Tomorrow War: Dal Diario di Max, Parte 3
In questo terzo estratto di Tomorrow War, il protagonista Max [SEGRETATO] inizia una nuova fase del suo addestramento, che lo porterà a diventare un perfetto agente sotto copertura. Il suo Paese gli affiderà ben presto una missione fondamentale... una missione che segnerà la fine del mondo così come lo conosciamo...
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Decisamente, la realtà è diversa dal cinema. Mi trovo qui da due settimane, ho fallito il primo test alla macchina della verità e ho avuto il piacere di finire per ben due volte dallo strizzacervelli della base. Ho superato il test del poligrafo al secondo tentativo, ma mi è stato detto che la maggior parte dei candidati non ci riesce prima del terzo. Quello che i capoccia non sanno è che ho mentito spudoratamente in entrambe le occasioni.
Non mi sono lasciato ingannare dalla merdosa tuta dell’incaricato o dal fatto che la sua sedia fosse più alta della mia. Non ero neanche intimidito. Ho giocato sporco con le domande di controllo, scompigliando da subito le sue linee guida. Durante il primo test, ho cercato gli elementi di debolezza. Nel secondo, li ho sfruttati. L’addetto si vantava del suo diploma conseguito con successo a Fort McClellan, ma per me non faceva alcuna differenza.
Avere la meglio su un poligrafo non è troppo difficile, se non sei un coglione e non cerchi di fregare quell’ammasso di latta stringendo le chiappe o infilandoti una puntina in una scarpa. Quelle sono leggende metropolitane che funzionano solo nei romanzi spionistici di mezza tacca. L’esaminatore è addestrato a individuare qualsiasi stratagemma idiota, mentre le moderne sedie da poligrafo incorporano sensori a pressione che rilevano ogni minima tensione del corpo durante gli interrogatori.
Qual è l’unico, vero segreto per ingannare una macchina della verità? Partire dal presupposto che non funzioni. Il test è efficace solo se il soggetto crede nella tecnologia che lo sta valutando, e l’esaminatore sa perfettamente come instillare un infondato senso di fiducia. Chi è convinto che il test sia una pura e semplice stronzata e resta saldo nelle sue convinzioni è senza dubbio destinato a superarlo. Prima o poi.
Ci alleniamo in gruppo ogni mattina, e alcuni di noi corrono a una velocità da far spavento. Io non sono una scheggia, ma riesco comunque a non finire tra le schiappe. Tra qualche giorno, a quanto pare, l’addestramento proseguirà in un luogo che tutti chiamano il “Point”. La nostra squadra conta diversi agenti reclutatori, ma io so di trovarmi qui per altre ragioni. I reclutatori ricevono puntualmente istruzioni diverse dalle mie. Imparano ad allestire reti di rapporti e a sviluppare il potenziale degli operativi. Trascorrono ore nei laboratori di conversazione, tentando di apprendere la sacra arte dell’eloquio, anche se temo che talenti del genere non si imparino a scuola. Qui non ci sono orologi laser o Walther PPK. Molti dei reclutatori strapperanno il loro diplomino e faranno tappa nel Nord Virginia per incontrare e salutare gli analisti, prima di finire a sgobbare in qualche noiosa e merdosissima buca nel deserto. Le mie sono solo supposizioni, ovvio, ma si basano sul fatto che quei tizi si addestrano spesso dialogando in arabo o in farsi. L’ho sentito con le mie orecchie, e immagino che essere cresciuto con dei nonni siriani mi assicuri una degna credibilità in materia.
Sebbene i miei compagni, come me, provengano dalla SERE o da istituti superiori, questo posto ha diverse cose da insegnarci. Rispetto alle tecniche di resistenza avanzata che abbiamo imparato qui, le torture nel Maine o nello stato di Washington sembrano l’ora della nanna all’asilo.
Sulla mia pelle non resteranno cicatrici permanenti, ma non dimenticherò mai le atrocità a cui ho dovuto assistere.Due allievi si sono già ritirati dal programma, hanno firmato un accordo di segretezza e sono tornati alle loro vecchie vite.
Io sono figlio unico e ho perso i genitori, ma i miei familiari continuano a fare domande e i superiori mi hanno assegnato una buona copertura. Non sono autorizzato a rivelare per chi lavoro realmente. Sin da quando mi trovavo a Spokane, ho l’ordine di raccontare a chi mi conosce che opero al Dipartimento di Stato come cartografo governativo dell’Agenzia Nazionale Geospaziale. Per rendere la storia più autentica, ho persino passato un mese in una scuola dell’ArcGIS, così da poter discutere di mappature digitali con cognizione di causa. I contatti d’emergenza che ho fornito alla mia famiglia fanno capo a un centralino che gira qualsiasi messaggio a un rappresentante dell’ANG. Mi sono attenuto alle regole di copertura con un rigore religioso, fingendo di vivere un’esistenza ai limiti della normalità. Detesto l’idea di mentire a mia zia. Ho sempre visto in lei una figura di riferimento, in particolare dopo la morte di mia madre.
Da quando lei non c’è più, la vecchia casa che mi ha lasciato in eredità mi sembra quasi un luogo estraneo. Se voglio rievocare il passato e cullarmi nella nostalgia, preferisco passare una notte da mia zia. Dopotutto, sono cresciuto lì, circondato da cugini che ho sempre considerato dei fratelli.
Quando l’addestramento si fa ostico o troppo intenso, penso sempre a loro per rilassare i nervi.
Il concetto più interessante che ho imparato in queste due settimane non è il come, ma il quando uccidere.
Devo ammettere che l’argomento mi ha colto totalmente impreparato. Voglio dire... Quale persona normale valuterebbe la questione in questi termini? Mi sono preso diverse pallottole da simulazione in pieno petto prima di iniziare a cogliere gli indizi visivi, ovvero i tratti delle espressioni facciali da cui emergeva distintamente che il contatto non era lì per fare due chiacchiere. Dopo quattro sessioni nella sala di addestramento, ho cominciato a notarli con chiarezza. I tic nervosi e alcuni intercalare durante le negoziazioni rivelavano che la persona dall’altra parte del tavolo stava per crivellarmi di simunition.
Alla quinta sessione, il mio torace non si è tinto di blu: per una volta è stata la mia Glock 19 a rovesciare una bella scarica di vernice sull’istruttore. Progredendo nel corso, sono entrati in scena insegnanti diversi e molto più esperti. Potevano fingersi nemici o risorse tanto preziose quanto innocue. A volte mi hanno sparato, altre volte sono stato io ad aprire il fuoco.
Dopo trenta sessioni nel giro di due giorni, i responsabili hanno decretato la fine di quella specifica fase del programma.
Mentre mi avviavo verso l’uscita della struttura, ho incrociato l’Istruttore 5 nel corridoio. Lui mi ha rivolto un cenno impercettibile e io gli ho stampato tre proiettili in pieno petto senza neanche pensarci.
In quel momento, ho pensato che fosse finita. Mi sentivo già espulso dalla scuola.
L’Istruttore 5 ha ripreso fiato, si è avvicinato a me e ha allungato la mano, il torace ancora coperto di vernice.
“Ottimo lavoro, hai superato la prova finale. Molti dei miei amici sono morti per un attimo di esitazione. Fidati del tuo istinto e spara al primo segno di minaccia. Penseremo noi a spedire i fiori alle famiglie delle vittime”.
Dopo aver restituito alla mia Glock la letalità dei proiettili a punta cava da nove millimetri, ho lasciato il caricatore vuoto per una settimana, fino a quando non sono riuscito a controllare senza alcun margine di errore il riflesso che mi spingeva a neutralizzare i miei istruttori.
Tomorrow War: Dal Diario di Max, Parte 2
Un nuovo estratto in anteprima di Tomorrow War, il nuovo romanzo di J. L. Bourne!
In queste righe del suo diario il nostro protagonista Max [SEGRETATO] ci racconta la fine dei suoi studi... naturalmente a Spokane le lezioni sono molto particolari!
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La scuola ufficiali non ha risparmiato neanche me. Nel corso del mio breve soggiorno a Spokane, anch’io ho sperimentato gli orrori della “cisterna” in tre (o forse quattro?) diverse occasioni.
“Prendi un respiro e trattieni l’aria nei polmoni”, mi ripetevo più e più volte quando mi strappavano di testa quel sacco maleodorante e chiazzato di muco. La prima volta che mi hanno tolto il cappuccio, mi sono ritrovato in piedi sotto un’intensa luce di riflettori. Seduto al tavolo di fronte a me c’era un uomo corpulento, che reggeva un vassoio metallico pieno di siringhe sistemate su un sottile strato di sale. Ho cercato di distogliere lo sguardo, ma è stato più forte di me. Continuavo a fissarle come in trance. Riuscivo a scorgere persino le minuscole bollicine che vorticavano in danze irripetibili all’interno di ogni siringa.
“Siediti”, mi ha ordinato l’uomo con voce severa.
Ho obbedito all’istante, fingendo di non notare che stava preparando una delle siringhe. Ha dato un colpetto d’unghia sul cilindro e ha spruzzato in aria uno zampillo di liquido color piscio. Mi è sembrato di vederlo volare al rallentatore.
Ha disegnato una parabola che si è infranta sul mio stivale marrone, ricoprendo il cuoio di piccole macchie scure.
“Sai cos’è questo?”, mi ha chiesto l’interrogatore.
“No”, ho risposto.
“Tiopental sodico, meglio noto come Pentothal o siero della verità. Sappiamo già che sei una spia... Vogliamo solo renderlo ufficiale”.
Si è alzato in piedi e si è avvicinato a me. Ho chiuso gli occhi in attesa dell’impatto, ma non è successo nulla. Quando mi sono arrischiato a sbirciare, ho visto che l’uomo stava sfilando un laccio emostatico dalla tasca esterna dei suoi pantaloni.
Poi me l’ha legato con forza attorno al braccio sinistro.
“Puoi evitare tutto questo”, ha spiegato. “Se firmi questi documenti, la chiudiamo qui e ti rispediamo dritto nel tuo paese”. Di colpo ha sfoderato un foglio pieno di scritte in cinese. Sotto alla riga per la firma, in chiare lettere, c’era il mio nome.
“Non capisco cosa dice. Non posso dare il mio consenso alla cieca”.
“Serve solo a confermare che ti stiamo offrendo cibo e indumenti, e che ti stiamo trattando in accordo alle leggi internazionali”.
“E le leggi internazionali prevedono anche l’iniezione di droghe?”
L’uomo ha allungato un braccio oltre il tavolo e mi ha stampato un rovescio in faccia.
“Firmalo!”, ha urlato.
Mi sono concesso un attimo per riprendere il controllo.
“Non so cosa c’è scritto. Se mi procurate una copia in inglese, sarò felice di leggerla. Ma io non sono una spia... Sono solo uno studente in viaggio”. Mi ero inventato una copertura su due piedi. Se fossi riuscito a tirarla per le lunghe, l’interrogatore avrebbe esaurito il tempo a sua disposizione e io sarei tornato al mio posto, dall’altra parte del vetro nero che s’innalzava a un metro dalla mia spalla destra: esattamente lì dove i miei compagni, seduti nell’auditorium, stavano osservando le mie convulse e spasmodiche reazioni.
Come sempre, l’uomo ha approfondito la questione e io me la sono cavata con risposte vaghe o evasive.
“Ne ho abbastanza. È ora di passare al siero della verità”.
L’interrogatore mi ha gonfiato le vene con degli schiaffetti, ha afferrato la siringa e ha avvicinato l’ago al braccio tenendo gli occhi fissi sul mio volto. “È la tua ultima possibilità, se non vuoi questa roba dritta in vena... Ah, a proposito. Non posso garantirti che questa siringa contenga solo siero della verità”.
Ha osservato la mia espressione. Temevo che stesse per bucarmi davvero, ma non mi sono arreso. Mi sono imposto di seguire l’addestramento, di non cedere... Di resistere con ogni mezzo necessario.
Nel momento esatto in l’ago mi ha sfiorato la pelle, qualcuno mi ha ficcato un cappuccio in testa e mi ha trascinato via di forza dalla stanza.
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Il giorno del diploma
Eravamo stati convocati nell’auditorium per le sei. Alle sei e trenta eravamo ancora seduti, in attesa, a scambiarci occhiate perplesse. Alle sei e quaranta, l’Ambasciatore ha fatto il suo ingresso nella sala in compagnia di volti tanto familiari quanto odiati: gli aguzzini.
“Il vostro addestramento qui a Spokane è finalmente giunto al termine, e in linea generale non posso che dire: ottimo lavoro”, ha esordito l’Ambasciatore. “Devo chiedere ai criminali di guerra 38 e 17 di alzarsi in piedi, per cortesia”.
Sono rimasto seduto, chiedendomi chi diavolo fossero quei due. Uno dei miei compagni è balzato in piedi e si è guardato attorno con curiosità, probabilmente in cerca dell’altro studente ancora sprofondato nella sua sedia.
“38, non essere timido. Forza!”
Stavo giusto pensando che quel 38 avrebbe fatto meglio ad alzarsi o si sarebbe guadagnato un’altra sessione punitiva nella stanza degli interrogatori, quando l’Ambasciatore mi ha squadrato e ha detto: “Max, in piedi”.
Sono schizzato sull’attenti con una velocità impensabile persino per una recluta della scuola ufficiali. Non so come, ma avevo completamente dimenticato il mio codice identificativo della SERE, e mi sono trovato in serio imbarazzo quando il resto della classe ha commentato il mio stupore con un’ondata di risolini. Dal canto mio, ho cercato di cavarmela con stile.
“Sì, me la sono fatta sotto, lo ammetto. Mi ero già visto faccia a faccia con un altro vassoio di aghi arrugginiti”, ho affermato con un timido sorriso.
L’Ambasciatore ha ripreso a parlare. “38 e 17, siete i migliori diplomati della classe primaverile. Pregherei i presenti di omaggiare i nostri eroi con un bell’applauso. Se lo sono meritato”.
A onor del vero, non mi sembrava di aver fatto nulla di speciale, ma la sala è esplosa in uno scroscio di applausi e fischi esultanti. Tra le ultime file, ho notato il volpone con i capelli grigi e la cartellina in mano, intento a confabulare con un insegnante che non conoscevo. Ho avuto l’impressione che stessero indicando me, durante il loro scambio di vedute. Dopo un riepilogo conclusivo del corso, che ha incluso la proiezione di tutti i video di sorveglianza girati durante gli interrogatori degli studenti, siamo stati congedati e indirizzati verso le aule amministrative.
Mentre mi avviavo verso l’uscita, l’Ambasciatore mi si è avvicinato.
“Allora... Ti aspetta un bel viaggio in [SEGRETATO], vero?”
“Già, così sembra”, ho risposto.
“Ed è questo che vuoi?”
Il suo tono lasciava intendere che la scelta dipendesse da me. Come ho scoperto in seguito, era proprio così.
“Beh, se non suona spaventoso, non vale la pena farlo, giusto?”
“Esatto, Max. Hai perfettamente ragione”. Ero l’unico studente rimasto nell’auditorium.
L’Ambasciatore ha rivolto uno sguardo verso il vetro a specchio e ha alzato entrambi i pollici. La parete sul fondo della sala ha iniziato la sua lenta scalata verso il soffitto, rivelando le intense luci che inondavano la stanza degli interrogatori. Al suo interno c’erano la vecchia volpe e la sua cartella di alluminio. L’uomo sedeva di fronte alla scrivania, a testa bassa, intento a ripassare diligentemente i suoi appunti.
L’Ambasciatore si è schiarito la voce: “Voglio darti una possibilità. Indovina per chi lavora quel tipo e con chi vuole parlare in questo preciso istante”.
Ho annuito e ho seguito l’Ambasciatore giù per i gradini che portavano alla stanza oltre il vetro.
Ero appena diventato un agente segreto sotto copertura.
Tomorrow War: Dal Diario di Max, Parte 1
Mentre Star Wars: Tarkin sta per atterrare in tutte le librerie (qui potete leggere il primo e il secondo estratto del nuovo romanzo di James Luceno!) un altro pezzo da novanta si appresta a conquistare il cuore di tutti i lettori appassionati di romanzi apocalittici... Tomorrow War! Da J. L. Bourne, autore della mitica saga del Diario di un Sopravvissuto agli Zombie, un nuovo viaggio in un'America da incubo...
Oggi vi presentiamo Max, il protagonista, grazie a qualche pagina del suo diario... buona lettura!
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Mi chiamo Max [SEGRETATO]. Max, per gli amici.
Qualche settimana fa, mi sono diplomato alla scuola di Sopravvivenza, Evasione, Resistenza ed Elusione (SERE) con sede a Brunswick, nel Maine. Nonostante fosse una tappa obbligata dell’addestramento degli uomini a “elevato rischio di cattura” come il sottoscritto, l’esperienza si è rivelata gradevole come un calcio nei coglioni. Mi sono ritrovato nel mezzo di un’area governativa che si estende per diverse migliaia di chilometri quadrati, costretto a sfuggire a uno squadrone di truppe ostili, organizzate e armate di tutto punto. Ho imparato sul campo le più raffinate tecniche di fuga e sopravvivenza. Alla fine, naturalmente, anch’io sono stato catturato, mi sono visto identificare come il “criminale di guerra 38” e ho passato qualche giorno in gattabuia per gli interrogatori di rito. Date le premesse, ho accolto con un discreto nervosismo la notizia del mio trasferimento a Spokane, nello stato di Washington, per la fase successiva del corso di sopravvivenza. Le vesciche che mi tormentavano i piedi non erano ancora guarite quando ho attraversato le porte dell’edificio senza finestre che fa da sede a quel particolarissimo istituto di formazione.
Sto documentando la mia esperienza per un motivo preciso, ma non mi sento ancora pronto ad affrontare l’argomento.
Metterlo per iscritto significherebbe renderlo reale, concreto, tangibile... Per quanto “tangibile” possa essere un testo digitale.
La struttura di sicurezza era popolata di volti sconosciuti.
Un uomo in uniforme nera, con voce ferma, ci ha ordinato di prendere posto: la lezione sarebbe iniziata nel giro di qualche minuto, una volta conclusi i controlli sul nostro conto.
Dopo un rapido scambio di battute, ho scoperto che il tale seduto alla mia sinistra era un maggiore dell’Aeronautica in servizio sugli aerei spia U-2. L’uomo alla mia destra, incalzato in un fugace botta e risposta, ha invece ammesso di lavorare a Fort Meade. Non serviva un genio per ricollegarlo alla sede della National Security Agency. In breve tempo, il minuscolo auditorium si è riempito di persone che non avevo mai visto prima. Alcune sembravano spie, ma al giorno d’oggi non è facile stabilirlo con certezza. C’era chi parlava e chi osservava in silenzio. Io mi sono concentrato sui taciturni. Poi ha fatto il suo ingresso un uomo di mezza età, con il classico carisma da vecchia volpe, un paio di jeans e un pullover di tonalità più chiara completo di toppe sui gomiti. In mano stringeva un portablocco di metallo. Senza proferire parola, si è sistemato su una sedia in fondo alla sala, nel punto più alto dell’auditorium, appena sotto due enormi pannelli di vetro a specchio.
Quando gli studenti hanno preso confidenza con il nuovo ambiente, il chiacchiericcio si è fatto più intenso, fino a sfociare in quel fastidioso crescendo che in genere preannuncia l’ingresso e il conseguente rimprovero dell’insegnante.
Ma così non è stato. Mentre parlavo del più e del meno con il pilota di U-2, mi sono guardato intorno e ho notato una
serie di piccole telecamere posizionate sul soffitto. Coprivano ogni angolazione possibile. Inevitabilmente, la mia attenzione si è focalizzata sui microfoni che pendevano in bella vista lungo tutta la sala. Poi, trenta minuti dopo l’orario previsto per l’inizio della lezione, la classe ha finalmente ritrovato il silenzio e l’uomo in uniforme nera è rientrato, fermandosi in piedi di fronte ai presenti.
“Probabilmente vi starete chiedendo perché siete qui”.
Molti dei trenta studenti in aula hanno annuito.
“Siete qui perché conoscete cose, o state per conoscere cose, che rischiano di sprofondare gli Stati Uniti in una monumentale tempesta di merda se qualcuno vi costringesse a parlare. Il mio nome non ha troppa importanza. Potete chiamarmi Ambasciatore”.
Gli sghignazzi della classe gli hanno strappato un mezzo sorriso.
“Devo farvi una domanda, e vi prego di rispondere ad alzata di mano. Chi di voi non ha mai frequentato ufficialmente una scuola SERE?”
Non sono riuscito a trattenermi. Mi sono guardato intorno per capire quale coglione avrebbe abboccato all’esca.
Dietro di me, non ho visto nessuno con la mano alzata.
Poi sono trasalito. L’Ambasciatore ha squadrato qualcuno nella mia direzione e ha detto: “Tu, in piedi”.
Stavo quasi per alzarmi, ma il tizio dell’NSA seduto alla mia destra è stato più rapido di me. La base a molla della sua poltroncina ha sbattuto di schianto contro lo schienale, e l’uomo è balzato in piedi sotto l’attento sguardo dell’Ambasciatore.
“E così, tu non sei mai stato alla SERE?”, ha chiesto il nostro anfitrione.
“No, signore. Mai sentita nominare”, ha risposto l’agente dell’NSA.
“Come ti chiami?”
“Charles”.
“Bene, Charles. Grazie per la conferma”.
L’Ambasciatore ha rivolto un cenno verso il fondo dell’auditorium. In un lampo, due uomini in uniforme nera e con il volto coperto, armati dei loro fidi AK-47, sono entrati come furie nella sala, hanno preso Charles e l’hanno trascinato via. Nel giro di pochi istanti, mi sono ritrovato accanto un posto vuoto. Del suo ospite restava solo un alone di calore sulla sedia.
L’Ambasciatore ha proseguito: “C’è sempre qualcuno”.
E la folla gli ha fatto eco con una risata.
Sadici del cazzo! Sarebbe potuto toccare a voi. Per un attimo, anch’io me l’ero vista brutta.
L’Ambasciatore ha ripreso a parlare.
“Il programma standard delle scuole SERE insegna i fondamenti per resistere alle strategie e alle pressioni del nemico. Naturalmente, tutti voi avete appreso quest’arte nelle due settimane di sopravvivenza sul campo, coadiuvate da un’allegra simulazione volta a illustrarvi le condizioni in cui versano i prigionieri di guerra. Vi siete sottoposti a un valido addestramento, certo, ma questa scuola arricchirà il vostro curriculum di nuove competenze”.
L’Ambasciatore continuava a camminare di fronte a noi, avanti e indietro, senza mai interrompere il monologo.
“Le tecniche che avete imparato alla SERE vi saranno utili in situazioni come questa”.
L’Ambasciatore ha puntato l’indice verso il fondo della sala. Teneva il pollice alzato, come se la sua mano si fosse tramutata per magia in una pistola. L’intera parete dietro di noi ha cominciato a sollevarsi, ritirandosi nel soffitto e rivelando la saletta nascosta appena oltre. Se qualcuno mi avesse chiesto come immaginavo le stanze degli interrogatori nel Giappone della seconda guerra mondiale, avrei risposto descrivendo la camera che avevo davanti agli occhi in quel momento. Sembrava la sezione di una capanna di bambù, con catene e strani strumenti appoggiati lungo il perimetro o appesi alle canne che componevano la struttura. Un uomo con un sacco in testa, apparentemente privo di forze, era immobile e in silenzio accanto a un aguzzino reso irriconoscibile da un passamontagna.
Il prigioniero tremante e incappucciato indossava gli abiti di Charles.
Quando l’interrogatore gli ha sfilato dalla testa il sacco umido e nero, nessuno si è stupito di riconoscere il volto sgomento e singhiozzante dell’NSA.
Il torturatore di Charles ha cominciato a porgli delle domande.
Mentre tutti noi fissavamo con orrore lo specchio unidirezionale, l’uomo ha sollevato un pannello dal pavimento di bambù, scoperchiando una botola ricolma di acqua scura. Dopo aver ruotato velocemente una vecchia valvola d’ottone, un rubinetto ha riversato altro liquido nero nella pozza. Per un istante, mi ha ricordato quei placidi stagni in cui gli orientali allevano le carpe koi. Almeno fin quando l’interrogatore non è tornato a interessarsi di Charles.
“Per chi lavori?”, gli ha chiesto in tutta calma, con un forte accento arabo.
Charles squadrava la pozza di acqua scura ai suoi piedi, sempre più profonda. “Non capisco perché mi state facendo questo!”, ha gridato.
Il carceriere non si è fatto pregare e gli ha rifilato un terrificante schiaffo sulla nuca.
Charles è rimasto senza fiato e ha rivolto lo sguardo verso l’auditorium, ma le sue speranze si sono infrante sul vetro
a specchio. Per quanto imbrigliati nel loro stesso riflesso, i suoi occhi sembravano supplicare tutti noi. La sofferenza dell’uomo oltre quel vetro mi dava il voltastomaco.
“Aiuto!”, ha gridato Charles, ma il suo aguzzino lo ha atterrato con un calcio sulle gambe e lo ha schiacciato a terra, la faccia premuta contro l’acqua.
Mentre una mano gli immergeva la testa, l’altra è scattata verso il cronometro su un ripiano poco oltre. Quell’uomo seguiva un misterioso protocollo, che ho rilevato ma che non sono riuscito a decifrare. Non ho mai avuto l’impressione che volesse realmente annegare Charles. Sapevo che quella fase di addestramento era studiata e regolamentata per evitare qualsiasi danno a lungo termine, fisico o psicologico che fosse.
A Charles devono essere sembrate ore. Eppure, dopo neanche quindici secondi, il torturatore lo ha riportato alla luce con uno strattone e gli ha chiesto: “Allora, per chi lavori?”
Seguendo le istruzioni dei suoi superiori, che gli imponevano di attenersi alla copertura stabilita in caso di interrogatori, Charles ha risposto: “Lavoro al Distretto Navale di Washington. Sono un archivista!”
Charles stava mentendo. E la menzogna è una scelta rischiosa per qualsiasi prigioniero. Anche i cattivi hanno Google, e sanno come usarlo. Fidatevi.
“Ah, davvero? Nel tuo portafogli abbiamo trovato una tessera della biblioteca di Fort Meade, e sul lunotto della tua auto c’è un adesivo con simboli matematici”. L’interrogatore si è abbattuto su Charles con un altro schiaffo.
“Ok, d’accordo, lavoro per l’NSA! Ora basta! Per favore!”
Le luci al di là del vetro si sono spente. La parete è scesa lentamente dal soffitto, tornando al suo posto e celando, almeno per il momento, l’orrore della sala appena oltre.
Tra gli studenti, me compreso, si è innescata una rete di sguardi, animati dal timore per ciò che sarebbe accaduto in seguito. L’Ambasciatore, che si era defilato senza dare nell’occhio all’inizio di quella drammatica farsa, è rientrato con Charles nell’istante esatto in cui il crescendo di chiacchiericci ha raggiunto il suo apice. Sull’aula è sceso un silenzio di tomba. Memore del mio addestramento, mi sono alzato e ho accompagnato il povero dipendente dell’NSA fino alla sua poltroncina. Per chi ha vissuto sulla propria pelle una simile esperienza di stress indotto, sentirsi riaccolto nel gruppo è estremamente importante.
Ho aiutato Charles a sedersi e ho tentato di rassicurarlo.
Non presentava sintomi di catatonia, ma sembrava un’altra persona. Gli ho offerto una gomma alla menta e lui l’ha accettata. L’asciugamano attorno alle sue spalle era zuppo dell’acqua che ristagnava in quell’orribile pozza al di là della parete.
Star Wars: Tarkin - Capitolo 2
Avete già letto il primo capitolo di Tarkin, nuovo romanzo di James Luceno?
Il secondo capitolo. dall'evocativo titolo "L'Impero Sotto Attacco" vede Tarkin abbandonare il suo progetto per una nuova uniforme e alle prese con problemi ben più urgenti...
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La porta scorrevole dell’alloggio si aprì scomparendo nella parete, e Tarkin uscì a passo deciso. Indossava un paio di pantaloni consunti, degli stivali scomodi e un soprabito leggero grigioverde appoggiato sulle spalle. Il suo assistente stava ancora cercando di stargli al passo quando sopraggiunse la voce stridula del droide protocollare, un attimo prima che la porta gli si chiudesse in faccia.
“Signore, dovevo prendere le misure!”
La base Sentinel era stata dislocata da uno Star Destroyer classe Victory: un tempo angusta guarnigione, adesso si stendeva in tutte le direzioni grazie ai moduli prefabbricati che erano arrivati o che avevano costruito sul posto.
Il cuore della struttura era un labirinto di corridoi che collegavano i moduli gli uni con gli altri, i soffitti che si perdevano in un guazzabuglio di pannelli a luminescenza, condotti d’aerazione, tubi antincendio e matasse di cavi.
In generale, la base aveva un aspetto raffazzonato, ma era il regno del Moff Wilhuff Tarkin e per questo motivo le passerelle e le paratie riscaldate con pannelli radianti erano sempre immacolate, i tubi e i cavi raggruppati e numerati meticolosamente. Gli impianti di aerazione riciclavano l’aria, pulendola ed eliminando l’odore dell’ozono. Nei corridoi si susseguivano non solo i vari specialisti e gli ufficiali, ma anche droidi di ogni forma e dimensione che cinguettavano, trillavano e pigolavano al passaggio di Tarkin, registrando il suo passo coi loro sensori per ordinare ai cingoli, alle appendici meccaniche e ai motori a repulsione del caso di scansarlo all’ultimo momento. Tra le sirene che urlavano in lontananza e gli altoparlanti che gracchiavano ordini c’era così tanto chiasso che sarebbe stato difficile anche soltanto pensare, eppure Tarkin continuava a ricevere i rapporti del centro di comando attraverso il suo auricolare e comunicava coi suoi sottoposti parlando nel microfono che gli aderiva alla laringe.
Il Moff sistemò meglio l’auricolare nell’orecchio mentre attraversava un modulo a cupola, passando sotto un lucernario che rivelava l’intensità con cui la tempesta stava scuotendo la base Sentinel. Dopo essere uscito da quel modulo, affrontando la fiumana di droidi e di ufficiali che si muoveva nella direzione opposta alla sua, Tarkin girò a destra e percorse due corridoi più brevi mentre i portelli si spalancavano al suo avvicinarsi e i suoi sottoposti si univano a lui a ogni incrocio – ufficiali superiori, soldati della marina, tecnici delle comunicazioni: qualcuno più giovane degli altri, la maggior parte in perfetta uniforme, tutti assolutamente umani – così che, una volta raggiunto il centro di comando con il soprabito che gli sventolava dietro la schiena neanche fosse un mantello, sembrò quasi che il Moff stesse conducendo una parata.
Su richiesta di Tarkin in persona, il centro di comando era stato costruito seguendo il modello delle stazioni informatiche ribassate sulle plance degli Star Destroyer classe Imperial.
Gli ufficiali che lo avevano seguito nella sua marcia stavano già prendendo posto alle loro console, mentre tutti gli altri già presenti scattavano sull’attenti per salutare il superiore appena arrivato. Tarkin ordinò loro di riprendere posto con un semplice gesto e salì sulla piattaforma al centro della stanza, dalla quale avrebbe potuto osservare più facilmente ogni oloschermo e ogni sensore. Lì accanto, il comandante della base Cassel, un uomo robusto dai capelli scuri, si stava sporgendo sull’oloproiettore principale, sopra il quale brillavano le immagini granulose dei vecchi caccia stellari che stavano attaccando la superficie luccicante della stazione Rampart, mentre le batterie di quella rispondevano al loro fuoco a colpi di cannonate laser. In un altro olovideo, ancora più disturbato del precedente, gli operai insettoidi di Geonosis stavano cercando riparo in uno degli hangar della stazione spaziale. Una voce proruppe distorta dall’altoparlante principale del centro di comando.
“I nostri scudi sono già scesi al quaranta per cento, Sentinel... disturbando le nostre trasmissioni... perso il contatto con il Brentaal. Ci servono... Sentinel. Ripeto: ci servono subito rinforzi”.
Tarkin aggrottò la fronte con aria scettica. “Un attacco a sorpresa? Impossibile”.
“Secondo la Rampart, prima di entrare nel sistema l’aggressore aveva trasmesso un codice HoloNet valido”, disse Cassel. “Riuscite a inserirvi nel canale di comunicazione di quei caccia stellari, Rampart?”
“Negativo, Sentinel”, rispose la voce dopo un lunghissimo istante. “Stanno disturbando i nostri sistemi di comunicazione”.
Cassel si gettò un’occhiata alle spalle e fece per lasciare il suo posto a Tarkin, ma il Moff lo invitò a mantenere la posizione con un semplice gesto. “Puoi stabilizzare l’immagine?”, domandò al tecnico addetto all’oloproiettore.
“Mi dispiace, signore”, rispose quello. “Peggiorerei soltanto la situazione. A quanto pare stanno disturbando il segnale all’origine. Non sono ancora riuscito a determinare se la Rampart ha già preso delle contromisure”.
Tarkin si guardò intorno. “E per quanto riguarda il nostro segnale?”
“Il nostro ripetitore dell’HoloNet è uno dei migliori”, intervenne l’addetta alle comunicazioni.
“Sta piovendo, signore”, aggiunse un altro tecnico, suscitando un coro di risatine. Persino Tarkin si lasciò sfuggire un sogghigno.
“Con chi stiamo parlando?”, domandò Cassel.
“Col tenente Thon”, rispose il comandante. “È arrivato alla stazione solo tre mesi fa, ma sta trasmettendo sotto criptazione prioritaria come da protocollo”.
Tarkin giunse le mani dietro la schiena, nascondendole sotto il soprabito, e scoccò un’occhiata al tecnico addetto alla convalidazione. “Abbiamo un’immagine di questo tenente Thon in archivio?”
“Eccola, signore”, rispose prontamente il sottoposto, agendo su una levetta e indicando uno degli schermi.
Tarkin spostò lo sguardo sull’umano dalle orecchie a sventola e i capelli color sabbia che sembrava inesperto tanto nell’aspetto quanto nella voce. Tarkin concluse che doveva essersi appena diplomato presso qualche accademia. Il Moff scese dalla piattaforma e raggiunse il tavolo dell’oloproiettore per studiare da vicino i caccia stellari. Il disturbo del segnale sfregiava verticalmente l’olovideo instabile. Gli scudi della stazione Rampart stavano annullando la maggior parte dei colpi dei suoi aggressori, ma spesso quelle sortite andavano a segno e presto o tardi un’esplosione bianca e incandescente avrebbe sventrato uno degli hangar.
“Quei caccia sono modelli Tikiar e Headhunter”, commentò Tarkin, sorpreso.
“Modificati”, disse Cassel. “Iperguide standard e armi più potenti”.
Tarkin concentrò lo sguardo sull’olovideo. “Ci sono dei disegni sulle fusoliere”. Si rivolse al tecnico più vicino alla console di convalidazione. “Cerca nel nostro archivio. Vediamo di scoprire con chi abbiamo a che fare”. Poi si girò di nuovo verso Cassel. “Sono arrivati da soli o con qualche altra nave da combattimento?”
“La seconda, signore”, rispose il comandante.
“E quel Thon ci ha trasmesso un olovideo o le coordinate della nave che ha portato quei caccia?”
“Un olovideo, signore”, rispose qualcun altro. “Ma gli abbiamo dato solo un’occhiata veloce”.
“Riproducilo”, ordinò Tarkin.
Un’altra console proiettò l’immagine azzurrina e sfocata di una nave da battaglia con la poppa rotonda e un modulo di comando sferico nel mezzo. La prua spiovente e lo scafo liscio la facevano assomigliare a un gigantesco mostro sottomarino.
Tarkin fece il giro dell’oloproiettore, studiandola con attenzione. “Che cos’è?”
“Un’astronave di fortuna, signore”, rispose qualcuno.
“Progettata in epoca separatista più che altro. La sfera centrale ricorda i vecchi computer di controllo droidi della Federazione dei Mercanti e l’intera prua sembra essere stata trapiantata da una nave da guerra della Gilda del Commercio. La torre dei sensori è sul davanti. Il nostro sistema di identificazione ha riconosciuto i moduli delle navi da guerra di classe Providence, Recusant e Munificent fabbricate dalla Confederazione dei
Sistemi Indipendenti”.
“Che siano pirati?”, azzardò Cassel. “Corsari spaziali?”
“Ci sono richieste?”, domandò Tarkin.
“Non ancora”. Cassel esitò un altro istante. “E se fossero ribelli?”
“In archivio non ci sono informazioni sui contrassegni presenti sulle fusoliere dei caccia stellari, signore”, disse
qualcuno.
Tarkin si toccò il mento senza dire nulla, e continuò a girare intorno all’oloproiettore finché un disturbo in basso a sinistra non attirò la sua attenzione.
“Che cos’è stato?”, chiese infine, raddrizzando la schiena. “Lì sotto... rieccolo”. Contò mentalmente dieci secondi e si concentrò sulla medesima porzione dell’ologramma. “Ed eccolo di nuovo!”. Si rivolse al tecnico. “Riproduci la registrazione a velocità dimezzata”.
Tarkin non distolse lo sguardo neppure un attimo mentre l’olovideo ricominciava da capo e contava mentalmente i secondi. “Ora!”, disse un attimo prima che il disturbo si manifestasse, più e più volte. “Ora!”
La maggior parte dei presenti si voltò verso di lui. “Che sia un disturbo da criptazione?”, suggerì un tecnico.
“Potrebbe essere un effetto della ionizzazione”, propose un altro.
Tarkin alzò una mano per porre fine alle congetture.
“Signore e signori, non stiamo giocando”. “Dev’essere una specie di disturbo a intervalli predefiniti”, disse Cassel.
“Una specie, sì”. Tarkin osservò in silenzio la terza riproduzione dell’olovideo, quindi andò a una delle console per le comunicazioni. “Ordina al tenente Thon di farsi vedere”, disse all’addetta.
“Signore?”
“Digli di rivolgere l’olocamera verso se stesso”.
Il tecnico inoltrò l’ordine, e la voce di Thon proruppe dagli altoparlanti. “Non me l’avevano mai chiesto prima, Sentinel, ma se serve a farvi mandare una squadra di soccorso, sarò lieto di accontentarvi”.
Tutti i presenti si girarono verso l’oloproiettore e un attimo dopo sopra il tavolo apparve un’immagine tridimensionale di Thon.
“Riconoscimento entro i margini d’accettazione, signore”, riferì un tecnico.
Tarkin annuì e si sporse su un microfono. “Tenete duro, Rampart. I rinforzi stanno arrivando”.
Proseguì a esaminare l’olovideo in diretta, quindi, e calcolò a mente i secondi tra un disturbo e l’altro: un attimo prima che si verificasse il successivo, la trasmissione si interruppe all’improvviso.
“Cos’è successo?”, chiese Cassel.
“Ce ne stiamo occupando, signore”, rispose uno dei tecnici.
Trattenendo un sorrisetto soddisfatto, Tarkin si gettò un’occhiata dietro la spalla destra.
“Avete già provato ad aprire un canale diretto con la stazione Rampart?”
“Sì, signore”, rispose l’addetta alle comunicazioni.
“Ma non siamo riusciti ad aggirare il disturbo”.
Tarkin tornò alla console delle comunicazioni. “Quali risorse ci restano?”
“L’hangar è quasi del tutto vuoto, signore”. L’addetta alle comunicazioni teneva lo sguardo inchiodato sulla console.
“Abbiamo ancora la Salliche, il Fremond e l’Electrum”.
Tarkin valutò le possibilità. Lo Star Destroyer classe Imperial della stazione Sentinel, il Core Envoy e la maggior parte delle altre navi da battaglia stavano scortando i convogli di rifornimento diretti a Geonosis, perciò gli restavano soltanto una fregata e un rimorchiatore – i quali erano completamente vuoti, tant’è che si trovavano in orbita stazionaria – insieme alla scelta più logica: l’Electrum, uno Star Destroyer classe Venator che avevano preso in prestito su Ryloth.
“Chiama il capitano Burque”, ordinò alla fine.
“È già in linea, signore”, disse l’addetta alle comunicazioni.
L’oloproiettore trasmise un’immagine rimpicciolita del capitano, un uomo alto e allampanato con una barba castana corta sulla mascella volitiva. “Governatore Tarkin”, lo salutò.
“Siete al corrente di quello che sta succedendo alla stazione Rampart, capitano?”
“Sì, signore. L’Electrum è pronto a saltare nell’iperspazio non appena riceveremo l’ordine”.
Tarkin annuì. “Tenete quelle coordinate a portata di mano, capitano. Prima, però, voglio che eseguiate un microsalto ai confini di questo sistema con l’Orlo. Mi ha capito?”
Burque aggrottò la fronte, confuso. “Sì, governatore”.
“Una volta giunti lì, rimarrete in attesa di ulteriori istruzioni”.
“In piena vista o dobbiamo nasconderci, signore?”
“Ho il sospetto che non farà differenza, capitano, ma sarebbe meglio se trovaste un nascondiglio”.
“Mi scusi se glielo chiedo, signore, ma... dobbiamo aspettarci qualche problema?”
“Come sempre, capitano”, rispose serissimo Tarkin.
L’ologramma scomparve e il centro di comando sprofondò in un silenzio inquietante, eccezion fatta per il rumore dei sensori e degli scanner. Dopo che un ufficiale ebbe confermato la partenza dell’Electrum, il silenzio si fece praticamente insostenibile finché tutti non trasalirono all’allarme prolungato che emise la stazione di rilevamento delle minacce.
L’addetto alla postazione si sporse sulla console.
“I sensori stanno registrando dati anomali e radiazioni di Cronau nella zona rossa, signore...”
“Rilevata distorsione spaziale!”, lo interruppe un altro tecnico. “Sta arrivando qualcosa dall’iperspazio, signore... ed è bello grosso. Novecentoventi metri di lunghezza. Dodici cannoni turbolaser, dieci cannoni ionici di difesa, sei lanciasiluri protonici. Sta virando verso la faccia visibile del pianeta. Distanza duecentomila chilometri, in avvicinamento”.
Trasse un respiro profondo. “A quest’ora l’Electrum sarebbe già a pezzi se non l’avesse spedito via, signore”.
“Stiamo inviando piani di combattimento ai nostri sistemi di difesa”, intervenne uno degli specialisti delle postazioni adiacenti.
“Secondo il sistema di identificazione, si tratta della stessa nave che ha attaccato la stazione Rampart”. Il tecnico scoccò un’occhiata a Tarkin. “Non potrebbe essere arrivata da là, signore?”
“Sempre che là ci sia mai stata”, disse Tarkin, più a se stesso che al sottoposto.
“Signore?”
Tarkin si scrollò di dosso il soprabito, lasciandolo cadere sul pavimento, e tornò all’oloproiettore. “Diamogli un’occhiata”.
Se non era la stessa nave che aveva attaccato la stazione Rampart nell’olovideo precedente, allora doveva essere la sua gemella.
“Rileviamo molteplici segnali in uscita dalla nave, signore...”. L’ufficiale si interruppe per accertarsi di non avere le traveggole. “Sono droidi caccia, signore! Tri-caccia, avvoltoi... praticamente l’intero arsenale dei Separatisti”.
“Interessante”, commentò Tarkin in tono pacato.
Tenendosi sempre il mento con la mano, continuava ad analizzare l’ologramma. “Suoni l’allarme e potenzi gli scudi della base, comandante Cassel. Attivare le contromisure”.
“È una specie di esercitazione a sorpresa, signore?”, chiese qualcuno.
“Più che altro un gruppetto di Separatisti che non vogliono rassegnarsi alla sconfitta”, replicò un altro.
Tarkin pensò che fosse un’ipotesi più che plausibile. Le forze dell’Impero avevano già distrutto o confiscato la maggior parte delle navi ammiraglie prodotte da e per la Confederazione dei Sistemi Indipendenti. Non si vedevano droidi caccia da anni, ed era passato ancora più tempo dall’ultima volta che Tarkin aveva avuto a che fare con un tranello via HoloNet come quello in cui avevano cercato di far cadere la base Sentinel.
Alla fine, voltò le spalle all’oloproiettore. “Analizzate la nave coi sensori. Voglio sapere se abbiamo a che fare con forme di vita senzienti o con un computer”. Gettò uno sguardo all’addetta alle comunicazioni. “Ancora nessuna trasmissione dalla Rampart?”
L’ufficiale scosse la testa. “Nessuna risposta, signore”.
“I sensori rilevano una trentina di forme di vita a bordo della nave, signore”, esclamò qualcuno in fondo al centro di comando. “Il pilota non è completamente automatico. C’è qualcuno al comando”.
“I droidi caccia stanno per raggiungere il perimetro della base, signore”, annunciò un ufficiale dalla postazione di rilevamento delle minacce.
E il loro perimetro era estremamente fragile, Tarkin lo sapeva.
“Avvertite i nostri artiglieri di ignorare i piani d’attacco e di far fuoco a volontà”, ordinò mentre tornava all’oloproiettore.
Gli bastò un’occhiata per capire che la base Sentinel si trovava nella stessa situazione in cui era finita la Rampart poco prima, con la piccola differenza che in questo caso le navi nemiche e l’olotrasmissione erano assolutamente veri.
“Date ordine al capitano Burque e ditegli di tornare indietro”.
“I tri-caccia hanno rotto la formazione. Si preparano ad attaccare”.
Il rumore delle esplosioni in lontananza e la risposta fragorosa dell’artiglieria a terra scossero il centro di comando.
La sala sussultò. La polvere cadde dai tubi e dai cavi sul soffitto, mentre le luci tremolavano tutt’intorno a loro. Tarkin studiò gli olovideo. I droidi caccia erano facili da pilotare, ma non avevano speranze contro le potenti armi della base Sentinel. Il cielo grigio lampeggiava ogni volta che un caccia avvoltoio o un tri-caccia veniva vaporizzato. Qualcuno riuscì a raggiungere il margine dello scudo deflettore semisferico della base, solo per essere disintegrato e finire con lo schiantarsi contro di esso in una palla di fuoco.
“Stanno battendo in ritirata”, annunciò un tecnico. “I nostri cannoni laser li stanno respingendo”.
“E la loro nave da battaglia?”, domandò Tarkin. “Sta virando e accelerando. Distanza trecentomila chilometri, in allontanamento. Le armi tacciono”.
“L’Electrum è rientrato nello spazio reale, signore”.
Tarkin sogghignò appena. “Informate il capitano Burque che i suoi piloti TIE potranno fare un bel po’ di tiro al bersaglio”.
“Il capitano Burque è in linea”.
Il Moff si avvicinò alla stazione delle comunicazioni e all’ologramma di Burque che fluttuava sopra il proiettore.
“Suppongo che fossero questi i problemi che dovevamo aspettarci, governatore”.
“A dire il vero, sono stati piuttosto imprevisti, capitano. Ecco perché confido che metta fuori uso quella nave, invece di distruggerla. Sono sicuro che ne sapremo di più interrogando il suo equipaggio”.
“Ci andrò il più leggero possibile, governatore”.
Tarkin gettò un’occhiata all’oloproiettore giusto in tempo per vedere i nuovissimi caccia TIE dalle cabine di
pilotaggio sferiche sfrecciare fuori dall’hangar dorsale dello Star Destroyer.
“Il comandante Jae della stazione Rampart è linea, signore. Solo voce”.
Tarkin fece segno di rispondere alla chiamata.
“A che cosa devo l’onore, governatore Tarkin?”, domandò Jae.
Il Moff si avvicinò a uno dei microfoni della console delle comunicazioni. “Come vanno le cose dalle tue parti, Lin?”
“Ora meglio”, rispose Jae. “Il nostro ripetitore dell’HoloNet è stato fuori uso per un po’, ma adesso è tornato a funzionare. Ho già inviato una squadra di tecnici a determinare la causa del guasto. Le garantisco che non interferirà con la consegna...”
“Dubito che i tuoi tecnici troveranno un guasto”, lo interruppe Tarkin.
“E la sua luna, governatore?”, chiese Jae, invece di approfondire l’argomento.
“Siamo stati appena attaccati”.
“Che cosa?”, fece l’altro, palesemente sorpreso.
“Ti spiegherò tutto a tempo debito, Lin. Adesso siamo molto occupati”.
Avendo voltato le spalle all’oloproiettore, Tarkin si perse l’evento che suscitò non pochi grugniti in tutto il centro di comando. Quando si girò, la nave da battaglia era già sparita.
“È saltata a velocità luce prima che l’Electrum riuscisse a fermarla”, spiegò Cassel.
Il disappunto incupì l’espressione di Tarkin. Ora che la nave da battaglia era fuggita, gli altri droidi caccia sarebbero andati fuori controllo, diventando prede ancora più facili per i loro caccia TIE dalle ali verticali. Una sfilza di esplosioni punteggiò lo spazio buio.
“Recuperate i resti potenzialmente utili”, ordinò Tarkin a Burque. “Fateli analizzare. Catturate qualche droide intatto, se possibile, ma fate attenzione: anche se sembrano inermi, potrebbero essere stati programmati per autodistruggersi”.
Burque assentì e il suo ologramma scomparve.
Tarkin si rivolse a Cassel. “Contatta le stazioni da battaglia e cessa l’allarme. Voglio che i nostri scienziati analizzino subito i droidi. Non credo che servirà a molto, ma potrebbero risalire all’origine dell’astronave che li ha trasportati fin qui”. Rifletté per qualche secondo. “Prepara un rapporto per Coruscant e trasmettilo al mio alloggio così che possa aggiungere le mie annotazioni prima dell’invio”, disse poi.
“Agli ordini”, rispose Cassel.
Uno degli ufficiali porse a Tarkin il suo soprabito. Il Moff stava quasi per andarsene quando una voce attirò la sua attenzione.
“Posso farle una domanda, signore?”
Tarkin si fermò e si girò. “Dimmi”.
“Come faceva a saperlo, signore?”
“Come facevo a sapere cosa, caporale?”
La giovane ufficiale dai capelli castani si morse il labbro inferiore prima di proseguire. “Che l’olotrasmissione della stazione Rampart era contraffatta, signore”.
Tarkin la squadrò da capo a piedi. “Prova a spiegarmelo tu”.
“Credo c’entri il disturbo che ha notato durante la riproduzione dell’olovideo. In qualche modo deve aver capito che qualcuno era riuscito a trasmettere in tempo reale una ripresa falsa al ripetitore dell’HoloNet”.
Tarkin abbozzò un sorrisetto.
“Dovete imparare a riconoscere questi tranelli”, disse rivolgendosi ai presenti.
“L’inganno potrebbe essere soltanto una delle armi con cui i nostri misteriosi nemici intendono attaccarci”.
Star Wars: Tarkin - Capitolo 1
Bentornati, fan della Galassia Lontana Lontana!
Con l'ascesa di Tarkin ormai alle porte - il suo romanzo uscirà il 16 giugno! - vi proponiamo il primo capitolo di questo strepitoso libro di James Luceno, autore di Darth Plagueis!
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Durante i primi anni dell’Impero era nato un proverbio: meglio perdersi nello spazio che finire su Belderone. Alcuni studiosi ritenevano che se lo fossero inventati gli ultimi soldati clonati su Kamino che avevano partecipato alle Guerre dei Cloni insieme ai Jedi; altri credevano che risalisse ai primi cadetti che si erano diplomati presso le accademie imperiali.
Oltre a disprezzare i pianeti più lontani dal Nucleo, l’adagio sottintendeva che il valore di un militare poteva misurarsi in base al sistema stellare cui era assegnato. Più si veniva mandati vicini a Coruscant, maggiore era il contributo alla causa dell’Impero. Nonostante ciò, molti ufficiali assegnati a Coruscant preferivano prestare servizio il più lontano possibile dal Palazzo Imperiale, piuttosto che restare nei paraggi dell’Imperatore e del suo sguardo agghiacciante.
Detto ciò, quindi, era a dir poco inspiegabile che Wilhuff Tarkin fosse stato assegnato alla luna desolata di un sistema stellare anonimo in una delle regioni più lontane dell’Orlo Esterno. I mondi degni di nota più vicini erano il pianeta desertico di Tatooine e l’altrettanto inospitale Geonosis, sulla cui superficie esposta a radiazioni erano scoppiate le Guerre dei Cloni e su cui era vietato atterrare sin da allora, a meno che non si facesse parte di una cerchia ristretta di scienziati e di ingegneri dell’Impero. Che cosa poteva aver fatto di tanto grave un ex ammiraglio e aiutante maggiore per meritarsi una destinazione che in molti avrebbero scambiato per un vero e proprio esilio?
Quale insubordinazione o negligenza aveva convinto l’Imperatore ad allontanare un ufficiale che egli stesso aveva promosso a Moff sul finire della guerra? Le voci si rincorrevano tra i colleghi di Tarkin: qualcuno diceva che non fosse riuscito a portare a termine un’importante missione nelle Distese Occidentali; altri sostenevano che avesse questionato col braccio destro dell’Imperatore, Darth Vader; altri ancora insinuavano che avesse passato il segno e che stesse pagando lo scotto della sua sconfinata ambizione. Chi conosceva Tarkin personalmente, invece, o aveva anche soltanto sentito parlare della sua educazione e della sua comprovata esperienza, poteva facilmente intuire quale fosse il suo vero incarico: un’operazione segreta imperiale.
Nella biografia pubblicata anni dopo la sua morte, Tarkin aveva scritto:
Dopo aver riflettuto a lungo, sono giunto alla conclusione che gli anni trascorsi alla base Sentinel siano stati istruttivi tanto quanto quelli passati a studiare sull’Altopiano delle Carogne di Eriadu e importanti come ogni altra battaglia cui avevo preso parte attiva o in qualità di comandante. In effetti, stavo proteggendo la costruzione di un’arma che un giorno avrebbe foggiato l’Impero e garantito il suo futuro.
Fortezza inespugnabile e simbolo del potere incrollabile dell’Imperatore al tempo stesso, la stazione spaziale mobile da battaglia era un traguardo degno di quelle specie più antiche che avevano scoperto i segreti dell’iperspazio e cominciato a esplorare la galassia. Rimpiango solo di non essere riuscito a fare in modo che il progetto fosse completato anzitempo così da poter ostacolare le azioni di coloro che intendevano sbaragliare i nobili piani dell’Imperatore. La paura della stazione da battaglia e, quindi, della forza dell’Impero sarebbero bastate a impedire ogni rappresaglia.
Tarkin non paragonò mai, in nessuno dei suoi scritti, la propria autorità a quella dell’Imperatore o di Darth Vader, eppure il semplice fatto di aver supervisionato il disegno di una nuova uniforme servì forse a mettere in luce la sua figura proprio come facevano la tunica e il cappuccio dell’Imperatore o la famigerata maschera nera di Lord Vader.
“L’analisi della moda militare attualmente in voga su Coruscant suggerisce un approccio più personalizzato”, stava dicendo un droide protocollare. “Le giacche si continuano a portare a doppio petto col colletto alto e rigido, ma senza spalline. Inoltre non si usano più i pantaloni dritti, ma quelli a campana all’altezza dei fianchi e delle cosce, anche se si restringono sulle caviglie in modo che si possano infilare più facilmente gli stivali a tacchi bassi”.
“Una modifica ammirevole”, commentò Tarkin.
“Posso suggerire dei pantaloni a campana, signore? Di colore grigioverde standard, naturalmente, accentuato dagli stivali neri alti fino al ginocchio coi risvolti. La giacca dovrebbe essere allacciata in vita e scendere a metà coscia”.
Tarkin fulminò con lo sguardo il sarto antropomorfo argentato.
“Apprezzo la perizia della tua programmazione, ma non mi interessa iniziare una nuova moda né a Coruscant né in nessun altro luogo. Voglio soltanto un’uniforme comoda. E questo vale specialmente per gli stivali. Ho l’impressione di aver percorso molti più chilometri a bordo degli Star Destroyer che durante le missioni in superficie o in una struttura grande come questa”.
Il droide RA-7 piegò il capo luccicante di lato in segno di disapprovazione.
“C’è una bella differenza tra un’uniforme comoda e una che calza a pennello. Non so se mi spiego, signore. Vorrei anche ricordarle che lei è un governatore di settore, il che significa che può vestire in modo anche un po’ più trasgressivo, per così dire. Se non nei colori, quantomeno nella scelta del tessuto, nella lunghezza della giacca o nel taglio dei pantaloni”.
Tarkin valutò in silenzio le considerazioni del droide.
Gli anni che aveva trascorso in missione e a bordo delle astronavi non erano stati clementi nei confronti delle sue uniformi da guarnigione, e alla base Sentinel nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione le sue scelte.
“E va bene”, si arrese alla fine. “Mostrami cos’hai in mente”.
Indossando soltanto una tuta aderente verdastra che lo copriva dal collo alle caviglie, nascondendo le cicatrici lasciate dai colpi di blaster, dalle cadute e dagli artigli dei predatori feroci, Tarkin se ne stava in piedi su una bassa piattaforma circolare, davanti a un fabbricatore di indumenti che puntava sul suo corpo i raggi laser rossi dei sensori, prendendo le misure con precisione millimetrica. Per come stava allargando le braccia e le gambe, Tarkin sembrava quasi una statua montata su un piedistallo, se non un bersaglio nel mirino di una decina di tiratori scelti. Accanto al fabbricatore, sulla superficie di un olotavolo si ergeva l’ologramma a dimensioni naturali di Tarkin in persona con indosso l’uniforme nuova; quest’ultima cambiava ogni volta che il droide ordinava silenziosamente una nuova modifica, e la si poteva ruotare o cambiare di posizione con una semplice richiesta.
Nel modesto alloggio di Tarkin c’erano soltanto una branda, un armadio, qualche attrezzo per fare ginnastica e una elegante scrivania intorno alla quale erano disposte due paia di sedie: due erano girevoli e imbottite, le altre due un modello più semplice ed essenziale. Tarkin era un uomo senza mezze misure che prediligeva la simmetria, la precisione e l’ordine.
Un grande oblò si affacciava sulla piattaforma d’atterraggio illuminata che separava l’alloggio dal gigantesco generatore dello scudo deflettore, oltre il quale svettavano le cime delle collinette senza vita che abbracciavano la base Sentinel.
Sulla piattaforma d’atterraggio si potevano scorgere un paio di navette e l’astronave personale di Tarkin, il Carrion Spike.
Sulla luna che ospitava la base Sentinel la gravità non era un grosso problema, tuttavia si trattava di un luogo freddo e desolato. Avvolto da un’atmosfera altamente tossica, il satellite grigio come l’interno dell’alloggio di Tarkin era funestato quasi costantemente da tempeste violentissime. Persino in quel momento una nuova bufera stava scivolando giù per il crinale, imbrattando di polvere e di fango la vetrata dell’oblò. Il personale la chiamava “pioggia dura”, se non altro per alleggerire la tensione che si creava ogni volta che si scatenavano tempeste come quella. Il cielo scuro apparteneva al gigante gassoso intorno al quale orbitava quella luna. Nelle lunghe giornate in cui quel sole lontano e giallastro si degnava di illuminare la luna e la base Sentinel, il riflesso della superficie era così intenso che non lo si poteva guardare direttamente, perciò bisognava sigillare e polarizzare ogni oblò.
“Che cosa ne pensa, signore?”, domandò il droide.
Tarkin studiò il suo sosia olografico colorato, concentrandosi più sull’uomo che indossava la nuova uniforme che sull’uniforme stessa. A cinquant’anni era così magro da sembrare emaciato, i capelli un tempo castano ramato ormai striati di grigio chiarissimo. Lo stesso codice genetico che gli aveva donato un paio di intensi occhi azzurri e il metabolismo accelerato gli aveva anche scolpito il viso facendolo assomigliare più a una maschera. Il naso aquilino appariva anche più lungo grazie al picco della vedova sulla fronte che, dopo la fine della guerra, si era fatto persino
più pronunciato. Molti ritenevano che i suoi lineamenti gli conferissero un’aria molto severa, ma a Tarkin piaceva credere che gli donassero un’aria pensosa, se non addirittura sagace.
E per quanto riguardava la sua voce, sorrideva sempre quando pensavano che dovesse il suo accento e il suo tono arrogante al semplice fatto di essere cresciuto nell’Orlo Esterno.
Tarkin voltò il viso ben rasato prima da un lato e poi dall’altro, quindi alzò il mento. Incrociò le braccia sul petto, quindi portò le mani dietro la schiena e le giunse, per poi piantare i pugni sui fianchi. Ergendosi in tutta la sua altezza, cioè poco sopra la media degli esseri umani, assunse un’espressione serissima mentre si teneva il mento con la mano destra. Esistevano ben poche persone cui avrebbe dovuto rivolgere il saluto militare e una soltanto per cui era obbligato a inchinarsi, perciò così fece, la schiena ben dritta, senza risultare troppo servile.
“Elimina i risvolti degli stivali e abbassa il tacco”, disse al droide.
“Certo, signore. Cambriglione e punta di duranio come al solito?”
Tarkin annuì.
Dopo esser sceso dalla piattaforma e uscito dal reticolo di laser traccianti, Tarkin prese a girare intorno all’ologramma, studiandolo da ogni angolazione. Durante la guerra, le giacche strette intorno alla vita, una volta abbottonate, avevano il brutto vizio di stirarsi perpendicolarmente sul petto da una parte e sul torso dall’altra; adesso la cerniera era perfettamente verticale, il che si confaceva particolarmente al gusto di Tarkin per la simmetria. Appena sotto ogni spalla c’erano dei taschini in cui si potevano conservare i cilindretti contenenti le informazioni codificate di chi indossava l’uniforme. Sulla parte sinistra era appuntata una mostrina composta da due file di quadratini colorati.
Sull’uniforme, specie quella imperiale, non c’era posto per le medaglie e le onorificenze. All’Imperatore non piaceva che si esaltasse il coraggio. Laddove un altro leader avrebbe indossato abiti della seta sintetica più costosa, l’Imperatore preferiva le giacche di zeyd nerissimo e i cappucci in cui poteva nascondere facilmente la sua espressione furtiva, severa, quasi ascetica.
“Così va bene?”, chiese il droide quando il programma addetto a ridisegnare gli stivali ebbe finito di caricare le modifiche sull’oloproiettore.
“Meglio”, rispose Tarkin. “A parte la cintura. Aggiungi un dischetto da ufficiale sulla fibbia e uno identico sul berretto”. Stava per aggiungere particolari quando un ricordo della sua infanzia lo distrasse, strappandogli un sorriso suo malgrado.
Ai tempi doveva aver avuto undici anni; indossava un abito da escursione che riteneva particolarmente adatto a quella che credeva sarebbe stata una bella gita sull’Altopiano delle Carogne. Non appena lo vide, il suo prozio Jova gli rivolse un gran sorriso e quindi proruppe in una risata affettuosa e minacciosa al tempo stesso.
“Starai ancora meglio quando si sarà imbrattata di sangue”, aveva detto Jova.
“L’aspetto di questa uniforme la diverte, signore?”, domandò il droide in un tono vagamente preoccupato.
Tarkin scosse la testa. “Certo che no”.
Sapeva benissimo quanto fossero ridicole quelle prove.
Stava solo cercando di distrarsi per non pensare ai ritardi che stavano ostacolando lo sviluppo della stazione da
battaglia. Le spedizioni dei ricercatori erano state rinviate; avevano scoperto di non poter scavare negli asteroidi intorno a Geonosis; gli scienziati e gli ingeneri che stavano supervisionando il progetto non erano riusciti a rispettare le scadenze previste; stavano ancora aspettando un convoglio che trasportava dei componenti fondamentali...
La tempesta stava rompendo il silenzio, disegnando sulla finestra un tatuaggio senza senso.
La base Sentinel era senza alcun dubbio uno degli avamposti più importanti dell’Impero. Nonostante ciò, Tarkin si domandò che cosa avrebbe pensato il suo prozio paterno – lo stesso che gli aveva insegnato come la gloria del
singolo fosse più importante di ogni altra cosa – se avesse saputo che il suo apprendista preferito stava rischiando di essere degradato a mero amministratore.
Tarkin posò lo sguardo sul suo ologramma, e in quel momento un rapido rumore di passi proruppe dal corridoio all’esterno.
Dopo aver ricevuto il permesso di entrare, il biondo assistente di Tarkin varcò la soglia e si mise sull’attenti.
“Abbiamo ricevuto un messaggio urgente dalla stazione Rampart, signore”.
Se un attimo prima lo stava guardando con la fronte aggrottata, ora l’assistente aveva tutta l’attenzione di Tarkin.
Partita dalla stazione Sentinel per raggiungere il Nucleo passando per il pianeta Pii, la stazione Rampart era un deposito di smistamento per astronavi da rifornimento in rotta per Geonosis, dove si stava costruendo la nuova arma spaziale.
“Non tollererò altri ritardi”, stava per dire Tarkin. “Lo so, signore”, si affrettò a interromperlo l’assistente.
“Il problema non sono le risorse che stiamo aspettando. La stazione Rampart è sotto attacco”.
News di Cultura Videoludica (Parte 2): Metal Gear Solid
Pronti per una seconda dose di #CulturaVideoludica? Non di soli Romanzi di Star Wars vive l'uomo... ogni tanto ci vuole anche un po' di sano apprendimento!
La collana, che conta titoli come Console Wars , Minecraft e Wanted: La Storia Criminale di Grand Theft Auto, si arricchirà prossimamente di due titoli molto appetitosi...
Uno dei quali, come vi abbiamo annunciato qualche giorno fa, sarà totalmente incentrato su Final Fantasy VII e sull'eredità di uno dei JRPG più amati della Storia!
Il secondo saggio parlerà di un videogame molto diverso, ma sempre proveniente dalla terra del Sol Levante: Metal Gear Solid!
Questo volume scritto a sei mani da Nicolas Courcier, Mehdi El Kanafi e Denis Brusseaux vi accompagnerà in un lungo viaggio attraverso la storia di una saga indimenticabile, in grado di fissare nuovi standard per la sua spettacolarità cinematografica e i suoi elementi stealth.
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News di Cultura Videoludica (Parte 1): Final Fantasy VII
Gamers e nerd di tutte le età, gioite! State per ricevere una nuova dose di #CulturaVideoludica... perchè fra Romanzi di Star Wars e capolavori Multipop non abbiamo certo dimenticato il piacere dell'apprendimento!
Dopo i due mitici saggi dedicati rispettivamente alle Console Wars degli anni '90 e a Minecraft ci aspettano infatti nuove opere dedicate ad indimenticabili capolavori dell'arte videoludica...
Dagli autori del saggio Zelda: Cronaca di una Saga Leggendaria arriveranno due volumi, uno dei quali sarà dedicato a... Final Fantasy VII!
Uno dei capitoli più amati della saga targata Square, Final Fantasy VII ha sconvolto il panorama RPG per console nel 1997, lasciando un segno indelebile sulla memoria dei giocatori.
Ricordate l'atmosfera, la colonna sonora, i momenti passati con il cast di personaggi ormai entrati di diritto nel mito? Grazie a questo nuovo volume di #CulturaVideoludica potrete rituffarvi nella ricca mitologia di FFVII e (ri)scoprire tutti i segreti di questa perla.
Vi daremo presto maggiori informazioni sulla data d'uscita: per ora tenete pronti nostalgia e controller... ne avrete bisogno!
Un'Estate Imperiale: i nuovi Romanzi di Star Wars
Il nuovo universo narrativo di Star Wars è ormai ben avviato anche in Italia; dopo aver esplorato le conseguenze della caduta dell’Impero in Aftermath e dopo aver seguito le vicende di Thane Kyrell e Ciena Ree attraverso la prima Trilogia (e oltre) in Lost Stars ci prepariamo a fare un salto nel passato e a scoprire i segreti di un periodo tanto tumultuoso quanto intrigante…
L’arco di tempo che va dalla caduta della Repubblica alla distruzione della Prima Morte Nera è rimasto relativamente inesplorato dal nuovo canon, ma non lo sarà ancora per molto! Oltre alla serie animata Rebels (giunta alla seconda stagione) e al film Rogue One, in uscita nel 2017, avremo due nuovi romanzi che ci consentiranno di assistere da vicino all’ascesa dell’Impero così come lo conosciamo.
Tarkin, in uscita il 16 giugno, avrà come protagonista l’omonimo villain, l’indimenticabile Gran Moff interpretato da Peter Cushing nel primo Star Wars.
L’autore è James Luceno, e se avete già letto il suo Darth Plagueis sapete già cosa aspettarvi…
Ambientato cinque anni dopo La Vendetta dei Sith, il romanzo si apre con l’ambizioso ufficiale Imperiale Wilhuff Tarkin impegnato a supervisionare la costruzione di una nuova arma in grado di sottomettere tutti i nemici dell’Imperatore… la Morte Nera!
L’attacco sferrato da un gruppo di dissidenti, tuttavia, costringe Tarkin a mettersi sulle tracce di una nave rubata, e ad accompagnarlo ci sarà il braccio destro dell’Imperatore in persona: Darth Vader. Il Gran Moff dovrà utilizzare il suo ingegno e la sua spietatezza per riportare l’ordine e procedere col piano…
Personaggi affascinanti e approfonditi con cura, villain carismatici, segreti svelati e strizzate d’occhio ai fan del vecchio Universo Espanso: bentornato, Luceno!
Perfetta controparte di Tarkin sarà invece Una Nuova Alba di John Jackson Miller, ambientato subito dopo la caduta della Repubblica e lo sterminio degli Jedi a opera del bieco Imperatore Palpatine.
Il romanzo introduce il cavaliere Jedi Kanan Jarrus e Hera, personaggi che i fan di Star Wars Rebels conosceranno molto bene, e descrive il loro primo incontro… e come un gruppo di improbabili eroi abbia posto le basi per la futura sconfitta dell’Impero.
Aspettatevi duelli mozzafiato, scontri nello spazio, intrighi e tradimenti… insomma, un romanzo adrenalinico che vi lascerà completamente soddisfatti!
Dunque non abbiate timore: anche nel corso dell’imminente, caldissima estate 2016 non vi lasceremo a secco… la Galassia Lontana Lontana sarà lì ad aspettarvi con due romanzi da urlo!
Diario di un Sopravvissuto agli Zombie: la saga non è finita!
Pensavate che fosse finita, vero?
La trilogia apocalittica di J.L.Bourne, composta da Diario di un Sopravvissuto agli Zombie, Oltre l'Esilio e La Clessidra Infranta ha rubato (e mangiato) i cuori di moltissimi lettori, conquistandosi di diritto un posto tra le migliori saghe zombesche di sempre.
Lo stile unico e i dettagli realistici forniti da Bourne, militare di professione, rendono la lettura del diario del "Milite Ignoto" un'esperienza tanto affascinante quanto terrificante! Un'esperienza che, vi farà piacere sapere... potrete provare di nuovo molto presto!
Non solo grazie a Tomorrow War, thriller apocalittico di Bourne in uscita il prossimo 23 giugno (niente zombie, ma vi garantiamo che avrete lo stesso paura di andare a letto senza tenere la luce accesa dopo la lettura!), ma anche grazie al quarto capitolo della saga del Diario di un Sopravvissuto!
Day by Day Armageddon: Ghost Run (questo è il titolo originale) uscirà negli USA in luglio, e continuerà le avventure del Milite Ignoto in un mondo ormai completamente dominato dai morti viventi.
La Task Force Phoenix, ultima speranza per l'umanità, si ritroverà in una disperata corsa contro il tempo dopo un'inattesa rivelazione sulla pandemia che ha quasi sterminato la popolazione globale...
Non abbiamo ancora una data da comunicarvi, ma dormite sonni tranquilli: Ghost Run avrà un posto tra i nostri #Apocalittici, nel 2017! Preparate zaini e razioni... e leggete Tomorrow War come antipasto!
Stay tuned...
The Invasion of the Tearling: Anteprima #5
The Invasion of the Tearling è ormai uscito e molti di voi lo stanno già (ri)leggendo, ma ci teniamo comunque a darvi un ultimo antipasto di quello che vi aspetta tra le pagine del nuovo romanzo di Erika Johansen... ecco un altro estratto con protagonista Lily, la donna misteriosamente connessa alla regina Kelsea e vissuta secoli prima della storia della Regina del Tearling...
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C’erano molte donne in sala d’attesa. Quasi tutte assomigliavano a Lily: erano bianche e ben vestite, e le loro borsette erano di ottima qualità. Ma alcune venivano dalla strada, come dimostravano icapelli e gli abiti; Lily si chiese come avessero potuto superare i controlli. Una di esse, una donna ispanica incinta di sei o sette mesi, si era infilata su una poltroncina vicino alla porta.
Pareva respirare a fatica, stringendo i braccioli; aveva il volto pallido, spaventato. Abbassando lo sguardo, Lily vide che i jeansgrondavano di sangue.
Due infermiere si precipitarono fuori dallo studio dall’altrolato della stanza con una sedia a rotelle e aiutarono la donna a spostarsi. Comprimeva il ventre gonfio con le mani, quasi atrattenere qualcosa. Lily vide lacrime caderle dagli occhi, poi leinfermiere la spinsero oltre la porta, negli ambulatori.
“Dica”.
Lily si volse verso l’impiegata, una donna giovane con i capelli scuri e un sorriso freddo.
“Sono Lily Mayhew. Ho un appuntamento”.
“Attenda qui, la chiameremo al più presto”.
Non c’erano sedie libere tranne quella dov’era seduta la donna ispanica, il cuscino verde pallido macchiato di sangue.
Lily non aveva intenzione di sedersi lì, quindi si appoggiò al muro scoccando occhiate furtive alla gente che la circondava.
Non lontano, sedevano una donna e un’adolescente. Erano chiaramente madre e figlia: la ragazza era nervosa, la madre no. Lily capì facilmente per quale motivo fossero lì. Anche lei si era sentita come quella ragazzina, la prima volta che sua madre l’aveva accompagnata in quello studio. Aveva capito che si trattava di un rito di passaggio, ma sapeva anche che era necessario tenerlo segreto: quello che accadeva lì dentro era un crimine. Lily odiava dover rispettare quell’appuntamento, odiava quello studio e l’obbligo di andarci, ma allo stesso tempo era felice della sua esistenza e del fatto che ci fosse gente che non temeva Greg né tutti quelli come lui.
Era sbagliato pensare a Greg, in quel momento: Lily si sentiva come se il marito le fosse alle spalle, e quell’idea la faceva sudare.
La possibilità di essere scoperta dagli addetti alla Sicurezza se non da Greg in persona aumentava in occasione di ognuno degli appuntamenti annuali. Greg voleva avere bambini nello stesso modo in cui voleva una BMW nuova, o come esigeva che Lily portasse al polso l’orologio tempestato di diamanti. Greg voleva figli per potersene vantare. Tutti i loro amici avevano già almeno due bambini, se non tre o addirittura quattro, e tutte le donne, al circolo e alle feste, guardavano Lily con compassione. Tali sguardi non la ferivano per nulla, ma doveva fingere che lo facessero.In alcune occasioni era addirittura riuscita, sforzandosi, a versare qualche lacrima, piccoli capricci a beneficio di Greg così da mostrargli quanto soffrisse per il suo fallimento come moglie.
Una volta anche Lily avrebbe voluto avere figli, ma ormai quello le sembrava un passato distante, la vita di un’altra
donna. Era stato Greg a consigliarle di andare in una clinica per i disturbi della fertilità, ignaro che già da anni si faceva visitare dal dottor Davis, inconsapevole di averle reso le cose più facili.
Dopo un’attesa lunga un’eternità, la dottoressa Anna fece capolino dalla porta a vetri chiamando Lily. La guidò in un
ambulatorio dove, tirando una tenda, la lasciò sola con il solito camice di carta. La dottoressa Anna era la moglie del dottor Davis, e aveva passato da diversi anni i cinquanta. Era una delle poche dottoresse che Lily avesse mai incontrato. Quando erano state emanate le leggi Frewell, era troppo piccola per capire; il presidente Frewell era salito al potere quando aveva otto anni, concludendo il suo mandato quando ne aveva sedici. Ma le leggi da lui firmate erano durate nel tempo, ed erano rare le facoltà di medicina che ammettevano donne. Lily, per la quale sapere che un uomo sconosciuto le avrebbe esaminato le parti intime era inconcepibile quanto uscire per strada completamente nuda, era grata dell’esistenza della dottoressa Anna, anche se questa aveva l’espressione perennemente irritata di una maestra di scuola vecchio stampo e appariva sempre infastidita dalla presenza di Lily, quasi le rubasse tempo riservato a qualcosa di più importante. Le fece le solite domande, prendendo appunti
su un blocco, mentre Lily si avvolgeva sempre di più nel camice, cercando di coprirsi il più possibile.
“Le servono pillole?”
“Sì, grazie”.
“Abbastanza per un anno?”
“Sì”.
“Come paga?”
Lily estrasse dalla borsetta duemila dollari in contanti.
Greg glieli aveva dati il fine settimana precedente, per andare a far compere, e lei li aveva nascosti nella fodera della borsetta, grazie a uno strappo nella stoffa. Poi, mentendo, aveva detto al marito di aver comprato un paio di scarpe. Quello strappo le era spesso tornato utile nell’anno appena trascorso, durante il quale Greg aveva iniziato a perquisire le sue cose senza avvertirla prima. Non sapeva cosa stesse cercando. Ogni volta, non avendo
trovato nulla, la guardava con l’aria delusa di un negoziante che sapeva che c’era stato un furto ma non era riuscito a provarlo.
Quelle ispezioni la turbavano ma quegli sguardi la preoccupavano ancor di più.
La dottoressa Anna s’infilò il denaro in tasca, poi iniziò la parte davvero spiacevole: la visita vera e propria. Lily la sopportò stringendo i denti e pensando alla stanza dei bambini.
Certo, non avevano figli, ma poco dopo il matrimonio, quando tutto era diverso, Lily l’aveva comunque arredata. Era rimasta l’unica stanza della casa nella quale era completamente padrona e poteva restare sola: Greg aveva bisogno di essere circondato da persone, di avere qualcuno che reagisse a ciò che diceva e faceva.
In qualunque altra stanza della casa, c’era sempre la possibilità che facesse irruzione senza nemmeno bussare, cercando attenzione.
Ma non nella cameretta dei bambini.
La dottoressa fece portare via gli strumenti e i campioni appena prelevati, dicendo a Lily: “Ripeta il suo nome all’impiegata, che le comunicherà i risultati delle analisi e le consegnerà le pillole”.
“La ringrazio”.
La dottoressa si avvicinò alla porta, ma prima di aprirla si girò, guardando Lily con la sua solita espressione da maestrina pronta a riprendere un bambino capriccioso. “Lo sa che non migliorerà mai se non fa niente?”
“Di cosa sta parlando?”
“Di lui”. La dottoressa guardò l’anello che Lily portava al dito. “Di suo marito”.
Lily strinse con forza l’orlo del camice di carta. “Non capisco cosa intende dire”.
“Credo proprio di sì, invece: visito oltre cinquecento donne al mese. Quegli ematomi non mentono”.
“Non…”
“Inoltre”, la interruppe la dottoressa, “evidentemente lei è una signora benestante: non c’è motivo per cui non possa procurarsi contraccettivi senza dover viaggiare così tanto. Con i prezzi che ci sono al mercato nero, sono certa che potrebbe addirittura trovare uno spacciatore a domicilio. A meno che lei non tema che suo marito scopra che ricorre a metodi contraccettivi”.
Lily scosse il capo: non voleva sentire quelle parole. A volte pensava che tutto andasse quasi bene, a patto che nessuno ne parlasse.
“Suo marito non è il suo padrone”.
Lily alzò lo sguardo, improvvisamente furente, perché la dottoressa Anna non aveva idea di quel che stava dicendo.
Era quello il significato del matrimonio: proprietà. Lily aveva venduto se stessa perché ci fosse qualcuno che si prendesse cura di lei, pagasse le bollette e le dicesse cosa fare. Certo non era stato sempre tutto rose e fiori ma, come diceva sempre la mamma, quando si comprava qualcosa a scatola chiusa c’era sempre qualche piccolo problema. I suoi genitori non avrebbero voluto che sposasse Greg ma Lily era sicura che fosse la scelta migliore.
Ripensando a loro, Lily sentì una fortissima nostalgia per la sua cameretta nella casa di famiglia in Pennsylvania, con il letto singolo e la scrivania di quercia. I mobili erano semplici, nulla in confronto a quelli che aveva comprato Greg, ma almeno quella stanza era stata tutta sua: nemmeno papà e mamma entravano senza prima bussare.
Gli occhi le si erano riempiti di lacrime. Se li asciugò con il dorso della mano, sbavando il trucco.
“Lei non può sapere com’è”.
La dottoressa fece una risatina fredda. “Mi creda, signora Mayhew, lo so bene: è una dinamica che non cambia mai”.
“È successo solo poche volte”, bofonchiò Lily, rendendosi conto mentre parlava che avrebbe fatto meglio a tacere.
Davvero l’atteggiamento freddo e impersonale della dottoressa l’aveva infastidita? In quel momento avrebbe voluto essere molto più distaccata. “Quest’anno ha subito forti pressioni sul lavoro”.
“Suo marito è un uomo importante?”
“Sì”, rispose Lily senza pensarci. Era sempre la prima cosa che le veniva in mente pensando a Greg: era un uomo importante.
Lavorava per il Ministero della Difesa, dove si occupava di coordinare i contatti tra l’esercito e i produttori di armi. Il suo dipartimento gestiva i rifornimenti di tutte le basi disseminate lungo la costa orientale. Inoltre, era alto quasi un metro e novanta e, ai tempi dell’università, aveva giocato a football.
Aveva addirittura incontrato il Presidente. Lily non avrebbe potuto sfuggirgli.
“Ci sono comunque posti dove rifugiarsi, dove nascondersi”.
Lily scosse il capo, ma non avrebbe saputo spiegare alla dottoressa Anna ciò che le passava per la testa. A volte qualche donna fuggiva, anche da Nuova Caanan. L’anno precedente, una notte, Cath Alcott era scappata con i tre figli sulla Mercedes di famiglia. Gli agenti della Sicurezza avevano trovato l’auto abbandonata, nel Massachusetts, ma di Cath nessuna traccia. Almeno per quanto ne sapeva Lily. John Alcott, un omone tranquillo che Lily aveva sempre trovato leggermente inquietante, aveva ingaggiato un’agenzia privata d’investigazioni per trovarla, ma senza successo: non erano nemmeno riusciti a rintracciare il chip. Cath era riuscita in un’impresa all’apparenza impossibile: scomparire portando con sé i bambini.
Ma Lily non ne sarebbe mai stata in grado, anche senza bambini.
Dove poteva andare a stare? Come si sarebbe procurata il cibo?
Tutto il denaro era sul conto di Greg: le banche non aprivano nemmeno conti individuali per le donne sposate. Anche se Lily avesse conosciuto qualcuno in grado di crearle una nuova identità (e non conosceva gente del genere), non sapeva far niente: era laureata in letteratura inglese. Nessuno le avrebbe mai dato un lavoro, nemmeno come donna delle pulizie.
Chiuse gli occhi, immaginando i senza tetto di Manhattan avvolti in sacchi della spazzatura, raccolti in piccoli gruppi sotto le strade sopraelevate, impegnati in lotte sanguinarie per ogni avanzo di cibo. Anche se fosse riuscita a giungere fin là, non sarebbe mai stata in grado di sopravvivere.
“Va bene. Ci pensi”, concluse la dottoressa, con un’espressione tornata severa. “Non è mai troppo tardi”.
Con uno sguardo interrogativo si tolse di tasca un biglietto da visita che infilò nella borsetta di Lily, abbandonata su una sedia.
Poi uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
Lily scivolò giù dal lettino coperto da una striscia di carta, togliendosi il camice di carta con cura perché non si strappasse.
A volte l’educazione che aveva ricevuto dai genitori, fondata sul risparmio e sul non buttare via mai niente, tornava a farsi avanti, anche quando si trattava di sciocchezze come un camice usa e getta. Guardandosi il braccio, vide il livido nel punto in cui Greg l’aveva afferrata con prepotenza, martedì. I segni delle botte subite durante quella brutta notte di un mese prima erano finalmente spariti, ma quello più recente le avrebbe impedito d’indossare capi senza maniche per qualche tempo. E a Greg piaceva quando li metteva.
Cominciò a rivestirsi, tentando di non guardare troppo in giro. Greg aveva davvero subito forti pressioni: almeno quella non era una bugia; e si era pentito delle proprie azioni. Ma “solo poche volte” era un’espressione molto vaga. Era accaduto esattamente in sei occasioni, e Lily si ricordava ognuna di esse nei minimi particolari. Poteva mentire di fronte alla dottoressa Anna, ma non aveva senso edulcorare la verità nella sua mente: Greg stava peggiorando.
Uscendo dall’ascensore, vide alcuni addetti alla Sicurezza, all’altezza dello scanner, circondare un uomo. Questi, agli occhi di Lily, appariva rispettabile, con i primi capelli grigi in testa e una bella giacca blu. Ma gli uomini lo spinsero oltre la loro postazione, attraverso una porta bianca sulla quale campeggiava la scritta “Sicurezza”. Appena la chiusero, non si udì più nulla.
Sotto lo sguardo attento delle due guardie rimaste fuori, Lily si avvicinò alla Lexus. Le era tornato in mente un ricordo terribile: le treccine bionde di Maddy che sparivano oltre una porta.
A volte riusciva a non pensarci per mesi interi ma poi vedeva sempre qualcosa che ridestava in lei il ricordo: una donna che veniva scortata lontano dalla sua auto, addetti alla Sicurezza alla porta di qualcuno, anche semplicemente la vista, sia pure di sfuggita, di uno dei grandi centri di detenzione sparsi lungo la Interstate 80. Maddy era andata, ma ogni minimo particolare la riportava alla mente di Lily. Aprì bruscamente la portiera, allontanando quell’immagine dalla sua mente. Quella breve escursione era già difficile, non voleva dover portare con sé anche Maddy.
“La porto a casa, signora M.?”, chiese Jonathan.
“Sì, per piacere”, rispose Lily, provando il conflitto di emozioni che quella parola evocava sempre nel suo cuore: in parte la confortava, in parte la disgustava.
“Andiamo a casa”.
The Invasion of the Tearling: Anteprima #4
Pronti per una nuova anteprima di The Invasion of the Tearling?
Chi è Lily, e che legame condivide con la Regina Kelsea? Scopriamolo in questo nuovo estratto, che ci fa viaggiare indietro nel tempo in un'epoca antecedente alla fondazione del regno dei Tear...
Aprì gli occhi in un mondo grigio, coperto da nubi che preannunciavano pioggia. Attraverso il finestrino poteva
osservare, distante, forme grigie stagliarsi contro un cielo plumbeo: Manhattan.
Percorrendo il ponte, l’auto oltrepassò una cunetta. Lily guardava fuori dal finestrino, seccata. Era Greg a prendersi cura dell’economia domestica, e una volta lo aveva sentito dire a Jim Henderson che ogni mese versava una consistente somma di denaro in cambio del diritto di guidare proprio su quel ponte.
In cambio, in teoria, la pavimentazione avrebbe dovuto essere mantenuta a livelli decenti. Ma il lavoro non veniva mai fatto a regola d’arte, e di recente Lily aveva iniziato a scorgere buche e cunette che venivano riparate molto lentamente. Tuttavia, era sempre meglio che attraversare il ponte aperto al pubblico: la Lexus sembrava fatta apposta per essere rubata. Quel ponte e le strade che vi portavano, invece, erano costantemente pattugliate da numerosi addetti alla Sicurezza, e se Jonathan avesse premuto l’allarme la polizia sarebbe accorsa entro pochi secondi. Qualche buca era un prezzo accettabile da pagare in cambio della sicurezza.
Il ponte terminò, e Lily osservò le mura altissime lasciar posto a una barriera più bassa. Si recava sempre più di rado in città, e ogni volta che lo faceva le sembrava che la situazione fosse peggiorata, ma le piaceva comunque andarci. La casa in cui viveva, a Nuova Canaan, era meravigliosa: si trattava di un’imponente residenza colonica, con un colonnato bianco, simile alle case delle sue amiche. Ma anche un’intera città poteva diventare noiosa, quando era tutta uguale a se stessa. Lily si vestiva con più cura in occasione delle rare escursioni oltre il muro di quanto non facesse quando aveva ospiti a cena: per quanto fosse pericoloso, uscire da Nuova Canaan le sembrava sempre un evento degno di nota.
Guardando oltre la barriera che proteggeva la strada, vedeva la baraccopoli. Sacchetti neri per la spazzatura erano stati appesi in modo da creare un riparo contro la pioggia imminente.
Persone reiette e invisibili si stringevano rasente i muri e sotto le tettoie. La prima volta che Greg l’aveva portata a New York, poco dopo il matrimonio, gli edifici erano già quasi tutti vuoti, le finestre coperte di cartelli con scritto Affittasi. Ormai gli abusivi avevano tolto anche quei cartelli, e i palazzi abbandonati erano talmente tanti che gli agenti di Sicurezza avevano praticamente smesso di preoccuparsi della città. Le finestre vuote facevano pensare che all’interno non ci fosse nessuno, ma non era così: Lily rabbrividiva al pensiero di ciò che succedeva lì dentro. Droga, crimine, prostituzione… in rete aveva addirittura letto che alcune persone erano state uccise nel sonno per rivenderne gli organi. Al di fuori del muro non c’erano regole, e nessun luogo era sicuro.
Greg diceva che chi viveva al di fuori della barriera era gente pigra ma Lily non l’aveva mai pensata così: erano semplicemente persone sfortunate, con genitori meno abbienti dei suoi e di quelli di Greg. Non era così categorico, quando studiava a Princeton.
Anzi, nei fine settimana, ogni tanto prestava assistenza ai meno fortunati. Era così che si erano incontrati: facevano entrambi volontariato nell’ultimo rifugio per senza tetto del New Jersey.
Di recente, Lily aveva però iniziato a chiedersi se Greg non l’avesse fatto soltanto per avere un’esperienza nel sociale da inserire nel curriculum. L’estate successiva aveva iniziato il tirocinio presso gli uffici del governo. Lily invece era andata a Swarthmore a studiare letteratura, perché era l’unico argomento che la interessasse. I libri erano già stati censurati, privati di ogni accenno al sesso, di qualsiasi volgarità e di qualunque cosal’amministrazione Frewell avesse considerato antiamericana ma a Lily erano comunque piaciuti, era riuscita a scavare oltre quella superficie sterile per trovare storie interessanti. Era felicissima di studiare, anzi, pensare al futuro la faceva cadere in preda a un
panico incontrollabile. Era Greg a essere pieno di ambizioni, era lui che accettava lavori estivi a Washington, che andava molto spesso a New York, nei fine settimana, con gli amici dei genitori.
A Lily faceva piacere, era contenta che Greg sembrasse avere pieno controllo sulla direzione che stava prendendo
la propria vita. Quando aveva trovato un ottimo impiego come funzionario di collegamento per un’azienda dell’industria della difesa e le aveva chiesto di sposarlo dopo la laurea, a Lily era sembrata una benedizione. Non avrebbe mai dovuto lavorare: solo preoccuparsi di tenere in ordine la casa ed essere cordiale con persone come lei. E naturalmente anche occuparsi dei bambini, quando fossero arrivati. Nessuna di queste cose sembrava anche solo paragonabile a un lavoro vero e proprio.
Avrebbe avuto un sacco di tempo per andare a far compere, per leggere, riflettere. L’auto passò su un’altra buca, facendola sobbalzare sul sedile; Lily sentì qualcosa di simile a un sorriso farsi strada sulle labbra. Aveva vinto la lotteria, certo.
La pioggia investì improvvisamente l’auto, tanto forte da bloccare la visuale di Lily. Sin dal primo mattino il cielo andava facendosi via via più buio, tanto che molti tra coloro che abitavano al di là della barriera indossavano una sorta di sacchi di materiale sintetico per proteggersi gli abiti. Lily si chiese se usassero sempre gli stessi teli o se fossero costretti a cercarne di nuovi ogni volta che pioveva.
“Saremo costretti a fare una deviazione, signora M.”, disse Jonathan dal posto di guida.
“Perché?”
“Un’esplosione”. Indicò un punto di fronte a loro, e Lily vide il bagliore di una fiamma nella pioggia, a circa un miglio
di distanza. Aveva letto di cose del genere: criminali che, a volte, si arrampicavano fino alle autostrade private dove
piazzavano cariche di esplosivo così da costringere gli utenti a deviare sulle vie pubbliche. Era uno dei tanti pericoli che si correvano, avventurandosi oltre il muro, ma se Jonathan non era preoccupato, nemmeno Lily vedeva motivo di esserlo. Greg lo aveva assunto tre anni prima, la settimana antecedente al matrimonio, proprio perché si prendesse cura di lei. Jonathan era un’ottima guardia del corpo ma come autista se la cavava ancora meglio: quando aveva prestato servizio militare durante le Guerre del Petrolio era incaricato della protezione delle provvigioni, e sembrava conoscere tutte le vie della costa orientale come le sue tasche. Guidò lungo le strade sospese, tanto vicine ai palazzi da permettere a Lily di scorgere solo uno spicchio di cielo. Cercò di immaginare la gente sotto di loro, come
topi che zampettavano nell’oscurità. Una sua amica dei tempi delle scuole superiori, Embeth, dopo il diploma si era trasferita a New York per lavorare come bambinaia; qualche anno dopo, Lily era certa di averla intravista a un angolo di strada a Lower Manhattan, vestita di stracci, con la pelle unta e i capelli lerci come se non li avesse lavati da anni. Il tempo di un’occhiata, poi era sparita.
Passando sopra le macerie del Rockefeller Center, Lily notò che, dove una volta si trovava la vecchia fontana, qualcuno aveva inciso con il laser lettere tanto grandi da risultare perfettamente visibili anche dalla strada.
IL MONDO MIGLIORE
Si trattava del motto del Blue Horizon, il gruppo separatista, ma nessuno sembrava sapere con precisione cosa significasse.
Le attività del Blue Horizon sembravano limitate per la maggior parte a provocare grosse esplosioni e a inserirsi nei sistemi elettronici del governo in modo da creare problemi. L’anno precedente, quando i separatisti avevano portato di fronte al Congresso una richiesta di secessione, Lily si era detta favorevole ma Greg le aveva spiegato che non era il caso: c’era troppo denaro in ballo, si sarebbero persi troppi clienti e debitori. Lily aveva invece pensato che questo avrebbe causato una seria diminuzione del crimine e quindi le era sembrata un’ottima idea, ma non aveva voluto discutere. Greg era stato molto teso al lavoro, era sempre sul chi vive e aveva cominciato a bere troppo. Non si era
davvero tranquillizzato finché non aveva visto quella richiesta venire bocciata.
Jonathan girò a sinistra, entrando nei sotterranei del Plymouth Center, e si arrestò alla barriera dei controlli di sicurezza.
Due uomini con le pistole in mano si avvicinarono all’auto, e Jonathan porse loro il tesserino.
“La signora Mayhew ha un appuntamento con il dottor Davis, al cinquantesimo piano”.
Il guardiano la fissò. “Apra il finestrino posteriore”.
Jonathan fece quanto gli era stato richiesto, e Lily sporse la spalla sinistra. L’uomo teneva in mano un lettore di qualità scadente, tanto che fu costretto a passarlo sopra la spalla diverse volte prima che il codice del chip venisse riconosciuto.
In quell’istante, lo strumento emise un suono non dissimile dal frinire di un grillo.
“La ringrazio, signora Mayhew”, disse la guardia con un sorriso freddo. Controllò anche Jonathan, poi Lily tornò a
sprofondare nel sedile mentre l’autista proseguiva inoltrandosi nel parcheggio.
Lo scanner davanti all’ascensore suonò mentre Lily lo attraversava: aveva dimenticato di togliere l’orologio. Era grosso, ingombrante, d’argento quasi puro con il quadrante incrostato di diamanti, e le sue amiche lo guardavano con invidia ogni volta che lo indossava per andare al circolo. Per Lily tutti gli orologi erano uguali ma, come molte cose che le aveva comprato Greg, lo metteva perché era suo dovere. Una volta entrata, lo tolse, infilandolo nella borsetta.
L’ascensore emise un suono a conferma di aver letto correttamente il codice del chip che aveva nella spalla. Se Greg
avesse voluto controllare, questo avrebbe confermato dove di trovava Lily. Ma non era un problema. Agli occhi di tutti, il dottor Davis era un rispettabile specialista, ed erano numerose le signore benestanti che lo consultavano per risolvere i loro problemi di fertilità. Nonostante ciò, Lily arrossì in maniera colpevole. Era sempre stato facile scoprire le sue bugie, e non era mai stata in grado di mantenere un segreto. Fatta eccezione per quello, il più grande di tutti. Con il passare del tempo, si sentiva sempre più spaventata. Se Greg l’avesse scoperto…
Ma non ci pensò. Se l’avesse fatto, si sarebbe girata e scappata via, e non poteva farlo. Inspirò profondamente, più di una volta, fino a rallentare le pulsazioni. Le tornò il coraggio. Quando le porte dell’ascensore si aprirono, si diresse a sinistra lungo un corridoio con un tappeto verde brillante. Superò varie porte che recavano le targhe di vari specialisti: dermatologi, ortodontisti, chirurghi estetici. La porta dello studio del dottor Davis era l’ultima sulla destra, sobria e in legno di noce. Su di essa una targa di ottone recutava: “Dott. Anthony Davis, Specialista della
Fertilità”. Lily posò il pollice su un piccolo scanner, fissando la minuscola telecamera montata sullo stipite, poi la lucetta rossa diventò verde e la porta si aprì con uno scatto.
The Invasion of the Tearling: Anteprima #3
Dopo i primi due estratti di The Invasion of the Tearling, che ci hanno permesso di vedere la situazione al fronte durante l'invasione dei Mort, torniamo alla nostra protagonista Kelsea, tornata sul trono che le spettava di diritto... ma con un'enorme responsabilità sulle spalle: la difesa del regno del Tear dall'annientamento totale!
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Kelsea Glynn aveva un pessimo carattere.
Non ne andava fiera. Anzi, Kelsea odiava adirarsi perché, anche quando le pulsazioni acceleravano e la furia le annebbiava la vista, riusciva a vedere con chiarezza la via che conduceva all’autodistruzione. La rabbia rendeva difficile il discernimento e portava a pessime decisioni. Si trattava di un capriccio adatto a una bambina, non a una regina. Carlin aveva ripetuto quella frase in molte occasioni, e Kelsea aveva sempre ascoltato.
Ma nemmeno quelle parole avevano valore quando era in preda alla furia: quando avveniva, era una marea inarrestabile che abbatteva ogni ostacolo. Kelsea era consapevole che la sua rabbia, pur essendo una forza distruttrice, era anche pura, e le permetteva di avvicinarsi alla ragazza che era nel profondo, andando oltre l’autocontrollo che le era stato imposto fin dai primi giorni di vita. Era nata infuriata, e spesso si chiedeva come sarebbe stato abbandonarsi all’ira e alla sua essenza più vera e profonda.
In quell’istante, Kelsea stava tentando di mantenere la calma ma ogni parola pronunciata dall’uomo seduto all’altro capo del tavolo faceva gonfiare ulteriormente le onde oscure che teneva chiuse in sé. Mazza Chiodata e Pen si trovavano al suo fianco; al tavolo erano presenti, un po’ più distanti, anche Arliss e padre Tyler. Ma Kelsea non vedeva che il generale Bermond, seduto di fronte a lei. Aveva posato sul tavolo un elmo di acciaio sovrastato da una ridicola piuma blu. Indossava l’armatura, perché era appena giunto dal fronte, a cavallo.
“Non dobbiamo disperdere le risorse dell’esercito, maestà. Questa strategie non le sfrutterebbe correttamente”.
“Generale, perché ogni discussione con lei deve finire in un litigio?”
Lui scosse il capo, insistendo caparbiamente sulla propria posizione. “Maestà, potete difendere il regno o il popolo, ma non avete a disposizione uomini sufficienti per fare entrambe le cose”.
“Il popolo è più importante della terra”.
“La vostra è una posizione ammirevole, maestà, ma si tratta tuttavia di una pessima tattica dal punto di vista militare”.
“Lei sa quanto il popolo abbia sofferto durante l’ultima invasione”.
“Certo, lo so meglio di voi, maestà, dato che non eravate ancora nata. Le acque del fiume Caddell erano rosse di sangue. È stato un massacro indiscriminato”.
“Per non parlare degli stupri”.
“Gli stupri sono un’arma, maestà. Le donne hanno superato il trauma”.
“O Cristo”, disse Mazza Chiodata a voce molto bassa, toccando con una mano il braccio di Kelsea al fine di placarla.
La regina sussultò con aria colpevole, perché Lazarus aveva letto in anticipo la sua reazione. Il generale Bermond poteva anche essere vecchio e zoppo, ma aveva comunque pensato di sollevarlo dalla sedia e prenderlo a calci. Inspirò profondamente, parlando con cautela. “Generale, non sono state stuprate solo donne, ma anche uomini”.
Bermond si accigliò infastidito. “Sono solo voci, maestà”.
Kelsea incrociò lo sguardo di padre Tyler, che stava scuotendo il capo. Nessuno desiderava discutere quell’aspetto dell’invasione precedente, nemmeno dopo vent’anni, ma l’Arvath aveva udito vari racconti da parte dei sacerdoti sparsi nei vari villaggi, che erano stati gli unici osservatori ad aver raccontato l’invasione come era veramente avvenuta. Tutte quelle storie concordavano su un punto: gli stupri erano davvero un’arma, e i Mort non distinguevano tra uomini e donne. Improvvisamente, Kelsea pensò che avrebbe preferito fosse presente anche il colonnello Hall. Non si trovavano sempre d’accordo ma almeno era disposto a prendere in considerazione altri punti di vista, a differenza del generale che non accettava mai alternative di sorta. Ma l’esercito Mort aveva ormai raggiunto il confine da diversi giorni, e la presenza di Hall era richiesta lì.
“Maestà, stiamo divagando”, fece presente Arliss.
“È vero”. Kelsea tornò a rivolgersi a Bermond. “È nostro dovere proteggere quella gente”.
“Certo, maestà: fate costruire un campo profughi e accoglietevi chiunque. Ma non distraete i miei soldati da compiti più importanti. Coloro che desiderano la vostra protezione possono trovare da soli la via della città”.
“Si tratta di un viaggio pericoloso da affrontare senza protezione, in particolare per chi si muove con bambini piccoli. La prima ondata di profughi ha lasciato da poco le colline, e abbiamo già ricevuto rapporti che parlano di abusi e violenza. Se è questa l’unica opzione che siamo in grado di offrire, molti decideranno di rimanere nei villaggi nonostante l’avanzare dei Mort”.
“Sarà una loro scelta, maestà”.
La diga che tratteneva l’ira nella mente di Kelsea tremò; le fondamenta iniziavano a cedere. “Sinceramente non riesce a capire che questa è la scelta migliore, generale, o finge di non comprenderlo perché è la soluzione più semplice?”
Bermond arrossì. “C’è più di un’opzione, maestà”.
“Non credo. Stiamo parlando di uomini, donne e bambini che, nella vita, non hanno mai fatto altro se non coltivare i campi. Se hanno armi, sono di legno. L’invasione sarà un bagno di sangue”.
“Esatto, e il modo migliore di proteggere questa gente è assicurarsi che i Mort non invadano”.
“Crede davvero che l’esercito Tear sarà in grado di difendere il confine in maniera efficace?”
“Naturalmente, maestà. Non crederlo equivarrebbe a macchiarsi di tradimento”.
Kelsea si morsicò una guancia, incredula di fronte a quanto disinformato fosse il generale. Dal confine giungevano, puntuali come orologi e terribili come l’inferno, i rapporti di Hall; ma Kelsea non aveva bisogno che fosse lui ad aggiornarla riguardo alla terribile situazione che si era sviluppata: l’esercito Tear non sarebbe mai stato in grado di contrastare ciò che stava per attaccarlo. Nella settimana appena trascorsa, una visione aveva iniziato a farsi sempre più viva nella mente di Kelsea: la parte occidentale della piana di Almont coperta da un mare di tende nere e di soldati. La ragazza che era stata educata da Carlin Glynn non avrebbe mai creduto in una visione, ma le prospettive
di Kelsea si erano ampliate fino ad abbracciare elementi ben al di là di quanto contenuto nella biblioteca di Carlin. I Mort sarebbero giunti, e l’esercito Tear non sarebbe stato in grado di arginarli: l’unica speranza era rallentarne l’avanzata.
Arliss riprese la parola. “La fanteria Tear non è ben addestrata, maestà, e ci è già stato riferito che alcune delle armi di latta si sono spezzate all’impatto per via della scarsa cura e manutenzione. Inoltre, il morale è basso”.
Bermond si rivolse a lui, furioso. “Ha infiltrato spie nel mio esercito?”
“Non ho bisogno di spie”, rispose Arliss freddamente.
“Sono problemi noti a tutti”.
Il generale non riuscì a nascondere l’ira. “E allora c’è un motivo in più per investire il poco tempo che ci rimane in esercitazioni e rifornimenti”.
“No, generale”. Kelsea giunse improvvisamente a una decisione; non era la prima volta che sceglieva una linea
d’azione perché era l’unica che le avrebbe permesso di dormire. “Useremo le risorse dell’esercito là dove potranno essere più utili per il bene del popolo: per le evacuazioni”.
“Maestà, mi rifiuto”.
“Davvero?”. L’ira di Kelsea traboccò come un’onda che rompeva gli argini. Era una sensazione meravigliosa, ma come sempre la maledetta razionalità intervenne: non poteva perdere Bermond, troppi tra i vecchi soldati avevano fiducia, anche se mal riposta, nelle sue capacità di comandante. Provò a sorridere.
“Allora dovrò sollevarla dal comando”.
“Non potete!”
“Certo che posso. Uno dei vostri colonnelli è pronto per assumere il comando. È molto capace, e di certo sa vedere la
realtà meglio di lei”.
“Il mio esercito non seguirà il comando di Hall. Non ancora, per lo meno”.
“Seguiranno me”.
“Questo non ha senso”. Ma lo sguardo di Bermond si era allontanato dal suo. Quindi anche lui aveva sentito parlare di quanto accaduto. Era trascorso meno di un mese da quando Kelsea e le sue guardie avevano fatto ritorno dal passo di Argive, ma ormai quasi tutti sapevano che la regina aveva invocato una gigantesca alluvione su Arlen Thorne e sui traditori che lo accompagnavano, sbaragliandoli. Era una storia ormai amatissima, che veniva richiesta in continuazione ai cantastorie dei locali e dei mercati di Nuova Londra, e aveva fatto miracoli per quanto riguardava la sicurezza: nessuno tentava più nemmeno d’intrufolarsi nella Fortezza, aveva riferito Mazza Chiodata con tono quasi di rimpianto. Ciò che era accaduto sull’Argive aveva cambiato il panorama politico, e Bermond ne era consapevole.
Kelsea si chinò in avanti, come una belva che avesse fiutato l’odore del sangue.
“Pensa davvero che l’esercito si rivolterà contro di me, Bermond? Per difendere lei?”
“Certo che sì: i miei uomini sono leali”.
“Sarebbe un peccato dover mettere alla prova una simile lealtà e perdere la scommessa. Non pensa che sarebbe più semplice attuare il piano di evacuazione?”
Lo sguardo di Bermond era furente ma Kelsea notò con piacere che si stava indebolendo; per la prima volta dall’inizio di quell’incontro, sentì la propria ira iniziare a placarsi.
“L’accampamento è un discorso, maestà, ma cosa farete quando i Mort arriveranno? La città è già sin troppo popolosa, certamente non c’è posto per un altro mezzo milione di persone”.
Kelsea avrebbe voluto avere una risposta ma quel problema non aveva una soluzione immediata. Nuova Londra era già sovrappopolata, il che creava problemi per quanto riguardava le tubature idrauliche e le fognature. Storicamente, ogni volta che era scoppiata una qualche epidemia in una delle zone più densamente popolate della città, questa si era rivelata pressoché impossibile da tenere sotto controllo. Raddoppiando la popolazione, tali problemi si sarebbero aggravati in maniera esponenziale. Kelsea progettava di aprire la Fortezza alle famiglie, ma questo sarebbe stato a malapena sufficiente a dare alloggio a un quarto dei rifugiati. Dove avrebbe potuto sistemare gli altri?
“Nuova Londra non è un suo problema, generale: Lazarus e Arliss sono gli uomini incaricati di organizzare la città in vista del probabile assedio. Lei si preoccupi del resto del regno”.
“Invece sono preoccupato, maestà: avete scoperchiato il vaso di Pandora”.
Kelsea si sforzò di non cambiare espressione del viso, ma la soddisfazione sul volto di Bermond era evidente: sapeva di aver colto nel segno. Kelsea aveva aperto le porte al caos più totale.
Continuava a ripetersi che non c’erano alternative, ma le sue notti erano costantemente tormentate dalla certezza che ci fosse un’altra opzione, una via che avrebbe interrotto le spedizioni senza causare la conseguente carneficina, e che Kelsea l’avrebbe potuta identificare se sol fosse stata più scaltra. Inspirò lentamente.
“Lasciamo perdere le ammissioni di colpa, generale: quello che è fatto, è fatto. Il suo ruolo è di aiutarmi a minimizzare il danno”.
“State cercando di arginare l’oceano di Dio, maestà?”
“È così, generale”. Gli sorrise. Più che un sorriso, in realtà,si trattava di un ghigno tanto feroce che Bermond indietreggiò sulla sedia. “La prima ondata di profughi raggiungerà la piana di Almont domani. Fornisca loro alcuni uomini di guardia, poi cominci a mobilitare gli altri: voglio che quei villaggi siano completamente evacuati”.
“Cosa accadrà se il mio esercito si rivela debole come sembrate credere, maestà? I Mort si faranno strada verso Nuova Londra in men che non si dica, proprio come è accaduto al tempo di vostra madre. I soldati del Mortmesne ricevono un salario, certo, ma si tratta di una somma quasi simbolica: costruiscono la loro fortuna sul saccheggio, e il luogo migliore da saccheggiare è questo. Se non sarò in grado d’impedir loro di attraversare il confine, pensate davvero di riuscire a impedire che mettano la città a ferro e fuoco?”
C’era qualcosa che non andava negli occhi di Kelsea.
Una nuvola nera sembrava averne oscurato la visione, più fioca ai lati e più pesante al centro. Erano gli zaffiri? No, erano rimasti inattivi per diverse settimane, e in quel momento le pendevano, bui e immobili, sul petto. Kelsea sbatté rapidamente gli occhi, cercando di schiarirsi le idee: non era il caso di tradire la sua debolezza di fronte a Bermond, non in quel frangente.
“Sto sperando di ottenere aiuti”, disse. “Ho aperto un negoziato con i Cadaresi”.
“E a cosa ci potrebbe servire?”
“Forse il re ci permetterà di fare uso di alcune delle sue truppe”.
“È una speranza vana, mia signora. I Cadaresi sono isolazionisti, lo sono sempre stati”.
“Certamente, ma sto esplorando ogni strada possibile”.
“Mia signora?”, chiese Pen a bassa voce. “State bene?”
“Sì, tutto a posto”, borbottò Kelsea. In realtà, alcuni punti neri avevano preso a danzarle nel campo visivo. Si rese conto che stava per avere un mancamento, e non poteva permettersi che ciò accadesse di fronte a Bermond. Si alzò in piedi, appoggiandosi al tavolo per non perdere l’equilibrio.
“Mia signora?”
“Sto bene”, insistette, scuotendo il capo come a togliere le ragnatele che vi erano improvvisamente comparse.
“Cosa c’è che non va?”, chiese Bermond. Agli orecchi di Kelsea, la sua voce si era già fatta più flebile. La regina sentì l’odore della pioggia. Afferrò il bordo del tavolo, e sentì il legno liscio scivolarle sotto le dita.
“Aiutala!”, abbaiò Mazza Chiodata. “Sta per cadere!”
Sentì il braccio di Pen cingerla alla vita, ma non gradì il suo tocco e quindi lo allontanò. La vista le si offuscò completamente, poi si ritrovò in un ambiente sconosciuto: una stanza piccola sovrastata da un cielo enorme e minaccioso. Terrorizzata, serrò gli occhi poi li riaprì, sperando di vedere il salone delle udienze, le guardie, qualcosa che le fosse noto. Ma non vide nulla di questo.
Mazza Chiodata, Pen, Bermond… erano spariti.
The Invasion of the Tearling: Anteprima #2
La Regina Kelsea sta per tornare! Venite a cercarla al Salone del Libro di Torino, e nel frattempo gustatevi questo secondo estratto da The Invasion of the Tearling! (Qui potete invece leggere il primo!)
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Uscì dall’osservatorio scendendo la scaletta; Blaser lo seguì da vicino. Giunti a circa tre metri dal suolo, saltarono giù iniziando poi immediatamente a risalire la collina. Nelle dodici ore appena trascorse, Hall aveva distribuito oltre settecento uomini, tra fanti e arcieri, sulle pendici orientali. Dopo diverse settimane di duro lavoro, però, i soldati avevano faticato a rimanere immobili in attesa, in particolare dopo il tramonto. Ogni minimo segno d’insolita attività sulle colline avrebbe allertato i Mort, che si sarebbero messi subito in guardia, quindi Hall aveva passato gran parte della notte visitando le varie postazioni per assicurarsi che gli uomini non cedessero al nervosismo.
La salita si fece più ripida, e presto Hall e Blaser furono costretti ad aiutarsi con le mani, scivolando sugli aghi di pino.
Entrambi indossavano spessi guanti di cuoio e avanzavano con cautela, consapevoli delle insidie del terreno. Le rocce erano piene di piccole gallerie e minuscole caverne, spesso abitate da crotali.
Le serpi della zona di confine erano bestie resistenti, risultato di millenni di evoluzione e che avevano lottato per la sopravvivenza in situazioni estreme. Le pelli spesse e coriacee li rendevano quasi immuni al fuoco, e le zanne trasmettevano alla vittima dei loro morsi una precisa dose di veleno. Un errore nell’appoggiare una mano avrebbe potuto costare la vita. A dieci anni, Simon aveva catturato un serpente in una trappola, cercando di addomesticarlo ma dopo una settimana aveva dovuto lasciar perdere. Per quanto Simon lo nutrisse, il crotalo non si era lasciato addomesticare e aveva continuato ad attaccare qualunque cosa si muovesse.
Alla fine, Hall e Simon l’avevano liberato, aprendo la gabbia sulla pendice orientale e poi scappando a gambe levate, in salita.
Nessuno sapeva quanto a lungo vivessero i serpenti: forse quello di Simon era ancora lì, poco sotto la superficie, intento a strisciare tra i suoi simili.
Simon.
Hall chiuse gli occhi, riaprendoli pochi istanti dopo. Si era giustamente abituato a non spingere la propria immaginazione troppo oltre il confine, ma nelle settimane appena trascorse, vedendo il Mortmesne occidentale aprirsi di fronte ai suoi occhi, si era ritrovato a pensare al fratello più spesso del solito,chiedendosi dove fosse, chi fosse il suo padrone, cosa fosse costretto a fare. Probabilmente era stato messo al lavoro: prima della spedizione, era considerato uno dei tosatori più abili dell’intero versante occidentale delle colline. Sarebbe stato uno spreco impiegare un uomo come lui per qualche attività che non fosse il lavoro manuale pesante. Hall continuava a ripeterselo, ma le alternative, sia pure improbabili, rimanevano, e la sua mente continuava a tornare sulla possibilità, sia pure remota, che Simon, una volta venduto, fosse stato destinato a qualche altro scopo.
“Maledizione”.
L’imprecazione di Blaser, pur sottovoce, fece tornare in sé Hall, che lanciò un’occhiata alle proprie spalle per assicurarsi che il suo luogotenente non fosse stato morso. Ma Blaser era semplicemente scivolato, e aveva già recuperato l’equilibrio.
Hall proseguì nella scalata, scuotendo il capo per liberarlo da pensieri spiacevoli. La spedizione era una ferita che il tempo non aveva mai guarito.
Giunto in cima alla collina, avanzò nella radura nella quale lo attendevano gli uomini. Fu accolto da sguardi ansiosi. Nel mese appena trascorso avevano lavorato in fretta, senza i lamenti che solitamente accompagnavano un progetto di costruzione militare.
Avevano finito con tanto anticipo da permettere a Hall di mettere alla prova l’intera operazione più di una volta, prima ancora che l’esercito Mort giungesse sulle rive del lago. Era presente anche Jasper, il falconiere, con i suoi dodici falchi incappucciati, legati a un lungo trespolo sulla sommità del colle. Erano stati un investimento piuttosto consistente ma, quando alla regina era stato spiegato come sarebbero stati utilizzati, lei aveva ascoltato con attenzione, approvandone l’acquisto senza battere ciglio.
Hall si avvicinò a una delle catapulte, accarezzandone il braccio. Toccando il legno liscio provò un momento di orgoglio: Hall amava i congegni meccanici, si sforzava sempre di trovare modi per fare qualunque cosa meglio e più in fretta. All’inizio della sua carriera militare, aveva inventato un arco lungo più robusto ma allo stesso tempo più flessibile che era presto diventato il prediletto degli arcieri Tear. Una volta, distaccato presso un progetto d’ingegneria civile, aveva sperimentato un sistema d’irrigazione basato su una serie di pompe che portavano acqua dal Caddell a una zona arida nel sud della piana di Almont.
Ma quelle erano il suo capolavoro: cinque catapulte, ognuna lunga sessanta passi, con bracci solidi di quercia Tear e cucchiare più leggere, di legno di pino. Ognuna di esse era capace di scagliare proiettili dal peso di almeno duecento libbre, con una gittata di quasi quattrocento iarde controvento. I bracci erano fissati alle basi tramite corde, e ai lati di ognuno di essi stavano due soldati armati di ascia.
Nella cucchiara della catapulta, Hall osservò quindici grossi sacchi di canapa, ognuno di essi avvolto in un sottile strato di stoffa azzurro cielo. Inizialmente Hall aveva pensato di lanciare semplici massi, come le catapulte d’assedio del passato, danneggiando larghe parti dell’accampamento Mort. Ma poi Blaser aveva avuto un’idea migliore, nonostante per metterla in atto fossero state necessarie diverse settimane di lavoro massacrante. Il sacco più in alto era accarezzato dal vento, e il tessuto s’increspava. Hall fece qualche passo indietro, alzando il pugno chiuso nel silenzio della mattina. Gli uomini armati di ascia sollevarono le armi sopra le spalle.
Blaser iniziò a cantare a bocca chiusa. Lo faceva sempre, nei momenti di tensione. A volte poteva risultare piuttosto fastidioso.
Hall, nonostante le stonature, capì che si trattava di The Queen of the Tearling. Quella canzone aveva preso piede tra gli uomini: l’aveva sentita canticchiare spesso mentre levigavano tronchi o affilavano spade.
Il mio dono per voi, regina Kelsea, pensò abbassando la mano.
Le asce sibilarono nell’aria, e il silenzio della mattina fu frantumato dagli enormi cigolii e schiocchi dei bracci delle
catapulte, finalmente liberi. Si alzarono uno per uno, acquistando velocità mentre si tendevano verso il cielo, e Hall provò una gioia così profonda, la stessa di quando era bambino e aveva costruito la sua prima trappola per conigli.
Il mio progetto funziona!
I bracci delle catapulte giunsero al termine della corsa, bloccandosi con boati che echeggiarono tra le colline. Quel rumore avrebbe certo destato i Mort ma era troppo tardi.
Hall estrasse il cannocchiale seguendo il progresso dei sacchi in volo verso l’accampamento nemico. Raggiunsero lo zenit e iniziarono a scendere, tutti e settantacinque; i paracaduti azzurri si spiegarono nel vento, i sacchi che vi pendevano ondeggiavano nella brezza, all’apparenza innocui.
I Mort iniziarono a muoversi: Hall osservò soldati sbucare dalle tende, armati, e sentinelle rientrare nell’accampamento in preparazione di un attacco.
“Jasper”, disse. “Due minuti”.Questi annuì, iniziando a togliere i cappucci ai falchi e dando a ognuno un pezzettino di carne. Il maggiore Caffrey, che aveva un dono incredibile per capire quando ci si poteva fidare di un mercenario, lo aveva trovato tre settimane prima in un villaggio vicino al confine. A Hall i falchi Mort non piacevano, come non gli piacevano da bambino quando li vedeva planare sopra le colline in cerca di prede facili, ma non poteva non ammirare l’abilità di Jasper nel gestirli. I falchi osservarono il falconiere con attenzione, chinando il capo come cani in attesa che il padrone lanci un bastone.
Dall’accampamento Mort si alzò un grido di allarme: avevano notato i paracadute, che stavano accelerando la caduta a causa della minor resistenza del vento. Hall continuava a osservare attraverso il cannocchiale. Non appena il primo dei sacchi sparì alla vista dietro una tenda, iniziò a contare sottovoce.
Dopo dodici secondi, le prime grida iniziarono a echeggiare.
Altri paracadute discesero sull’accampamento. Uno atterrò sul carro degli armamenti, e Hall osservò, affascinato, nonostante tutto, le corde aprirsi. Il sacco sembrò tremolare per qualche istante, poi ne sbucarono cinque crotali infuriati, finalmente liberi.
Le loro pelli chiazzate si mossero tra picche e frecce per poi scomparire alla vista.
Si sollevarono altre urla; in meno di un minuto, l’accampamento cadde nel caos più totale. I soldati si urtavano a vicenda, mentre altri, vestiti solo a metà, colpivano il terreno tra i propri piedi con le spade. Alcuni cercavano di guadagnare posizioni più elevate, arrampicandosi su carri, su tende o addirittura sulle schiene dei commilitoni. La maggior parte di loro fuggì verso l’esterno dell’accampamento, in un tentativo di allontanarsi dal pericolo.
Gli ufficiali sbraitavano inutilmente, dando ordini che nessuno ascoltava. Il panico si stava diffondendo, e i soldati cominciarono a uscire dall’accampamento in tutte le direzioni: a ovest verso le colline o a est e a sud attraverso la pianura. Alcuni addirittura corsero verso nord, finendo nel lago. Nessuno indossava armature o portava armi, e molti erano completamente nudi; diversi avevano le guance coperte di schiuma da barba.
“Jasper”, gridò Hall. “Ora!”
Uno per uno, Jasper fece salire i falchi sullo spesso guanto di cuoio che gli copriva il braccio dalla spalla alle dita, lanciandoli poi in volo. Gli uomini di Hall osservarono nervosi i volatili alzarsi nel cielo del mattino ma si trattava di uccelli ottimamente addestrati: ignorarono del tutto i soldati Tear, lanciandosi invece in picchiata verso i Mort ai piedi delle colline. Si gettarono a capofitto sugli uomini che si riversavano fuori dall’accampamento a sud e a est, aprendo gli artigli. Hall osservò il più veloce di essi attaccare al collo un uomo in fuga, che non indossava che
un paio di pantaloni sbottonati. Il falco gli lacerò la giugulare, sollevando un sottile spruzzo di sangue nella luce del mattino.
Sul lato occidentale dell’accampamento, ondate di soldati si precipitavano verso gli alberi che ricoprivano le colline.
Ma tra di essi erano appostati cinquanta arcieri e i Mort cadderoin massa nel fango della palude, crivellati di frecce. Altre grida provenivano dal lago: coloro che avevano cercato riparo in acqua avevano scoperto di aver commesso un errore, e tornavano verso la riva urlando di dolore. Hall sorrise con una certa nostalgia: avventurarsi nel lago era un rituale per i bambini di Idyllwild che desideravano dimostrare di essere ormai uomini, e le sue gambe ne portavano ancora le cicatrici.
Ormai il grosso dell’esercito Mort aveva lasciato l’accampamento. Hall lanciò un’occhiata di rimpianto verso i cannoni, completamente abbandonati; ma non sarebbe stato possibile raggiungerli: tutto intorno, i crotali serpeggiavano tra le tende in cerca di un luogo nel quale nidificare. Si domandò dove fosse il generale Genot, se fosse fuggito con i suoi uomini o se il suo cadavere si trovasse tra quelli ammassati a centinaia ai piedi della collina. Nutriva per lui un certo rispetto, pur consapevole dei suoi limiti. In gran parte, si trattava degli stessi di cui soffriva Bermond. Genot voleva una guerra tranquilla, razionale; non aveva tempo per atti di coraggio o dimostrazioni d’incompetenza. Hall era però consapevole che nessun esercito avrebbe mai potuto essere privo degli uni e degli altri.
“Jasper”, gridò. “I suoi falchi hanno fatto un ottimo lavoro; li faccia tornare”.
Il falconiere fischiò, poi strinse le corde che gli fissavano il guanto di cuoio al braccio. Dopo solo pochi secondi i falchi tornarono verso la collina, iniziando a volare in circolo sopra la vetta. Jasper lanciò altri fischi, di tonalità diverse; uno per uno, gli uccelli scesero appollaiandosi sul suo braccio, dove vennero premiati con numerosi bocconi di carne di coniglio prima di essere incappucciati e fatti spostare sul trespolo.
“Richiami gli arcieri”, disse Hall rivolto a Blaser. “E chieda a Emmett di mandare staffette al generale e alla regina”.
“Con quale messaggio, signore?”
“Dica loro che saranno necessarie almeno due settimane prima che i Mort si riorganizzino”.Blaser se ne andò, e Hall tornò a osservare la superficie del lago Karczmar, rosso fuoco alla luce del sole nascente. Quella visione, che da bambino gli riempiva il cuore, quel giorno gli sembrò un terribile presagio. Certo, i Mort erano dispersi, ma non lo
sarebbero stati a lungo e, se gli uomini di Hall avessero perduto il controllo delle colline, nulla avrebbe impedito al nemico di sbaragliare le linee difensive, organizzate con tanta cura da Bermond. Alle spalle dei colli si estendeva la piana di Almont: centinaia di miglia quadrate di pianura con scarse possibilità di manovra, costellate di fattorie e di villaggi isolati e indifesi.
L’esercito dei Mort era il quadruplo di quello Tear, e armato molto meglio. Se avessero raggiunto la piana, il massacro sarebbe stato inevitabile.
The Invasion of the Tearling: Anteprima #1
Il 12 Maggio vedrà l'inizio dell'invasione del Tearling... l'attesissimo seguito di The Queen of the Tearling è ormai quasi arrivato (lo troverete anche al Salone del Libro di Torino!) e per aiutarvi a superare l'attesa... eccovi un corposo estratto dal primo capitolo, tutto da leggere!
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L’alba giunse di buon’ora sul confine con il Mortmesne.
Un istante prima si scorgeva solamente una sottile linea blu sull’orizzonte; un istante dopo il cielo era pieno di scie luminose che sembravano provenire dal Mortmesne orientale.
Presto, riflessi scintillanti illuminarono il lago Karczmar facendolo apparire come fuoco liquido, un effetto che s’interruppe quando una leggera brezza accarezzò le sponde, e la superficie liscia s’increspò.
In quella zona, il confine era una questione delicata.
Nessuno sapeva con precisione dove fosse stata tracciata la linea immaginaria. I Mort insistevano che il lago si trovasse nel loro territorio, mentre i Tear asserivano che fosse di loro competenza in quanto era stato un esploratore proveniente proprio dalla loro nazione, Martin Karczmar, a scoprirlo.Karczmar era ormai morto da quasi tre secoli, ma il Tearling non aveva mai cessato di rivendicare i propri diritti su quello specchio d’acqua. Il lago in sé aveva ben poco valore, giacché popolato esclusivamente da pesci non commestibili ma aveva una sua importanza strategica, essendo per miglia e miglia l’unico punto di riferimento concreto sul confine. Entrambi i regni avevano tentato a lungo di reclamarlo per sé. Tempo prima, era stato discusso un trattato specifico, ma i negoziati erano falliti. La sponda orientale e quella meridionale del lago erano pianeggianti e coperte di sale, limacciose e piene di paludi.
Tale terreno si estendeva a est per svariate miglia, fino a raggiungere una foresta di pino Mort. A ovest, invece, dopo poche centinaia di passi, le paludi terminavano lasciando spazio alle Border Hills, le cui pareti scoscese erano fitte di pini. Il bosco copriva i colli, spingendosi oltre, fino alla parte settentrionale della piana di Almont.
Le pendici orientali delle colline, troppo ripide, erano disabitate, ma sulle cime dei colli e sul versante occidentale sorgevano diversi villaggi Tear. Alcuni tra gli abitanti di quei borghi si procuravano il necessario per vivere sulla piana di Almont, ma per la maggior parte erano allevatori di capre e pecore e vivevano del commercio di lana, latte e carne con gli abitanti di altri villaggi simili. Di tanto in tanto i commercianti si organizzavano tutti insieme e inviavano la loro merce, ben scortata da un corpo di guardia, fino a Nuova Londra, dove la lana aveva un ottimo valore e i pagamenti venivano fatti in denaro, non con il baratto. Quei villaggi punteggiavano le intere colline:
Woodend, Idyllwild, Devin’s Slope, Griffen… Sarebbe stato un gioco da ragazzi conquistarli, essendo gli abitanti dotati solamente di armi di legno; inoltre, non sarebbero certo stati disposti ad abbandonare i loro animali per darsi alla fuga.
Il colonnello Hall si chiese come fosse possibile amare così tanto un luogo e allo stesso tempo ringraziare Dio onnipotente che lo aveva spinto a lasciarlo. Hall era cresciuto nel villaggio di Idyllwild, figlio di un pecoraio, e l’odore di quei centri, che sapevano di lana bagnata intrisa di letame, era tanto impresso nella memoria da sembrargli di sentirlo anche allora, nonostante il villaggio più vicino si trovasse sul versante occidentale delle colline, a diverse miglia di distanza.
Era stata la sorte a far allontanare Hall da Idyllwild. Non la buona sorte, ma quella che da una parte dà e dall’altra toglie.
Il villaggio era troppo a nord per aver sofferto le conseguenze peggiori della prima invasione dei Mort. Una notte, un gruppo di saccheggiatori era arrivato, rubando alcune pecore da un recinto incustodito, ma non era accaduto altro. Alla firma del trattato, Idyllwild e i villaggi circostanti avevano festeggiato. Hall e il suo fratello gemello Simon si erano ubriacati, svegliandosi poi in un porcile a Devin’s Slope. Loro padre aveva ammesso che al villaggio era andata molto bene, e Hall si era detto d’accordo.
Almeno finché, otto mesi più tardi, il nome di Simon era stato estratto per la seconda spedizione.
Quando era accaduto Hall e Simon avevano quindici anni, quindi secondo le tradizioni delle aree di confine erano già uomini, ma per le tre settimane che seguirono i loro genitori sembrarono essersene dimenticati. La mamma aveva preparato i piatti preferiti di Simon, mentre il papà aveva concesso loro di non alzare un dito. Verso la fine del mese avevano intrapreso il viaggio fino a Nuova Londra, come avrebbero fatto tante famiglie negli anni a venire; papà era seduto a cassetta, in lacrime, mentrela mamma, nel retro del carro, si era chiusa in un tetro silenzio.
Hall e Simon avevano fatto di tutto per rallegrare la famiglia.
I genitori avevano deciso che sarebbe stato meglio che Hall non assistesse alla partenza della spedizione. L’avevano quindi lasciato in un locale lungo il Gran Viale, con tre sterline e la raccomandazione di non muoversi fino al loro ritorno. Ma Hall non era più un bambino, quindi li aveva seguiti fino al prato di fronte alla Fortezza.
Poco prima della partenza papà si era sentito male, ed era svenuto. La mamma aveva cercato di farlo tornare in sé. Perciò alla fine solo Hall aveva visto Simon sparire per sempre dalla città e dalle loro vite.
Avevano poi passato la notte a Nuova Londra, in una delle locande più disgustose del Gut. La puzza insopportabile aveva finito per spingere Hall a uscire. Aveva vagato in cerca di un cavallo da rubare, deciso a seguire le gabbie lungo la Mort Road in modo da liberare Simon o di morire nel tentativo. Fuori da una birreria aveva trovato ciò che cercava; era impegnato nel tentativo di sciogliere il complicato nodo che teneva legato l’animale, quando una mano lo aveva afferrato per la spalla.
“Cosa pensi di combinare, campagnolo?”
Si trattava di un uomo ben più grande e grosso del padre di Hall. Indossava una cotta di maglia ed era armato fino ai denti. In quell’istante Hall aveva pensato di avere solo pochi istanti di vita, e in un certo senso ne era contento. “Ho bisogno di un cavallo”.
L’uomo lo aveva guardato con aria attenta. “C’è qualcuno cui tieni, nella spedizione?”
“Non sono affari suoi”.
“Certo che sono affari miei: questo cavallo è mio”.
Hall aveva sguainato il coltello: una semplice lama per la tosatura delle pecore, ma aveva sperato che l’uomo non lo sapesse. “Non ho tempo per discutere: ho bisogno del cavallo”.
“Metti via quel coltello, ragazzino, e non fare lo sciocco: la spedizione è scortata da otto Caden. Sono certo che anche nel villaggio puzzolente da cui provieni si è sentito parlare di loro. Potrebbero spezzare il tuo ridicolo temperino con i denti”.
L’uomo si era mosso per afferrare le briglie del cavallo ma Hall aveva alzato la lama di fronte a lui. “Mi dispiace derubarti, ma non posso fare altrimenti: devo andare”.
L’altro lo aveva osservato per qualche lungo istante, come a esaminarlo. “Devo ammettere che hai fegato, ragazzino. Cosa fai, il contadino?”
“Il pastore”.
Dopo averlo guardato per qualche altro istante, l’uomo disse:
“D’accordo, ragazzino, facciamo così: ti presto il mio cavallo. Si chiama Favore: mi pare un nome adatto alla situazione. Segui la Mort Road e da’ pure un’occhiata alla spedizione.
Se sei intelligente, ti renderai conto che non potrai mai farcela ad attaccarla. A quel punto, ti resteranno due scelte: morire stupidamente, senza ottenere nulla, o tornare indietro e venire alla caserma nella zona di Wells, dove discuteremo il tuo futuro”.
“Quale futuro?”
“Il tuo futuro da soldato, ragazzino. A meno che non ti piaccia l’idea di puzzare di merda di pecora per il resto della vita”.
Hall lo aveva guardato incerto, chiedendosi se quelle parole celassero un qualche trucco.
“E se le rubo il cavallo?”
“Non accadrà. Hai in te un certo senso del dovere, o non avresti nemmeno deciso d’intraprendere questa folle impresa. E comunque, ho a disposizione un intero esercito a cavallo, nel caso debba venirti a cercare”.
L’uomo si era poi girato per tornare nel locale, lasciando Hall fuori con il palafreno.
“Chi è lei?”, aveva chiesto il giovane.
“Il maggiore Bermond del fronte destro. Ora sbrigati, ragazzino. E se il mio cavallo si fa del male, ti strapperò di dosso quella tua pelle da pecoraio”.
Dopo una notte di cavalcata a spron battuto, Hall aveva raggiunto la spedizione rendendosi conto che Bermond aveva ragione: si trattava praticamente di una fortezza. Ogni gabbia era circondata da soldati, tra i quali spiccavano i mantelli rossi dei Caden. Hall non aveva una spada, né era tanto stolto da pensare che averne una avrebbe potuto fare la benché minima differenza. Non era nemmeno riuscito ad avvicinarsi abbastanza da riuscire a riconoscere Simon: appena ci aveva provato, un Caden aveva scoccato una freccia che lo aveva mancato solo di pochi pollici. La situazione era esattamente come l’aveva descritta il Maggiore.
Aveva comunque valutato la possibilità di lanciarsi alla carica, di farla finita, di abbandonare la prospettiva di un orribile futuro durante il quale i suoi genitori, guardandolo, avrebbero sentito ancor più la mancanza di Simon. Il volto di Hall non li avrebbe mai confortati: avrebbe solo ridestato ricordi atroci.
Aveva stretto le redini, preparandosi ad attaccare, quando era accaduto qualcosa che, in seguito, non era mai riuscito a spiegarsi: tra i prigionieri stretti nella sesta gabbia, aveva improvvisamente scorto Simon. La spedizione era troppo distante perché potesse davvero aver visto qualcosa, ma aveva comunque scorto il volto di suo fratello, uguale al suo. Se si fosse lanciato alla carica non sarebbe rimasto nulla di Simon, nemmeno un ricordo del suo
passaggio. A quel punto Hall aveva capito che quella sua breve avventura non era per Simon, ma per se stesso, per placare i sensi di colpa e lenire il dolore. Egoismo e autodistruzione, insieme, come accadeva spesso.
Hall aveva fatto girare il cavallo, era tornato a Nuova Londra e si era arruolato nell’esercito del Tearling. Il maggiore Bermond lo aveva sostenuto e, anche se non lo avrebbe mai ammesso, doveva anche aver fatto valere la propria autorità, poiché Hall non si era mai trovato costretto a scortare una spedizione, nemmeno quando era un semplice fante. Ogni mese aveva mandato una parte dello stipendio alla famiglia, e nelle rare visite a Idyllwild era rimasto sorpreso nel trovare i genitori burberi ma fieri di avere un figlio nell’esercito. Aveva fatto rapidamente carriera, fino a trovarsi a ricoprire la carica di attendente del generale alla tenera età di trentun anni. Quel lavoro non dava grandi soddisfazioni: la vita di un soldato negli anni del Reggente consisteva nell’interrompere risse e andare a caccia di criminali da strapazzo. Nessun sogno di gloria. Tuttavia, quel…
“Signore?”
Hall sollevò lo sguardo. Vide di fronte a sé il tenente colonnello Blaser, il suo aiutante di campo. Aveva il viso nero di fuliggine.
“Cosa c’è?”
“È il segnale del maggiore Caffrey, signore. Siamo pronti, in attesa di un suo ordine”.
“Ancora qualche minuto”.
I due sedevano in un punto di osservazione in alto sulle pendici orientali delle colline. Il battaglione comandato da Hall si trovava lì ormai da diverse settimane e lavorava alacremente, osservando quell’enorme massa nera progredire attraverso la pianura del Mortmesne. Le dimensioni dell’esercito Mort ne rallentavano l’avanzata, ma i soldati erano finalmente arrivati, ed erano accampati sulla sponda meridionale del lago Karczmar: una città nera che si estendeva quasi a perdita d’occhio.
Attraverso il cannocchiale, Hall vedeva solo quattro sentinelle, poste a distanza regolare lungo il bordo occidentale dell’accampamento. Indossavano abiti che permettevano loro di mimetizzarsi con la superficie scura e limacciosa delle saline ma Hall conosceva molto bene le sponde del lago, e alla luce del sole nascente era facile scorgere qualunque anomalia.
Due sentinelle non si preoccupavano nemmeno di pattugliare il tratto assegnato: sembravano assopite. I Mort riposavano tranquilli, e non avevano motivo di fare altrimenti: il rapporto fatto da Mazza Chiodata riferiva che l’esercito Mort consisteva di oltre ventimila uomini, con spade e armature di ottimo acciaio, le armi con punte in ferro. Nel contempo, l’esercito del Tearling era oggettivamente debole. La colpa era Bermond, almeno in parte. Hall gli voleva bene come a un padre ma Bermond si era lasciato andare durante il tempo di pace. Pattugliava il Tearling come un fattore che ispezionava i propri possedimenti, non come un soldato pronto alla battaglia. L’esercito Tear non era pronto per la guerra ma era costretto comunque ad affrontarne una.
L’attenzione di Hall tornò, come spesso era accaduto nella settimana appena passata, ai cannoni, custoditi all’interno di una formidabile fortificazione al centro dell’accampamento Mort.
Pur non dubitando che la regina avesse avuto una qualche visione, Hall non le aveva creduto quando aveva descritto i cannoni; almeno fino a quando non li aveva visti con i propri occhi.
Ma proprio in quel momento la luce proveniente da est faceva luccicare quei mostri di acciaio, accentuandone le forme cilindriche, lisce, e Hall provò una rabbia che ormai conosceva bene.Era molto a suo agio con la spada, ma si trattava di un’arma con limiti precisi. I Mort stavano cambiando le regole d’ingaggio della guerra, quelle che Hall conosceva da sempre.
“Va bene”, sussurrò riponendo il cannocchiale, senza rendersi conto di aver parlato ad alta voce. “Faremo lo stesso anche noi”.
Gli Appuntamenti Multiplayer Edizioni al Salone di Torino 2016
Anche per quest'anno è quasi giunto uno degli appuntamenti più attesi dai lettori di tutta Italia: il Salone del Libro di Torino!
Anche noi saremo presenti, ancora una volta, alla mitica kermesse libraria... e porteremo con noi tantissime novità! Presso il nostro stand troverete i migliori titoli del 2016 come Nexus, Cronache Zombie: Un Nuovo Orizzonte, il fantastico Star Wars: Lost Stars e soprattutto The Invasion of the Tearling!
Non solo potrete trovare il seguito di The Queen of the Tearling in anteprima nazionale, ma avrete anche la possibilità di mettervi nei panni della regina Kelsea indossando mantello e corona... e acquistando il romanzo riceverete in omaggio un poster con un'illustrazione esclusiva!
Come ospiti di quest'anno avremo con noi Matteo Strukul (sabato 14 dalle 15:00), pronto a incontrare i fan de I Cavalieri del Nord... e perchè no, magari a raccontare qualche succoso dettaglio del secondo capitolo della saga di Wolf e Kira!
Lunedì 16 maggio sarà poi la volta di Roberto Recchioni che nel primo pomeriggio incontrerà i lettori per alcune sessioni di firme e autografi del poster con l’illustrazione (a tiratura limitata!) della copertina del prossimo romanzo Ringo – Chiamata alle Armi, disegnata da Emiliano Mammucari!
Ricordiamo che il volume, collocato cronologicamente tra la prima e la seconda stagione del fumetto bonelliano Orfani, uscirà in una prima tiratura limitata in occasione di Lucca Comics & Games 2016.
Vi aspettiamo dunque dal 12 al 16 maggio al Padiglione 2 – Stand KJ125... non mancate!
Orfani il fumetto di Sergio Bonelli Editore diventerà romanzo
Abbiamo aspettato molto tempo prima di dare questa notizia e questa settimana, in cui tutti parlano di Salone Del Libro, anche noi abbiamo scelto di fare il nostro annuncio.
Il prossimo novembre, e in anteprima a Lucca Comics & Games il 28 ottobre 2016, vi presenteremo il primo romanzo ispirato al fumetto di Sergio Bonelli Editore: Orfani.
L'autore della nuova storia "RINGO – Chiamata alle Armi" sarà Roberto Recchioni; il volume sarà illustrato da Emiliano Mammucari.
Sull'onda dello stile della nostra collana Multipop, l'intenzione e la voglia è quella di darvi un libro bello e ricco.
Il libro infatti uscirà in una prima tiratura limitata e sarà illustrato e tutto a colori, chiaramente ispirato alla light novel giapponese, curato in ogni dettaglio e con accessori da collezione, per rendere l’esperienza di lettura ricca e appagante e soddisfare sia i fan della saga, che gli appassionati di fantascienza di guerra.
Intanto al Salone Internazionale del Libro di Torino regaleremo a tutti i visitatori e ai fan della saga una stampa a tiratura limitata con l’immagine di copertina del nuovo romanzo, disegnata da Emiliano Mammucari.
Roberto Recchioni sarà presente alla kermesse torinese lunedì 16 maggio. Nel pomeriggio incontrerà i lettori per alcune sessioni di firme e autografi presso il nostro stand (Pad. 2 – Stand KJ125).
Qualcosa in più sulla storia? Eccovi accontentati.
Ringo “Chiamata Alle Armi” andrà a colmare un interludio temporale che la graphic novel Bonelli non ha colmato: è l’arco temporale che intercorre tra la fine della prima stagione e l’inizio della seconda. Sono gli anni perduti di Ringo, quelli in cui il giovane uomo, unico superstite di una durissima battaglia fratricida tra i componenti della squadra degli Orfani, lo vedranno diventare il leader controverso di un gruppo di ribelli addestrati alla rivoluzione contro un governo iniquo e corrotto, in un’Italia distopica e in un futuro imprecisato.
Il mondo è sull'orlo dell'apocalisse.
Jsana Juric, leader del Governo Straordinario di Crisi, è al potere e governa il mondo con pugno d'acciaio in guanto di acciaio.
La presidente dice di agire in nome di un bene maggiore.
Ma è una bugia.
Ringo, un orfano trasformato dalla Juric in un super-soldato, conosce la verità e ha deciso di opporsi allo spietato nuovo ordine mondiale e alla donna che lo ha creato.
Sono anni di guerra.
Sono gli anni della rivoluzione.
Per chi non conoscesse il fumetto invece, fate un ripassino e poi fiondatevi a recuperare...
Le stagioni di Sergio Bonelli Editore
Il primo numero di ORFANI è stato pubblicato nell'ottobre 2013. Attualmente la serie è arrivata alla terza stagione. Nell'arco dei tre anni è stata raccontata la storia di un gruppo di bambini, orfani di guerra, addestrati per diventare soldati del futuro alle prese con un nemico sconosciuto. Da bambini ad adolescenti fino a diventare adulti, gli orfani sono cambiati, sono nate amicizie, amori, alcuni non ce l'hanno fatta, altri si sono alleati con il nemico. Solo uno è riuscito ad andare dritto per la sua strada: Ringo, un guerriero in grado di fronteggiare il male, pronto a tutto pur di salvare chi gli sta a cuore e di assicurargli un Nuovo Mondo in cui vivere...
Orfani è stata pensata per essere la prima serie interamente a colori di Sergio Bonelli Editore e si propone come un fumetto ad alto tasso di spettacolarità, grazie anche ai disegni (oltre a quelli di Emiliano Mammucari) e ai colori dei migliori fumettisti italiani, tra cui: Gigi Cavenago,Werther Dell'Edera, Carlo Ambrosini, Giancarlo Olivares, Paolo Bacilieri, Lorenzo De Felici, Annalisa Leoni, Alessia Pastorello, Giovanna Niro e Stefania Aquaro.
Le copertine sono state firmate da Massimo Carnevale (ORFANI), Emiliano Mammucari (ORFANI: RINGO) e Matteo De Longis (ORFANI: Nuovo Mondo).
Nel corso degli anni anche il team di sceneggiatori si è ampliato con Mauro Uzzeo, Michele Monteleone, Giovanni Masi e Luca Vanzella.
L'edizione definitiva formato deluxe di BAO Publishing in libreria
L'edizione definitiva di Orfani, la prima serie a colori della Sergio Bonelli Editore, ideata da Roberto Recchioni, debutta in tutte le librerie nel 2014 per BAO Publishing, in un curatissimo volume oversize che contiene i primi tre capitoli della saga, cartonato e su carta di altissima qualità, con una grande quantità di extra, materiali preparatori, commenti degli autori. BAO proporrà tutta la prima stagione in libreria in quattro volumi a cadenza trimestrale, lcon e copertine inedite di Emiliano Mammucari per la versione regular e di Massimo Carnevale per la versione variant. Dopo il successo dell'edizione definitiva della prima stagione di Orfani, BAO Publishing, pubblica anche la seconda stagione di Orfani: Ringo, in libreria e fumetteria a partire dal 3 luglio 2015, sempre in volumi che comprendono tre capitoli ciascuno della serie ed extra inediti. I volumi di Ringo sono disponibili nell'edizione regular con le copertine inedite di Emiliano Mammucari e nell'edizione variant con le copertina inedite di Gigi Cavenago.