunga da terminare in due punte aguzze. I capelli, tagliati corti, erano una nuvola infuocata e ribelle che incorniciava un volto dai tratti marcati. L’energia, in lui, pareva fluire sotto la pelle, in fiammeggianti lingue di metallo fuso.

Mentre Kaspar prendeva posto, Poppo trasse un respiro profondo. Sembrava angustiato da una preoccupazione cieca e ingovernabile ed era evidente che voleva, a tutti i costi, liberarsi di quel peso, peggio, di quel tormento che gli increspava il volto in una mappa di rughe e cicatrici che raccontavano i mille scontri ai quali aveva partecipato.

Il Landmeister di Prussia guardò Kaspar dritto negli occhi, aspettando che si sedesse.

Poi parlò.

– Fratello mio, ti voglio ringraziare per la grande giornata che ci hai regalato oggi. Il tuo valore e la tua abilità ci hanno permesso di conquistare la vittoria.

Kaspar fece un cenno con la mano quasi a schermirsi, e del resto nessuna vittoria sarebbe mai stata possibile senza il contributo di tutti.

Ma a Poppo non bastava ancora.

– Quel ragazzo sta diventando un vero Teutone, l’ho visto oggi come si batteva, si è fatto onore.

– Impara in fretta.

– Già.

– Vieni al punto, Poppo… perché mi hai fatto chiamare? Non certo per dirmi che Wolf è diventato un ottimo cavaliere perché ti dico che questo lo so già! E, allo stesso tempo, non ho intenzione di abboccare a questi tuoi panegirici.

Il Landmeister sbuffò: era stanco e aveva il cuore grave per lo sconforto che gli derivava da quanto stava per dire. Perciò si decise: non nascose quel dolore, lo manifestò apertamente, in modo sincero.

– Fratello mio, mi duole annunciare che sto per chiederti una prova suprema. D’altra parte, a chi, se non a te, posso domandare di portare a compimento una simile missione? A chi se non al migliore fra noi?

Kaspar l’aveva capito fin dall’inizio che c’era qualcosa che non andava. Provò a darci un taglio.

– Vieni al punto – disse – non farla più lunga di com’è.

– Hai perfettamente ragione – rispose il Landmeister di Prussia – vengo dunque al punto.

Afferrò il bicchiere in legno e bevve.

– Hai mai sentito parlare del Burzenland? La terra oltre le foreste? La Transilvania?

Kaspar annuì. Non riuscì a evitare di tradire un lampo di preoccupazione negli occhi. Quel nome gli metteva i brividi. Solo vent’anni prima, grazie all’accordo fra il Gran Maestro Hermann von Salza e Andrea II, re d’Ungheria, i Cavalieri Teutonici avevano avuto in gestione quelle terre, mettendo in fuga le ostili popolazioni barbare dei Cumani e costruendo ben quattro castelli attorno alla città fortificata di Kronstadt. Ma, profittando della partenza di re Andrea per la Guerra Santa, i Teutoni avevano poi piegato altre terre, giungendo fin quasi al Mar Nero. I nobili ungheresi, stremati dai costi della crociata, non avevano visto di buon occhio quell’espansione e avevano ancor peggio sopportato che lo Stato Pontificio avocasse a sé il Burzenland a protezione dei Teutonici. Ne era nata una guerra sanguinaria che aveva ricacciato indietro i Cavalieri dell’Ordine, ora asserragliati a Dietrichstein. Perciò quell’unico castello, in legno e pietra, si trovava in quel momento stretto in una morsa: da un lato gli Ungheresi, dall’altro i Cumani.

E ora Poppo stava per chiedergli di andare a difendere l’ultimo baluardo della Cristianità nel Burzenland.

Perché era questo il senso dell’incontro, Kaspar lo sapeva fin troppo bene.

– Come certamente saprai, il Burzenland rappresenta per noi un territorio strategico, conquistato con le unghie e con i denti, e che permette allo Stato Pontificio di avere le chiavi della porta del Sud e dell’Oriente.

– Naturalmente.

– Ebbene quelle terre selvagge, è il caso di dirlo, si sono improvvisamente risvegliate dal torpore in cui le aveva sprofondate la nostra evangelizzazione. I Principi si sono ribellati, hanno stretto patti scellerati con le popolazioni infedeli e, come se non bastasse, gira voce che un Negromante stia guidando un’orda di Cumani assetati di sangue.

– Conosco le vicende che hanno portato alla rivolta.

– Tanto meglio, allora, inutile dirti che non sono tanto quei quattro nobilastri ungheresi guidati dall’altrettanto imbelle re Bela a darci fastidio, quanto piuttosto l’orda infedele.

I Cumani: il loro nome era leggendario. Tribù barbare e sanguinarie che non seguivano alcun tipo di legge se non quella della neve e del ferro. Contrari al Cristianesimo della Croce, stavano devastando il Burzenland almeno quanto l’Orda d’Oro dei Mongoli che da Nord era scesa come un’Apocalisse a Sud. Nomadi, senza casa, capaci di viaggiare per giorni interi senz’acqua né cibo, erano perfino in grado di nutrirsi bevendo il sangue del proprio cavallo. Ne incidevano la vena con la lama di un coltello. Si diceva indossassero maschere terrificanti in battaglia e adorassero Dei con forme e sembianze di animali mostruosi e deformi.

Ma probabilmente erano solo leggende.

– Il castello di Dietrichstein – continuò Poppo – nostra piazzaforte e centro nevralgico della forza Teutonica nel Burzenland deve essere assolutamente conservato e risparmiato alla furia del nemico. Dietrichstein è un simbolo, una croce conficcata nel ventre molle dell’abominio.

– Vuoi che vada lì? – Kaspar decise di stringere i tempi, tutte quelle premesse lo stavano infastidendo.

Poppo lo guardò con i neri occhi fiammeggianti.

– Sì – disse.

– Posso chiederti perché io e perché proprio noi che ci troviamo così a Nord e lontani dal Burzenland?

Poppo fece un altro respiro profondo, poi parlò come se dovesse liberarsi definitivamente di quella confessione, tenuta nella gola per troppi giorni.

– Perché sei il migliore fra noi e anche perché… non saprei chi altri mandare. Vedi, Kaspar, io devo comandare l’Ordine contro la Rus. Dobbiamo procedere senza indugio fino a Pskov e da lì arrivare a Novgorod, la città più potente della Rus. Dobbiamo assediarla e farla cadere. Non è una mia scelta: è quel che vuole il Papa e dunque l’Hochmeister. La Prussia, peraltro, è un calderone pronto a ribollire da un momento all’altro e non posso spostare più uomini di quanto non abbia già fatto. Io stesso l’ho dovuta lasciare nelle mani del Vicario. Perciò, vedi, ho le mani legate.

– Lo capisco, Poppo. E accetto l’incarico. Mai per un istante ho pensato di fare il contrario.

Poppo lo abbracciò.

– Grazie, Fratello mio, speravo che capissi la gravità della situazione. Non sarai solo naturalmente! Verranno con te altri settanta uomini. Con voi avrete l’abate Bederke. Una guida spirituale vi sarà tanto più preziosa in un viaggio verso l’ignoto com’è questo.

– Grazie per l’incoraggiamento: principi ostili, barbari, infedeli e perfino un Negromante, ci sarà da divertirsi, eh? – sputò fuori Kaspar – sai proprio come convincermi.

– Non volevo che le mie parole risultassero minacciose.

– Be’ anche se non volevi, così suonano alle mie orecchie – e mentre parlava, Kaspar si lasciò scappare un mezzo sorriso. Tanto valeva prenderla nel migliore dei modi.

– Bene, dunque, è deciso. Partirete domattina.

– Porterò con me Wolf.

– Naturalmente. Dirò a Harald Von Hoffman di unirsi a te in questa missione. Ha un carattere ruvido e nervoso ma è duro come un lupo grigio e i suoi fedelissimi hanno spade affilate che sanno maneggiare dannatamente bene.

– Non chiedo di meglio.

– Come dicevo, l’abate Anton Bederke verrà con voi. Sa perfettamente badare a se stesso, non vi sarà di peso, e di certo allevierà i tormenti dello spirito.

– E potrà officiare la Santa Messa. Credo ne avremo bisogno.

– Va bene dunque. Tenete Dietrichstein e vincete in nome di Dio.

– Lo farò.

– Ne sono felice. A questo proposito mi sono permesso di inviare esploratori e messi per annunciare il vostro arrivo alla guarnigione.

Kaspar alzò un sopracciglio – Dunque hai proceduto ancora prima di sapere se avrei accettato?

Poppo si schiarì la gola con una punta d’imbarazzo.

– Be’, qualcuno avrebbe dovuto andarci comunque, quindi ho preferito accorciare i tempi.

Kaspar ci pensò su. E concluse che alla fine era meglio così.

– Va bene – disse – Dopo tutto… Almeno saremo attesi!

Così dicendo, bevve l’acqua pura dal bicchiere.

Quindi si alzò.

Era tempo. Il pomeriggio era già del colore dell’inchiostro in quel dannato fine settembre del Nord e molti erano i preparativi da fare.

Sarebbero partiti alle prime luci dell’alba, diretti verso un luogo di cui avevano sentito parlare da alcuni dei fratelli, ma che non conoscevano affatto. E per raggiungere quella landa dimenticata da Dio avrebbero dovuto affrontare un viaggio di centinaia di leghe attraversando i territori della Livonia, poi il Ducato di Lituania, quindi Masovia, Volinia e Galizia fino a entrare nel regno d’Ungheria.

Infine, il Burzenland.

Era una follia solo a pensarci. Nessuna garanzia di riuscita e le speranze ridotte a poco più che alla luce di una candela, ma avrebbe dovuto farsela bastare, quella luce. Si sarebbe appellato ai cardini della Regola e avrebbe cavalcato con gli altri, ventre a terra: tanto brevior quanto coactior pensò fra sé e sé. In fin dei conti, cosa volere di più? Che altro ci poteva mai essere di altrettanto foriero di gloria rispetto a quel viaggio impossibile? E per andare ad affrontare un branco d’infedeli, per giunta? E non erano forse la gloria e il sacrificio due di quelle virtù per le quali valeva la pena vivere e dunque morire?

Perciò, come era solito rispondersi in quei momenti in cui le missioni parevano di gran lunga superare qualsiasi ipotesi di buon senso e raziocinio, Kaspar pronunciò sottovoce le due parole che sempre lo guidavano, financo nella notte più buia e tenebrosa.

Deus vult – disse fra sé e sé.

Dopo di che salutò Poppo.

Uscì e s’incamminò verso la propria tenda.

CONTINUA…